Perché il
debito torna a fare paura
La bassa inflazione costa cara. Rischi dalla sentenza sui Tango bond
La bassa inflazione costa cara. Rischi dalla sentenza sui Tango bond
GIUSEPPE PENNISI
Come era in qualche modo prevedibile, dopo le elezioni per il Parlamento europeo il tema del debito pubblico – in particolare di quello italiano – è tornato sulle prime pagine dei giornali. Per economisti di rango – da Paolo Manasse a Guido Tabellini e Mario Baldassari – si sarebbe oltrepassato il limite della sostenibilità e si dovrebbero adottare misure drastiche. Che il governo le stia approntando è stato smentito il 30 giugno dal sottosegretario alla Presidenza, Graziano Del Rio, secondo il quale il fardello potrebbe essere alleggerito seguendo «una strada nuova, ma per nulla improvvisata »: gli eurounionbond (per mutualizzarne una parte con il resto dell’eurozona) proposti alcuni anni fa da Romano Prodi ed Alberto Quadro-Curzio con un fondo garantito da immobili dello Stato. Le autorità europee si sono già espresse più volte. In termini poco incoraggianti. Di «ristrutturazione» del debito scrive, senza mezzi termini, anche Lucrezia Reichlin, a lungo alla guida del servizio studi della Banca centrale europea.
Come mai dopo un periodo in cui il tema pareva uscito dall’agenda torna ora con tanto vigore? Ci sono determinanti interne e internazionali. Quelle interne vengono in primo luogo dai dati sconfortanti sull’andamento delle reddito nazionale negli ultimi sei mesi e dalle scoraggianti proiezioni per il resto dell’anno: se l’economia non cresce, il rapporto tra stock di debito e Pil (prossimo al 135%) non può che aumentare. Per di più un livello di inflazione così basso (0.3%) costa caro in termini di rapporto debito/Pil perché riduce il denominatore che viene espresso in termini nominali (includendo, cioè, l’inflazione). Un documento del Fondo monetario diffuso due settimane fa considera Italia e Spagna i due Paesi «più contagiosi dell’eurozona», quelli nei cui confronti, in caso di crisi finanziaria, si accanirebbero i mercati internazionali trasmettendo caos al resto del sistema. Ove la situazione non fosse già abbastanza complicata, è scoppiata pure l’insolvenza tecnica dell’Argentina. Una sentenza della Corte Suprema americana vieta di effettuare riduzioni al valore nominale e alla scadenze dei titoli emessi da Buenos Aires sul mercato Usa. Ciò crea due classi di creditori ed innesca miriadi di vertenze giudiziarie, causando tensioni sui mercati internazionali.
Il Fondo monetario sta correndo ai ripari con un documento d’indirizzo che dovrebbe essere varato questa settimana. Le proposte del Fondo sono chiare: maggiore equità nelle ristrutturazioni (dal 1970 ne sono avvenute ben settanta) e l’impiego, per quanto possibile, di reprofiling (allungamento delle scadenze mantenendo invariato valore nominale dei titoli e interessi) a uno stadio iniziale, prima che il debito diventi insostenibile e si debba ricorrere a ristrutturazione frettolose (e caotiche). Nel maggio 2012, a conclusioni simili era giunto anche il Cnel al termine di una rassegna delle varie proposte allora in campo. Poco dopo l’associazione Astrid ha formulato una sintesi di misure puntuali al Governo Monti. Non è chiaro se le proposte passate in rassegna dall’allora esecutivo siano tuttora valide. Dovranno essere aggiornate alla luce dell’aumento del peso del debito sul Pil e delle tensioni che vengono dall’Argentina e si stanno estendendo ad altri Paesi ed aree. Il reprofiling, se tempestivo, può essere la cornice per attuare un programma di dismissioni e privatizzazioni. Ricorda però concordati , più o meno forzosi, sul debito pubblico, attuati in altri tempi e con altri regimi politici. Potrebbe essere pertanto una soluzione non facile da vendere ai risparmiatori che hanno dato fiducia ai titoli di Stato.
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Un carovita allo 0,3% rende più oneroso pagare i titoli pubblici e influisce negativamente sul rapporto debito-Pil. Possibili ricadute della sentenza Usa contro Buenos Aires sulle proposte per aggredire il problema
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