Tutte le ardue sfide di Renzi
e Padoan su spese e tasse
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Il commento
dell'economista Giuseppe Pennisi
A Ferragosto
c’è un Ministero che onora la Festa dell’Assunta lavorando: quello
dell’Economia e delle finanze (in gergo Mef), specialmente la Ragioneria
Generale dello Stato. Deve predisporre il Documento di Economia e Finanza (DEF)
e il testo della legge di bilancio per metà settembre. E non sempre riceve l’input
politico in tempo. In particolare, già oggi, dovrebbero essere chiari gli
indirizzi in materia di spesa previdenziale, di investimenti pubblici, di
eliminazione dei ’rami secchi’. Invece si ha l’impressione che sia tutto in
alto mare. In materia di previdenza, ad esempio, una valanga di interviste sta
dando luogo a notevole incertezza e confusione sui numeri-chiave di eventuali
misure. Nel campo degli investimenti pubblici, non si sa da dove verranno le
risorse per le opere promesse (nuove e/o da completare). Forse sarebbe
auspicabile una moratoria a interviste e a partecipazione a programmi
televisivi per facilitare la concentrazione sui problemi principali. E quindi
un chiarimento delle idee.
I problemi
che erano gravi una settimana fa lo sono diventati ancora di più dopo la
pubblicazione il 12 agosto dei dati sull’andamento macroeconomico. Facciamo un
passo indietro. Quando sono stati presentati il DEF e la legge di stabilità
(allora si chiamava così) per l’anno in corso, l’ipotesi di base era un aumento
del Pil dell’1,2%. I maggiori istituti economici e finanziari internazionali
(Fondo monetario, Ocse) mostravano elaborazioni secondo le quali la crescita
del Pil dell’Italia si sarebbe aggirata sull’1%. Ancora meno ottimisti i venti
istituti del così detto gruppo del consensus: mediamente stimavano un
tasso di crescita dello 0,8%. C’è chi ha detto che si trattava di differenze
percentuali molto piccole, dimenticando che uno 0,1 in più o in meno fa una
differenza significativa in termini di gettito e di spese (e quindi di deficit
e di debito).
Pure i
‘gufi’ pessimisti dell’autunno 2015 si sono rivelati ottimisti: negli ultimi
tre mesi il Pil dell’Italia è rimasto stazionario mentre quello dell’eurozona è
cresciuto mediamente dello 0,3% e quello della Germania dello 0,4% .
Tendenzialmente, ossia se non ci sarà una (peraltro inattesa) volata nel
secondo semestre, il Pil del nostro Paese aumenterà nel 2016 dello 0,7% o anche
dello 0,6% , ossia poco più della metà di quanto previsto nel DEF e sulla cui
base sono stati predisposte le misure di politica di bilancio. Ciò vuole dire
che se non verranno prese misure aggiuntive l’indebitamento netto delle
pubbliche amministrazioni si porrebbe sul 2,3% invece che all’1,8% (contrattato
l’anno scorso con i nostri partner europei).
Non solo è
probabile che scatteranno le “clausole di salvaguardia” (aumento di Iva e di
accise) ma potrebbe iniziare una procedura d’infrazione perché il rapporto tra
debito e Pil invece di viaggiare verso il 60% del Pil sta toccando il 135% del
Pil. Mentre un anno fa il Governo italiano si presentava ai partner europei
sull’onda di successi elettorali, oggi è stato indebolito dal risultato delle
elezioni amministrative e da sondaggi che danno in aumento il No alla riforma
costituzionale proposta dall’esecutivo. Inoltre, è difficile che i partner
europei ci consentano di contravvenire ancora una volta al Fiscal Compact ed
alla legge costituzionale rinforzata con la quale ci siamo impegnati a
raggiungere l’equilibrio strutturale di bilancio già nel 2014 (e per il quale
stiamo chiedendo ed ottenendo rinvii di anno in anno).
Bastano
quattro conti per concludere che per riportare la situazione quale prevista
l’autunno scorso ci vorrebbe una manovra di 20-30 miliardi di gettito
aggiuntivo e/o tagli alle spese nei prossimi sei mesi. Ciò vorrebbe dire
azzerare le mezze-promesse fatte trapelare ai pensionati ed ai ceti a basso
reddito, posporre ancora una volta i contratti nel pubblico impiego, ulteriori
rinvii all’investimento pubblico. Con il rischio di incidere negativamente
sulla domanda e quindi avvitarsi in una nuova spirale recessiva. Al rischio
economico, si aggiunge quello politico: l’aumento del disaggio, la percezione
che mezze promesse ed impegni sono stati disattesi non può non gonfiare il fronte
del No.
Il viaggio
verso la legge di bilancio è, quindi, procelloso e può incidere, in misura
determinante, sull’esito del referendum e sugli equilibri politici. I mercati
lo hanno già messo in conto; se dopo il referendum il Presidente del Consiglio
onorerà l’impegno di lasciare la vita politica, le fibrillazioni finanziarie
saranno poche e di breve durata.
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