martedì 30 agosto 2016

Chi sono i tafazzisti che plaudono all’affossamento del Ttip in Formiche 31 agosto




Chi sono i tafazzisti che plaudono all’affossamento del Ttip
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Chi sono i tafazzisti che plaudono all’affossamento del Ttip
Il commento dell'economista Giuseppe Pennisi
Quando, con il dovuto distacco, gli storici economici si occuperanno di questi lustri, porranno probabilmente il 2008 (crisi finanziaria) come l’anno dell’inizio “convenzionale” della deglobalizzazione ed il 2016 quello della fine (fine del negoziato sulla partnership economica transatlantica e non-ratifica di quello analogo per la partnership attraverso il Pacifico).
Se ve vedono i segni concreti, di cui la crisi finanziaria, variamente collegata alla finanza strutturata ed ai mutui subprime, è un sintomo piuttosto che una determinante. In altri termini, occorre capovolgere le affermazioni banali sulle implicazioni (sull’economia reale) del tormentone sulle piazze finanziare e comprendere come quanto avviene, ormai da anni, sui mercati finanziari è, piuttosto, conseguenza di disfunzioni dell’economia reale. Sono proprio gli esperti della moneta a dirlo.
Ad esempio, Paul Tucker, ex Governatore della Bank of England, sottolinea due punti importati:
a) è la prima volta che una crisi di questa portata avviene in periodo di pace;
b) una delle sue determinanti è il “Social Contract” (noi lo chiameremmo giornalisticamente l’inciucio) tra banche centrali ed autorità politiche per fare fronte a problemi economici sistemici.
Tale “Social Contract” ha dato priorità all’innovazione finanziaria, senza, però, definire regole congrue. Sino a quando è giunta l’implosione; una rarità in tempo di pace e dopo che, in seguito alla depressione degli Anni ’30, le autorità di politica economica hanno appreso a gestire domanda aggregata con strumentazione tale, in certi casi, di consentire pure il “fine tuning” (virtuosismo). Considerazioni simili si leggono in una raccolta di saggi, a cura di Gian Giacomo Nardozzi: “Asset Prices and Monetary Policy Rules: Shall we Forsake Financial Markets Stabilization?” (prezzi delle attività economiche e regole di politica monetaria: dobbiamo rinunciare alla stabilizzazione dei mercati finanziari”?). Il titolo della raccolta è eloquente: ci induce a guardare con maggiore attenzione all’economia reale.
Un’analisi di documenti tecnici (apparentemente solo per gli “addetti ai lavori”) sul commercio internazionale evidenzia che è cambiata l’elasticità degli scambi mondiali di manufatti alle variazioni del pil: dopo essere stata, nel corso degli Anni ’90, attorno a 2,5 (ossia gli scambi mondiali aumentavano di 2,5 punti percentuali quando il pil cresceva di un punto percentuale), risulta in questo primo scorcio di XXI secolo inferiore a 2 e pare tenda ad approssimarsi a 1. In parole povere, e senza tanti tecnicismi, ciò vuole dire che il meccanismo tradizionale di propagazione della crescita si sta indebolendo. E lo sta facendo molto rapidamente.
Altro indicatore di rilievo è il vero e proprio crollo degli investimenti diretti all’estero: pur tenendo conto delle scorrerie dei “fondi sovrani” dei “nouveaux riches” dell’economia mondiale, dall’inizio del secolo il flusso di investimenti diretti (non in portafoglio) all’estero è quasi dimezzato rispetto all’ultimo decennio del secolo scorso.
Non ci sono dati attendibili sulle migrazioni internazionali; è, tuttavia, chiaro che quasi tutti i Paesi di immigrazione netta stanno adottando politiche dirette a contenere i flussi, oppure ad incoraggiare solo quelli di professionalità (informatici, paramedici) di cui l’offerta è generalmente carente nel mondo industrializzato ad alto reddito.
Il campo dove la deglobalizzazione è più evidente è la liberalizzazione e l’apertura del commercio internazionale. Dopo il fallimento della trattativa  multilaterale Wto/Omc (World trade organization, Organizzazione mondiale del commerciale)  sono in corso due tendenze piene di insidie (per l’integrazione economica internazionale): il rafforzarsi di mercati comuni o zone di libero scambio regionali ed il moltiplicarsi di accordi commerciali bilaterali.
Il pullulare di accordi bilaterali – sostiene, in un saggio fresco di stampa, Jeffrey Schott dell’Institute of International Economics – minaccia di frammentare il commercio o almeno di ingabbiarlo in una ragnatela simile ad un labirinto. I due trattatiti di partnership attraverso l’Atlantico ed attraverso il Pacifico avrebbero dovuto, almeno, arrestare questa tendenza.
Le esperienze del passato insegnano che le deglobalizzazioni non portano nulla di buono: sono spesso state i prolegomeni di guerre di vasta entità: la prima grande deglobalizzazione 1870-1910 si chiuse con due colpi di pistola a Sarajevo. Forse, il conflitto armato risultante dalla deglobalizzazione è già iniziato; il terrorismo ed i suoi college, ormai sparsi in tutto il mondo (anche in Italia) sono le sue avanguardie. E non ce ne accorgiamo.
Chi sono – chiediamoci – gli alleati della deglobalizzazione? Non sono certo i rumorosi (ma globalizatissimi) “no global”. Hanno la capacità di organizzare manifestazioni ma non di invertire tendenze. I veri alleati della deglobalizzazione sono quelli che, ai tempi del Kennedy Round, ossia alla metà degli Anni Sessanta, Mario Casari (Università di Padova, uno dei più acuti studiosi italiani di economia internazionale dell’epoca) chiamava i ”barracuda-esperti”, sovente alti funzionari molto vicini a settori produttivi intrinsecamente protezionisti, nonché a sindacati anch’essi sempre più ostili, in sostanza, alla globalizzazione anche quando, a parole, se ne professano favorevoli. I deglobalizzatori hanno trovato nuova nobiltà nell’atmosfera neo-colbertiana che, da qualche anno, aleggia in modo sempre meno strisciante e sempre più palese nelle cancellerie e nei Ministeri economici dei maggiori Paesi industriali. Gli alleati della deglobalizzazione sono tra noi. Ci portano verso un mondo meno prospero. Prendiamone contezza.
Prendiamo anche contezza che, su questo fronte, l’Italia è stata esemplare grazie alla fermezza liberista ed indefessa del Ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda. Occorre dirlo a voce alta, specialmente da chi, come il vostro chroniqueur, spesso molto critico dell’attuale esecutivo.

Pascal Lamy
Pascal Lamy
Ignacio Garcia Bercero e Fabrizio Saccomanni
Ignacio Garcia Bercero
Pascal Lamy
Pascal Lamy
Carlo Calenda
o.

LA ‘NORMA’ AFRICANA DELLA FENICE in Il Sussidiario 31 agosto



LA ‘NORMA’ AFRICANA DELLA FENICE
Giuseppe Pennisi

Lo scorso febbraio, recensendo la produzione al San Carlo di Napoli di Norma  di Vincenzo Bellini, su libretto di Felice Romani, ricordai che questa opera non è solamente uno dei più impervi lavori del ‘belcanto’ ma anche opera difficile a cui dare un’ambientazione. Gianandrea Gavazzeni ha più volte sostenuto  ‘l’ambivalenza neoclassica romantica’ del capolavoro belliniano  così come era il lavoro teatrale. Norma o l’infanticidio di Alexandre Soumet andato in scena con grande successo a Parigi nel 1831, Soumet, poeta ed accademico di Francia allora molto  apprezzato ma oggi noto solamente per avere ispirato Bellini, si poneva come ‘pontiere’ tra il neoclassicismo, allora in declino, e l’emergente romanticismo”.
A mia memoria, la sola produzione recente in cui si cercava di cogliere ‘l’ambivalenza neoclassica romantica’ è quella messa in scena dal Massimo Bellini di Catania nella primavera 2007 con la regia di Walter Pagliaro, le scene e i costumi di Alberto Verso, Giuliano Carrella sul podio e Dimitra Theodossiou, Carlos Ventre; Nidia Palacios; Riccardo Zanellato nei ruoli principali. Una produzione che il Massimo Bellini ha portato anche in Giappone.
Da allora, ho visto ed ascoltato allestimenti più diversi ma tutti lontani dalla l’ambivalenza neoclassica romantica. Allo Sferisterio di Macerata, Massimo Gasperon spostò l’azione di Norma dalle foreste del “De Bello Gallico”  al Tibet, occupato dai cinesi. In produzioni recenti, la vicenda è stata spostata alla guerra partigiana negli ultimi anni della seconda guerra mondiale: si pensi a quella di Jossi Wieler e Sergio Morabito giunta a Palermo nel 2014 dopo essere stata vista in vari teatri che ha ottenuto l’Oscar della critica musicale tedesca e ha ispirato la messa in scena di Moshe Leiser e Patrice Caurier, con Cecilia Bartoli. Allestimento che a sua volta ha avuto l’Oscar internazionale della lirica nel 2013 e che per tre anni ha fatto il “tutto esaurito” al Festival di Salisburgo. Due produzioni di tutto rilievo ma che non puntavano sull’ambivalenza tra neoclassicismo e romanticismo, o meglio sulla transizione da un stile ad un altro.
Nella edizione di Norma  in scena a La Fenice sino al 18 settembre (una ripresa di uno spettacolo che ha avuto una notevole eco nel 2015) , l’azione è ambientata in Africa occidentale francese ai tempi delle prime avventure coloniali. La  produzione è affidata ad una famosa artista afroamericana  Kara Walker. Nel visivo, Kara Walker  ha una fama internazionale per le sue– silhouettes e sculture, ispirate all’arte tradizionale africana, nonché per le sue installazioni monumentali. Inoltre , una Norma basata sulle astrazioni del visivo africano, si coniuga bene con la 56sima Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia.
Nonostante quanto scritto in molte testate non è la prima volta che Norma viene collocata in Africa. Ne ricordo un’edizione del 1976 , che debuttò al Wolf Trap Festival in Virginia e venne ripresa dal Metropolitan , in cui la protagonista era Shirley Verrett (un mezzo soprano, Adalgisa era un soprano)  A parte la trasposizione nel continente nero, lo spettacolo era molto tradizionale (la regia, se ben rammento , era affidata a Tito Capobianco) . Nella seconda metà degli Anni Settanta, il contrasto tra americani bianchi (i romani) e quelli di origine africana aveva un indubbio significato anche se l’impianto generale era piuttosto tradizionale.
Kara Walter è conosciuta per il suo impegno sociale contro la violenza , specialmente nei confronti delle donne, contro le discriminazioni, contro il razzismo. Sono temi che trasudano nella sua arte visiva.  Nel programma di sala, Kara Walker specifica che l’azione è posta nel Congo ‘francese’ quando il Governatore  era l’esploratore italiano Pietro Savorgnan di Brazzà; secondo la recente storiografia africana, non sarebbe stato un mitico portatore di civiltà, ma un violentatore di donne congolesi (e forse per questo motivo morì prematuramente, o per malattie veneree , o per  omicidio, dopo avere posseduto mogli di re africani). Ho conosciuto molto bene l’Africa occidentale nei circa vent’anni i cui ho lavorato per la Banca Mondiale e due agenzie specializzate delle Nazioni; la concezione di sensualità e rapporti sessuali tra l’Europa e l’Africa occidentale è tanto differente che non credo alla tesi dell’omicidio per questioni di letto. E’, tuttavia, innegabile che i ‘bianchi’ considerassero inferiori i nativi.
Le scene che hanno un indubbio impatto . Lo hanno anche i costumi dove domina il bianco ed il rosso, con qualche punta di nero. Manca , però, una vera regia  La Walker ha preso come assistente Charles Fabius, consueto collaboratore di Robert Wilson, uso quindi a movimenti simmetrici più che  ad un dramma di lacrime e sangue. I solisti paiono lasciati ‘ciascuno a suo modo’ sul palcoscenico . Un po’ come negli Anni Cinquanta. Anche se alcuni solisti sono di grande esperienza e recitano molto bene, nell’insieme i sei solisti sembrano in cerca di una regia.
L’opera viene sovente  affidata ad un maestro concertatore di secondo piano nella convinzione che la partitura è intesa principalmente a servire il canto. Ci si dimentica che l’orchestrazione è tanto ricca e complessa che Richard Wagner la considerava un modello per quelli che sarebbero stati i suoi muskidrama E’ stato chiamato Daniele Callegari che legge la partitura come una ‘tragedia lirica’, densa di una vasta gamma di tinte e di colori e mette in rilievo il sinfonismo continuo tra recitativi, arie e terzetti (davvero innovativo quello con cui si chiude il primo atto, nella prassi dell’epoca un concertato, ma in Norma si sentono solamente lontani accenni del coro). Ottimo il coro diretto da Claudio Marino Moretti.
Di alto livello la parte musicale, soprattutto l’interpretazione delle due protagoniste. Marella Devia, a 68 anni, affronta Norma solo dal 2013. Rispetto alla sua interpretazione al San Carlo di Napoli lo scorso febbraio, ha approfondito l’emissione sfoggiando un bellissimo timbro, una splendida linea vocale, un superbo legato e un esemplare padronanza del fiato negli acuti e nella coloratura. Le più piccole dimensioni de La Fenice (rispetto al San Carlo) consentono di apprezzare meglio questo straordinario soprano. Accanto a lei, la giovane Roxana Contantinescu è una mirabile Adalgisa piena di sfumature. Davvero commovente il loro duetto “Mira o Norma”. A fronte di queste due protagoniste, gli altri quasi scompaiono. Lo stesso Pollione/Savorgnan di Brazzà impersonato da Roberto Aronica passa dallo stentoreo al melodico con meno grazie e destrezza che ci si aspetterebbe. Simon Lim (Oroveso), Anna Bordigon (Clotilde) e Antonello Ceron (Flavio) diventano poco più che comparse.
In sintesi, una produzione discutibile ma con una grandissima  esecuzione musicale.

lunedì 29 agosto 2016

Daniela Dessì in Music and Vision 30agosto



Daniela Dessì
Italian soprano Daniela Dessì was born in Genoa on 14 May 1957. She studied singing and piano at the Conservatory 'Arrigo Boito' in Parma and later specialised in chamber singing at the Accademia Chigiana in Siena. She won first prize in the 1980 international competition organised by RAI TV.
Dessì was known for the breadth of her repertoire, and performances at La Scala, Metropolitan Opera, Vienna State Opera, Deutsche Oper Berlin, and at most other major opera houses internationally.
She fell out famously with Franco Zeffirelli in 2010 when the Italian director commented that she was too 'well built' to play Violetta in his production of La traviata.
In 2011, she was awarded the Prize Belcanto 'Celletti', recognized as an 'absolute soprano'.
Dessì died in Brescia on 20 August 2016, aged only fifty-nine, from colon cancer, following a short illness.
A selection of M&V articles about Daniela Dessì

L’apriorismo di Mises in Centro Studi Impresa Lavoro



L’apriorismo di Mises

L’apriorismo di Mises

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Un paper di Scott Scheall della Arizona State University (il working paper No.2016-23 del Center for Historical Political Economy) fa il punto su un tema molto dibattuto da liberali e liberisti: “quanto è estremista l’apriorismo di Mises” (“What is Extreme about Mises” )?
Il saggio è breve ma succoso e merita di essere letto in una fase, come l’attuale, in cui anche esponenti (sino a poco tempo fa) del pensiero marxista si autoproclamano liberali. Scheall sottolinea che c’è qualcosa di “estremo nell’apriorismo di Mises”, soprattutto la sua giustificazione epistemologica che basa la teoria economica su alcuni elementi portanti “aprioristici”. I critici di Mises considerano l’epistemologia di Mises come basata su conoscenze ed affermazioni “aprioristiche” . Molti dei suoi sostenitori hanno ignorato o dato poco peso a questa critica. Quindi, la critica è diretta meno verso Mises e piuttosto verso la letteratura secondaria,ignorando che critici di rango hanno considerato estremista l’apriorismo di Mises. Una difesa debole perché l’estremismo apriorista è una virtù dei liberali veramente liberisti. Analogamente, Voltaire si considerava intollerante nei confronti degli intolleranti.
E per sorridere, il caos delle elezioni americane. Se vince Hillary per la prima volta due Presidenti andranno a letto alla Casa Bianca. Se vince Trump per la prima volta un miliardario bianco andrà ad abitare nella casa da cui è stata sfrattata una coppia nera.

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