FINANZA E POLITICA/ La "domanda scomoda"
per Draghi
Pubblicazione: lunedì 8 agosto 2016
Mario Draghi (Lapresse)
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NEWS Economia e
Finanza
La prima
settimana di agosto si è chiusa con due non buone notizie per l'Italia e,
quindi, per chi ne ha responsabilità di governo. I dati Istat sulla produzione
industriale indicano che in termini di manifatturiero (l'asse portante di un
Paese come il nostro) non si è ancora avuto non tanto una svolta quanto segnale
che si è ricominciata a risalire la china. È in corso una disputa di lana
caprina se la contrazione nell'ultimo trimestre sia stata dello 0,4% o dell'1%:
si tratta comunque della continuazione del declino nonostante il Governo, nel
suo discorso d'investitura, si sia impegnato a dare priorità assoluta al
rilancio dell'economia, ma successivamente è stato assorbito da riforme
istituzionali ed elettorali, unioni civili e ora liberalizzazione delle droghe
leggere. Ancora peggio la nota mensile Istat sull'andamento dell'economia
italiana: tratteggia un quadro impietoso di cui ciascuno può leggere i dettagli
andando sul sito Istat.
A queste
pessime notizie sugli ultimi mesi e sul futuro a breve termine, si aggiungono
gli avvertimenti lanciati dal Presidente della Bundesbank Jens Weidmann il 4
agosto in un'intervista concessa simultaneamente a Die Welt e a Il
Corriere della Sera: non si cambiano le regole sottoscritte per favorire la
tenuta in carica di questo o quel Governo. Quindi, la Bundesbank (che su questa
linea non è affatto sola) non è disposta a interpretazioni estensive
dell'unione bancaria in tema di bail-in e si opporrà, sul fronte della politica
di bilancio, a qualsiasi scambio politico in tema di flessibilità oggi e
riforme domani. Una doccia fredda per chi su questo scambio puntava
nell'approntare la Legge di bilancio. Non solo, Weidmann ha confermato
l'indiscrezione pubblicata su questa testata il primo agosto secondo cui il
Quantitative easing si troverà presto con la difficoltà di reperire sul
mercato secondario titoli emessi dalla Repubblica Federale Tedesca. Un ostacolo
oggettivo all'espansione del Qe nelle modalità attuate dalla Banca
centrale europea dal marzo 2015.
Sugli effetti
del Qe si sono espressi numerosi economisti. In una prima fase, gli scarsi
risultati sono stati attribuiti al fatto che le banche si tenevano la liquidità
in pancia invece di aumentare i prestiti alle imprese e favorire così sviluppo
produttivo e occupazione. In una seconda, è scoppiato il bubbone dei
"crediti deteriorati" e, quindi, dell'esigenza degli istituti per
coprire con "denaro buono" le perdite risultanti da "denaro
cattivo".
La situazione,
però, è molto più complessa. Da un lato , occorre chiedersi, con uno scenario
contro fattuale, se il quadro non sarebbe stato ancora peggiore senza Qe, ossia
se non sarebbero aumentati i rischi di fallimenti bancari. Da un altro, occorre
chiedersi quanto costa il Qe. È un tema spinoso che, forse in ossequio all'italiano
che è Presidente della Bce, la nostra stampa non ha mai osato sollevare. Ne
parla quella di altri Paesi sulla base, principalmente, di un lavoro della
Banca dei regolamenti internazionali, il BIS Working Paper Mp 571, di cui sono
autori un economista dell'istituto con sede a Basilea, Philip Turner, e Francis
Breedon della University of London, Queen Mary College.
In termini
semplici, l'acquisto di titoli pubblici sul mercato secondario, invece che
direttamente dagli istituti di emissioni (i ministeri del Tesoro o
dell'Economia e delle Finanze, a seconda dei Paesi) comporta costi di
transazione come quando si comprano i biglietti del treno o del teatro
oppure ancora una casa tramite un'agenzia. Questa è l'unica differenza
pratica - sottolinea lo studio - rispetto ad acquisti diretti
dagli emittenti. La stima dei costi di transazione è dello 0,5% delle
operazioni effettuate (60 miliardi di euro al mese dal marzo 2015).
È giunto,
quindi il momento di fare un serio check up al Qe anche e
soprattutto sulla base di queste considerazioni.
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