Germania,
perché la frenata ha due facce
GIUSEPPE PENNISI
Sotto il profilo economico, la Repubblica federale tedesca ha nell’Unione Europea un peso almeno tanto importante quanto quello che l’Impero Guglielmino aveva ai tempi di Otto von Bismarck: era così rilevante che un’accelerazione ed una frenata del suo andamento economico avevano ripercussioni in tutto il 'consesso', anche negli Stati più lontani. Non era, però, abbastanza forte da potere risolvere tutti i problemi europei.
È tenendo presente questo retaggio storico (oggi attuale quanto non mai) che occorre chiedersi se la contrazione del Pil tedesco nel secondo trimestre di questo 2014 è una frenata oppure il segno di un cambio di marcia. In un documento, l’Economist Intelligence Unit sostiene l’ipotesi della frenata, ossia di una tendenza di breve periodo dovuta in gran misura, sul piano interno, ad un forte rallentamento delle costruzioni (sia pubbliche sia private) a carattere temporaneo e, sul piano internazionale, alle vicende dell’Ucraina e alle sanzioni alla Russia e relative contro-sanzioni. Sono gli stessi economisti tedeschi, però, a non credere a questa ipotesi. Marcel Frantscher, direttore del Diw di Berlino, ci dice con grande franchezza che «l’euforia sull’economia tedesca è semplicemente fuori luogo». Il rallentamento ha poco o nulla a che vedere con l’Ucraina o con il Medio Oriente. Ha determinanti interne di lungo periodo di cui sembriamo accorgerci solo ora.
In primo luogo, la coalizione allora al Governo ha forzato il Cancelliere Merkel ad uscire dal nucleare dopo l’incidente di Fukushima. Ciò ha aggravato i costi di produzione del sistema industriale ed inciso anche sul reddito disponibile dei consumatori: la recente legge sulle rinnovabili non ha alleviato l’incertezza sul futuro della dipendenza e della politica energetica. Alla Deutsche Bank, fanno notare come grandi imprese industriali si stanno indirizzando verso altri Stati dell’Ue per la localizzazione di impianti che richiedono un forte input di energia. Inoltre, la grande coalizione sta facendo marcia indietro su alcune delle riforme attuate dal governo Schroeder e dai primi due governi Merkel. Al Flossbach von Storch, istituto di ricerca economica di Colonia, si punta il dito sulla 'controriforma della previdenza' (ora molte categorie possono andare in pensione a 63 anni, non più a 67 ) e all’aumento del salario mimino di 8,5 euro a 11.40 euro l’ora. Inoltre, si stanno per rendere più stringenti le regole per i contratti a termine. Il ministro dell’Economia, Sigmar Gabriel, ha invitato esperti stranieri a fornire suggerimenti. Da un lato, le modifiche di politica economica (energia, previdenza, norme lavoristiche) scoraggiano le imprese che «emigrano» in vicini Paesi neocomunitari. Da un altro ancora (capitolo poco noto in Italia), i Länder hanno una ragnatela di regole che per ragioni campanilistiche hanno in gran misura neutralizzato le leggi Schroeder- Merkel per incoraggiare l’aumento delle dimensioni industriali. In questo quadro, però,ci sono elementi incoraggianti: un tasso di disoccupazione appena del 6,7% della forza lavoro ed un debito pubblico aggregato (Governo federale più Länder) che nell’ultimo semestre è diminuito rispetto al Pil per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale. Quindi, la Germania ha le carte per cambiare di nuovo marcia, accelerando. Dipende dalla politica.
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L’analisi
Lo stop del Pil tedesco nel secondo trimestre può essere l’inizio di un cambio di marcia
Angela Merkel
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