L’idea del
Fmi: sull’inflazione la Bce alzi il target al 4%
GIUSEPPE PENNISI
L’
Istat mercoledì ha certificato che i prezzi al consumo non hanno subito alcun aumento in luglio ma una leggerissima contrazione (-0,1%) rispetto al livello raggiunto in giugno. Mentre in Sicilia, Sardegna e Trentino, gli indici dell’andamento dei prezzi hanno segnato piccoli aumenti, in tutte le altre Regioni hanno accusato riduzioni, particolarmente forti in dieci grandi città. Perché dovremmo preoccuparci? Di solito è l’incessante crescita dei prezzi, principalmente di beni e di servizi considerati 'di prima necessità', a far tremare i polsi alle massaie ed ai padri di famiglia. Gli economisti si innervosiscono per la loro contrazione. Il fenomeno avviene al termine di un decennio di stagnazione e dopo quattro anni della recessione più lunga dalla fine delle Seconda guerra mondiale. Può essere l’inizio di una deflazione in cui l’Italia si avvita su se stessa: i consumatori ritardano acquisti in attesa di ulteriori riduzioni dei prezzi, la produzione diminuisce, la disoccupazione cresce. Lo stessa ribasso dei tassi d’interesse comporta una riduzione dei rendimenti per molte forme di previdenza integrativa; quindi o si aumenta il montante con accantonamenti più alti o nella terza età ci si dovrà accontentare di assegni più sottili (anche in quanto la previdenza pubblica viene 'rivalutata' in base all’andamento del Pil). La deflazione, quindi, pesa anche sulle nuove generazioni. E fa paura. Internazionale (il Working Paper 14/92) argomenta, con solide analisi, che occorre portare la regola dal 2% al 4%: la crisi che tormenta l’eurozona sarebbe meno severa se l’asticella dei prezzi fosse più alta. All’interno del servizio studi della Bce, cominciano a circolare lavori in questo senso. Soprattutto, la misura, pur non risolutiva, avrebbe un effetto sui comportamenti di imprese e consumatori: la consapevolezza che la Bce è pronta ad accettare un più alto tasso d’inflazione sarebbe un segnale importante che si volta pagina rispetto ad un’austerità basata su parametri e vincoli di cui non si Nel Ventesimo secolo da deflazioni di peso si è usciti o con un forte impegno della mano pubblica (finanziando in deficit spese soprattutto per investimenti) oppure scivolando verso regimi politici autoritari. Nessuno si augura questa seconda prospettiva. Le regole dell’unione monetaria chiedono che si vada verso il pareggio di bilancio. La deflazione – affermano studi nell’ultimo numero del Journal of Common Market Studies – potrebbe essere la miccia della 'disintegrazione europea' (è il titolo del saggio di Hans Vollaard dell’Università di Leiden in Olanda).
Può la Banca centrale europea dare un contributo? Probabilmente, sì. Non tanto con misure 'non convenzionali' (come gli Omt, Outright Monetary Transactions, dirette principalmente all’acquisto di titoli del debito pubblico). Quanto con azioni mirate a mostrare che le autorità monetarie europee sono pronte ad accettare un tasso moderato d’inflazione per uscire dal pericolo della 'deflazione'.
Il primo regolamento approvato dagli organi di governo della Bce afferma che l’istituto deve intervenire per stabilizzare i mercati (ossia in senso restrittivo) se il tasso d’inflazione supera il 2% l’anno. Da settimane , un documento del Fondo Monetario toccano ancora i benefici.
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