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Premessa
Per mera coincidenza, l’uscita del fascicolo della «Nuova Antologia»
con questo articolo avviene proprio nelle settimane in cui ricorre il centenario
della Prima guerra mondiale, da tutti conosciuta come la Grande
Guerra. Pochi eventi, nella storia del mondo moderno, hanno avuto un
impatto profondo come quello della Grande Guerra sulla cultura europea
e, al contempo, rare sono le grandi svolte epocali altrettanto impreviste,
devastanti, traumatizzanti. Fra il 1914 e il 1918 la Grande Guerra produsse
mutamenti di vastissima portata sul piano politico, economico,
sociale, culturale, come pure, e inevitabilmente, sul piano intimo e profondo
delle coscienze individuali. Nel corso di quegli anni il flusso della
vita e della storia si interruppe almeno per un momento e lì, in quell’arresto
della storia europea, si poterono cogliere simultaneamente l’agonia
del Vecchio Mondo (la Finis Austriae ove non la Finis Europae oppure
Gli ultimi giorni dell’umanità come chiamò quel periodo Karl Kraus) e
l’irrompere del nuovo: l’una non ancora compiuta, l’altro non ancora
pienamente dispiegato ma già visibile tra i lampi e le terrificanti esplosioni
(veicolo di esperienze sonore di inaudita potenza).
Con il sanguinoso «rito di passaggio» della Grande Guerra (non a
caso Le Sacre du printemps deflagra a Parigi giusto un anno prima dell’inizio
del conflitto) si dispiegò un nuovo paesaggio culturale. Fu allora che
lo specchio della civiltà occidentale andò in frantumi. Fu allora che un
«colpo di tuono» – come scrive lo storico Antonio Gibelli – «squarciò il
velo del progresso e aprì le porte della modernità, svelandone la micidiale
ambivalenza». E rimane più che mai attuale l’interrogarsi del «soldato»
-Robert Musil: «già oggi suona di nuovo incredibile come sia stato possibile
a uomini normali, in serie, milioni per tutta Europa, vivere per quattro
anni dove la vita era logicamente un assurdo senza smarrire la ragione,
senza perdere d’umanità, conservando intatta la capacità di essere allegri,
di gustare piccole gioie animali, di coltivare legami d’affetto; sostituendo
valori nuovi ai valori sconsacrati, trovando nella propria coscienza giustificazioni
all’assurdo e all’orrore».
La Grande Guerra non poteva non avere effetti ed implicazioni sulla
musica: pose in gran misura fine al «tardo Romanticismo» e, specialmente
nel teatro in musica, al «Verismo», ed aprì nuovi percorsi come l’Espressionismo
e la dodecafonia. Fece fiorire nuove culture musicali «nazionali» in
Paesi che erano stati considerati marginali o addirittura tali da non meritare
interesse.
Ad una lettura superficiale, soprattutto in Italia, l’opera lirica pareva
rifugiarsi in mondi lontani dal conflitto. Scorriamo i titoli delle «prime assolute
» di maggior successo: Parisina di Mascagni, Francesca da Rimini di
Zandonai, Madame Sans Gêne di Giordano, Fedra di Pizzetti, La Rondine
di Puccini, Lodoletta ancora di Mascagni. Ci si rifugiava in mondi lontani
o in commedie leggere. I teatri erano lontani dal fronte. Non così in tutti i
Paesi europei. In Germania, ad esempio, Strauss e Hofmannsthal reagivano
alla guerra con la vittoria di Eros su Thanatos (Ariadne auf Naxos) oppure
con un grande inno alla vita (Die Frau ohne Schatten) oppure Eine florentinische
Tragödie (Una tragedia fiorentina) del compositore austriaco
Alexander Zemlinsky portava in scena il clima putrido della società civile
in anni appena precedenti a quelli in cui proprio da detta società civile sarebbero
nate dittature. In Germania – ricorda in un saggio recente Giacomo
Properzj – la Grande Guerra terminò non per sconfitta militare al fronte
ma per implosione interna, implosione già avvertita proprio nelle partiture
di Zemlinsky e di altri suoi contemporanei, come Korngold e Schreker.
Oppure ancora in Paesi che emergevano da imperi multinazionali sarebbero
venute culture musicali che, anche se poco notate dai contemporanei,
avrebbero avuto un grande impatto nel resto del «secolo breve».
Questo articolo è diviso in due parti distinte ma connesse. Nella prima,
si commentano alcuni Festival del 2014 ed alcune delle esecuzioni recenti
di lavori musicali correlati alla Grande Guerra e la seconda è dedicata ad
un compositore, Leoš Janácˇek, diventato tardi noto al di fuori della natia
Moravia, ma che meglio di altri ha espresso, con pochi, ma importantissimi
lavori, il cambiamento della società europea.
Musica e politica: la Grande Guerra 155
Festival musicali e Grande Guerra
Il Festival Printemps des Arts svoltosi a Montecarlo dal 14 marzo al 13
aprile ha aperto la serie di manifestazioni musicali che questa estate ricorderanno
i cento anni dall’inizio dell’«inutile strage». Anche se non si tratta
di una sagra musicale a tema specifico, uno dei suoi concerti di apertura,
quello affidato a Philippe Bianconi (Diapason d’Or, l’Oscar francese della
musica, del 2012) è stato fortemente caratterizzato dal ricordo della fase in
cui nelle coscienze fu chiaro che si passava da «una guerra lampo» ad un
lungo «conflitto di posizione», ossia di trincea. Il titolo stesso En blanc et
noir di Claude Debussy (una sonata per due pianoforti in cui Bianconi era
affiancato da Dana Ciocarlie) è ispirata alle stampe di Goya sugli orrori
della guerra. Nella lettera all’editore Jacques Durand, con cui trasmetteva
la partitura, Debussy affermava «sarà, dura, lunga, spietata, ma noi, che
viviamo nelle città, dobbiamo contenere le nostre angosce e lavoriamo per
la bellezza di cui i popoli hanno un bisogno istintivo specialmente quando
soffrono». La partitura, infatti, giustappone un cantico sacro con temi di
battaglia musicale ed una melodia chiarissima ed innocente che può essere
interpretata o come segno della vittoria finale oppure come speranza nella
trascendenza. La Serenata per due pianoforti e percussioni di Béla Bartók
(a Bianconi e Ciocarlie si sono affiancati Emmanuel Curt e Florent Jodelet)
è stata eseguita per la prima volta a Londra nel 1938 (quando già rullavano
i tamburi della Seconda guerra mondiale) ma la composizione era iniziata
nel 1914. La guerra si avverte sin dal tempo iniziale in cui un assai lento
viene giustapposto ad un allegro molto, si sente nel secondo tempo (lento
ma non troppo – un poco più andante), esplode nel terzo ed ultimo tempo
allegro ma non troppo. Sorge spontanea la domanda: come mai Bartók ha
tenuto nel cassetto (rifinendola spesso) questo lavoro proprio per quel
ventennio che è stato come un armistizio in un’unica grande guerra in cui
si è consumato il suicidio dell’Europa?
In Italia, nel 2014, solamente un Festival musicale estivo (quello di
Ravenna, giunto ad un quarto di secolo) è dedicato alla Grande Guerra.
Dal 5 giugno al 4 luglio, la Prima guerra mondiale sarà il filo conduttore
della manifestazione: si riascolteranno la Messa degli Alpini e quella delle
Alpi Marittime (nonché il Requiem verdiano tanto nella città romagnola
quanto nel Santuario di Redipuglia), gli echi di battaglie ed i rapporti tra
amore e guerra attraverso musica di vari secoli, ci saranno spettacoli di
prosa ispirati a quegli anni, molte grandi orchestre italiane e straniere con
sinfonica ispirata al tema. Possiamo anticipare, però, che al Teatro alla
Scala, dopo l’inaugurazione con Fidelio di Beethoven (inno alla libertà
156 Giuseppe Pennisi
piuttosto che riflessione sulla guerra), debutterà il 15 gennaio 2015 Die
Soldaten di Zimmermann nell’edizione presentata al Festival di Salisburgo
nell’estate 2012: la denuncia degli orrori della guerra viene spostata dalle
guerre tra francesi e fiamminghi nel Settecento alla Prima guerra mondiale.
Infine, l’ormai imminente Festival estivo di Salisburgo (18 luglio-31
agosto) dedicherà una sezione multidisciplinare al tema. Due settimane di
musica spirituale, un’opera commissionata a Marc-André Dalbavie (Charlotte
Salomon) relativa alle tensioni rimaste aperte dopo la Pace di Versailles
(e che sarebbero state tra le determinanti della Seconda guerra mondiale)
e la prima mondiale del dramma The Forbidden Zone di Duncan Macmillan
sulla Grande Guerra, come vista e sentita dalle donne nella zona a
loro «proibita»; verrà interpretato da attori di lingua inglese e tedesca (ciascuno
parlerà la propria lingua ma un sistema di sopratitoli renderà il lavoro
comprensibile a tutti).
La Grande Guerra in esecuzioni recenti di lavori di Mahler e Zemlinsky
Come accennato nella premessa, la Prima guerra mondiale ha profondamente
cambiato l’Europa. Era una trasformazione già in atto prima dello
scoppio delle ostilità e che si avverte anche in lavori di solito considerati
lontani da tematiche ad essa direttamente connesse. Un esempio è la Sesta
Sinfonia di Gustav Mahler, chiamata, nell’uso corrente, la Sinfonia Tragica,
ascoltata a fine marzo-inizio aprile 2014 nella lettura di Vladimir Jurowski
sul podio dell’orchestra sinfonica dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia.
Composta nella villa costruitasi nel piccolo villaggio di Maiernigg, in
Austria, nella quiete delle estati del 1903 e 1904, la Sesta Sinfonia fu definita
«tragica» da Mahler in persona. L’interpretazione corrente, ripresa
anche nel saggio di Paolo Gallarati nel programma di sala, sostiene che
Mahler vide, oltre alla spensieratezza e le gioie della vita familiare, i tristi
presagi delle disgrazie che lo colpirono negli anni successivi: la scoperta
della malattia cardiaca che avrebbe condizionato gli anni seguenti e la morte
della figlia maggiore nel 1907. Senso tragico testimoniato anche dalla
moglie Alma che nelle sue Memorie riporta: «Nessun’opera gli è sgorgata
tanto direttamente dal cuore come questa».
A questa interpretazione vorrei contrapporne una più ampia, che situa
il carattere personale della prima in un contesto più vasto. Un po’ come
fece Ken Russell nel film biografico sul compositore del 1974 – poco visto
in Italia pure a ragione del pessimo titolo affibbiatogli dalla distribuzione
La Perdizione. Il film è composto in gran misura da una serie di flashback
Musica e politica: la Grande Guerra 157
durante un viaggio in treno quando il rapporto coniugale tra Gustav Mahler
e sua moglie Alma è già sostanzialmente estinto ma sono vivi i presentimenti
di una morte prematura, proprio alla vigilia di quella Grande Guerra,
suicidio dell’Europa. Una parte significativa del film riguarda l’antisemitismo.
Altre sezioni trattano esplicitamente dell’autoritarismo sia prussiano sia
austro-ungarico da cui sarebbe germinato il nazismo. Non credo che Mahler
avrebbe chiamato «tragica» la sinfonia unicamente pensando alle proprie
vicende personali. Al compositore che, proprio mentre lavorava alla sinfonia
(che non richiedeva l’apporto della voce umana ma comporta l’organico
strumentale più vasto, e più complesso, da lui concepito), veniva cacciato
dalla direzione del Teatro dell’Opera di Vienna, erano chiari i presagi
della Finis Europae. Anche se i colpi di pistola a Sarajevo, sarebbero avvenuti
sei anni dopo la prima esecuzione della Sesta e tre dopo la morte del
suo autore, i germi di una guerra lunga e sanguinosa erano nell’aria – e con
essa della fine di un modo di vivere e di pensare.
La direzione di Vladimir Jurowski ha colto questo senso sin dall’allegro
energico ma non troppo – violento ma scandito che inizia con una violentissima
pulsazione degli archi e contiene una marcia incandescente nel
colore scuro di violoncelli e contrabbassi – una vera fosca atmosfera di
guerra e di morte di milioni di individui, non di uno solo, per quanto grandissimo
artista. Nel secondo movimento, andante moderato, l’atmosfera
idilliaca quasi campestre più che la quiete dopo la tempesta è il ricordo di
una stagione che non ritorna più. Con il nerbo di Jurowski, il terzo movimento,
scherzo pesante, ritrova la violenza del primo e la tinge di atmosfere
macabre con momenti caratterizzati da un ritmo incalzante. Nel quarto
ed ultimo movimento, Jurowski esalta gli «assoli» dei bassi, la fantasmagoria
dei colori timbrici e la crescente agitazione angosciosa segnata da colpi
di martello. Un vero presagio di Grande Guerra.
Un ragionamento analogo può essere fatto per Eine florentinische
Tragödie (Una tragedia fiorentina), di Alexander Zemlinsky, opera raramente
eseguita e nel marzo 2014 proposta dal Teatro Regio di Torino. È un
atto unico breve (50 minuti) che richiede non solo un grande organico, ma
anche tre grandi voci e tratta con estrema crudeltà di adulterio, sesso, tradimento
e omicidio in un quadro intriso di decadentismo. Lo caratterizzano
il sinfonismo continuo attorno ad alcuni nuclei tematici ed un declamato
che scivola in ariosi. Di Zemlinsky, la «Nuova Antologia» ha trattato nel
fascicolo 2260 dell’ottobre-dicembre 2011.
L’opera andò in scena a Stoccarda nel 1917 – un chiaro segnale dell’implosione
degli Imperi centrali durante l’anno della Prima guerra mondiale
che pur li vide «sfondare» sul fronte italiano a Caporetto, reggere bene su
158 Giuseppe Pennisi
quello francese ed essere vincitori ad Est a causa dello spappolamento
dell’Impero russo. Eine florentinische Tragödie è tratto da un testo di Oscar
Wilde. I drammi in musica di Zemlinsky sono brevi e molto intensi, in uno
stile eclettico, a cavallo tra XIX e XX secolo e hanno successo soprattutto
tra i giovani. Per questo motivo negli ultimi trent’anni vengono rappresentati
frequentemente non solo in Germania e in Austria ma anche in quell’America
che all’esule aveva sbattuto la porta in faccia.
A differenza dell’edizione scaligera di dieci anni fa (quella romana fu
in forma di concerto), nella produzione presentata al Regio di Torino non
siamo in un ricco rinascimento di cartapesta ma in una Firenze anni Venti
torbida e cinica dove si avverte l’inquietante clima politico in cui viveva la
borghesia del dopoguerra. La scena (Saverio Santoliquido e Claudia Boasso)
è sostanzialmente unica; una camera alto borghese in cui è centrale un
letto. La regia di Vittorio Borrelli è lenta e indugia sull’atmosfera. Belli i
costumi protofascisti di Laura Vignone.
Soprattutto, il merito dello spettacolo va alla bacchetta di Stefan Anton
Reck. Occorre elogiare la perizia con cui ha concertato Zemlinsky facendo
quasi palpare i «nuclei» in cui è tessuto il sinfonismo. Di livello, il cast.
Tommi Hakala ha affrontato con successo l’impervio e lunghissimo ruolo
del protagonista; lo hanno ben affiancato Zoran Todorovich e Angeles
Blancas Gulin.
Leoš Janácˇek, paradigma del cambiamento nell’Europa della Grande
Guerra
Perché considero Leoš Janácˇek, autore paradigmatico delle trasformazioni
nell’Europa della Prima guerra mondiale? Visse a lungo. Nato nella
cittadina di Hukvaldy vicino a Prˇíbor in Moravia (dove ebbe i natali anche
Sigmund Freud), nel 1854, visse quasi tutta la vita a Brnó, capitale della
regione allora parte dell’Impero austro-ungarico, ed oggi parte meridionale
della Repubblica Ceca. Brnó è a circa metà strada tra Vienna e Cracovia – il
cuore quasi di quell’area dell’Europa centrale dove la Grande Guerra apportò
i maggiori cambiamenti ai confini geografici e politici. Lì vi era il
carcere dove è stato Silvio Pellico.
Per decenni, Janácˇek fu essenzialmente un didatta e compose principalmente
musica dello spirito o ispirata a tradizioni locali (nonché di un’opera
in atto ancor oggi raramente messa in scena). A 50 anni circa, nel 1904
(quasi contemporaneamente alle prime di Madama Butterfly di Puccini e
di Salomè di Strauss), nella sala da tè (adattata a teatro) del maggior caffè
Musica e politica: la Grande Guerra 159
di Brnó venne rappresentato il suo primo capolavoro Jenufa – oggi la città
dispone di tre teatri di cui il maggiore (1300 posti) porta il nome del compositore.
La partitura di Jenufa era stata respinta dal Teatro Nazionale di
Praga, dove venne rappresentata solo nel 1916, in piena Prima guerra mondiate,
dopo forti rimaneggiamenti imposti dalla censura. Jenufa diventò un
successo europeo in seguito alla rappresentazione a Vienna nel 1918 (proprio
mentre l’Impero era sul punto del tracollo), nella traduzione di Max
Brod in tedesco (lingua in cui le opere di Janácˇek sono state eseguite per
decenni, al di fuori della Moravia). Janácˇek visse sino al 1928; nell’ultima
fase della sua vita in un’Europa in rapida trasformazione ebbe meritatissimi
riconoscimenti (laurea honoris causa, ammissione all’Accademia Prussiana
delle Arti). Per quanto, tra le «scuole» della piccola Brnó, si considerasse
vicino a quella musicale, sviluppò un linguaggio modernissimo che, al di
fuori dell’Europa centrale, venne compreso solamente dopo la Seconda
guerra mondiale, grazie a direttori come Sir Charles Mackerras, James
Conlon e Lothar Koenigs. Nella New York degli anni Settanta, i lavori di
Janácˇek trovavano casa alla City Opera, considerata tra lo sperimentale e il
popolare, non al Metropolitan.
La fortuna Janácˇek in Italia è stata tardiva. Se ne eseguivano la cameristica
e la Sinfonietta, ma si dovette aspettare sino al 1936 per la prima esecuzione
(radiofonica) di Jenufa ed al 1941 perché La Fenice la mettesse in
scena. Per Kát’a Kabanová ci volle il coraggio del Maggio Musicale Fiorentino
nel 1957. L’anno dopo, La Scala allestiva La piccola volpe astuta; nel
1963, la Sagra Musicale Umbra proponeva, al Morlacchi di Perugia. Da una
casa di morti nel 1966; nel 1967 era ancora Firenze a scommettere su L’affare
Makropulos e su Le avventure del Signor Brouceck. Si trattava, di solito,
di esecuzioni non sempre nella lingua. Si perdeva, quindi, l’impasto tra musica
e testo (rigorosamente in prosa) centrale alla struttura musicale di Janácˇek.
Non che la forte carica innovativa non fosse apprezzata dagli specialisti:
in un saggio del 1957, Massimo Mila ha scritto che egli stesso, Gianandrea
Gavezzani e Fedele D’Amico «avevano dato l’allarme: siamo alla presenza
di un grande, una specie di Mussorgskij moravo, con in più le esperienze
musicali recenti, da Strauss all’espressionismo, fino ai confini della crisi
atonale». Negli anni Cinquanta, Mila ha anche detto: «se Janácˇek fosse
stato francese, oggi sarebbe importante e famoso quanto Ravel». Tuttavia
solo negli anni Settanta le sue opere vengono rappresentate pure al di fuori
dei pochi enti lirici principali della Penisola, giungono nel circuito lombardo
ed in quello emiliano-romagnolo, arrivano nei teatri siciliani. Unicamente
negli anni Ottanta e Novanta, vengono eseguite in moravo (con
l’ausilio essenziale dei sopratitoli) e in edizioni critiche. Adesso, anche in
160 Giuseppe Pennisi
Italia Janácˇek è riconosciuto, con Strauss e Britten, tra i tre massimi autori
del teatro musicale del Novecento.
Nell’estate 2004, a cento anni dalla prima esecuzione della sua opera
più nota, Jenufa, due festival italiani sono imperniati sui lavori e sulla figura
del compositore moravo Leoš Janácˇek. Al Ravenna Festival, un’intera
sezione (7-9 luglio) gli è dedicata: l’Orchestra Filarmonica Slovacca e il
Coro Filarmonico Slovacco vi hanno presentato la Sinfonietta, La Messa
Glagolitica (ossia in antica lingua morava) ed un concerto di musica corale;
il quartetto Pražák ha eseguito il Quartetto n. 1 ispirato alla Sonata a
Kreutzer e il Quartetto n. 2 detto Lettere intime. Al Cantiere d’Arte di
Montepulciano (30 luglio-8 agosto), buona parte del programma è stato
affidato alla Young Janácˇek Philharmonic Orchestra, un organico di giovani
formato da Lothar Koenigs raccogliendo strumentisti da tutta Europa,
nonché specialmente dedicata all’opera del compositore moravo. Vi sono
state proposte, oltre alla Messa Glagolitica ed alla Voix Humaine di Francis
Poulenc (monodramma in gran misura ispirato a Janácˇek), due composizioni
raramente eseguite in Italia: il Diario di uno scomparso e Gioventù, il
sestetto di fiati in cui rievoca la spensieratezza degli anni da studente.
Pure in patria il successo è stato tardivo: Jenufa – si è detto – è stata
allestita in modo approssimativo a Brnó (al cui conservatorio Janácˇek insegnava)
quando aveva 50 anni e, in forma mutilata, a Praga quando ne
aveva quasi 62. Le difficoltà erano di natura estetica. In una piccola nazione
(la Moravia) di quello che allora era un grande Impero, la corrente di
moda della musica colta guardava al passato: una combinazione di nazionalismo
e di wagnerismo. Janácˇek, invece, voltava le spalle al ceppo tedesco
e si rivolgeva al mondo slavo e alla musica contadina. Rifiutava il verso:
come, dopo di lui, Berg e Poulenc, optava per una prosa in cui la musica e
la parola fossero fuse; tagliava drasticamente i drammi in modo che i tre
atti rituali fossero contenuti in non più di 90 minuti complessivi; prendeva
a prestito le tecniche di quello che allora era la nuova forma di spettacolo
(con pretese di arte), il cinema.
Queste difficoltà di natura estetica nell’Europa centrale della prima
parte del secolo scorso, gli anni detti della Grande Trasformazione da
Michael Polanyi sono anche alla base del successo che Janácˇek ha oggi
pure con il pubblico più giovane. L’Espressionismo janácˇekiano esce dal
Romanticismo e dal post-Romanticismo, nonché dal wagnerismo, grazie
ad una struttura musicale fondata sull’alternanza di frammenti differenti
e contradditori nello stesso movimento (nonché insistentemente reiterati
come avverrà più tardi nella musica dodecafonica), con l’inserimento di
abbandoni lirici unicamente in certi momenti specialmente liberatori (si
Musica e politica: la Grande Guerra 161
pensi alle scene conclusive di Jenufa e di L’affare Makropulos). Anche i
tempi ed i metri si alternano con frequenza insolita, rompendo con l’unità
emotiva dei movimenti della musica dell’Ottocento. Infine, come sottolinea
il suo compatriota Milan Kundera, la coesistenza di più emozioni contraddittorie
in spazi limitatissimi crea una semantica originale in cui si hanno,
parallelamente, «la inattesa contiguità delle emozioni» e la «polifonia delle
emozioni». A tutto ciò, che è comunque tremendamente moderno e attuale
(anche sotto il profilo tecnico-musicale), si aggiungono i temi trattati
nei lavori di Janácˇek: dal riscatto di chi è reietto in un mondo meschino
(Jenufa, Kát’a Kabanová), dal ricordo della stagione che non ritorna, la
giovinezza (Diario di uno scomparso, Gioventù), alla ricerca dell’Alto,
alla rinascita della vita ed alla stessa resurrezione dei corpi (L’affare Makropulos,
La piccola volpe astuta, Da una casa di morti) – argomenti
principali della sua musica da Chiesa e di quella vera e propria in un’orgia
di esperienze foniche che è la Messa Glagolitica.
Le sei opere principali per il teatro possono essere divise in due fasi.
Prima della Grande Guerra, Jenufa afferma, nella piccola Moravia dell’Impero
asburgico, il rifiuto delle concezioni romantiche e la volontà di appartenere
invece ad un mondo ideale e morale nel quale vengano rispettati i
diritti degli uomini, a partire dai più umili e indifesi, mentre Le avventure
del signor Broucˇek (completata nel 1918 ma rappresentato nel 1920) contiene
una dura satira contro il conformismo della borghesia incapace di
vedere il profondo cambiamento in atto.
Nel dopoguerra la pessimista visione del mondo di Janácˇek trovò la sua
massima manifestazione in quattro opere che contengono, in maniera diversa,
una forte carica di protesta: Kát’a Kabanová (1921), La volpe astuta
(1924), L’affare Makropulos (1926) e Da una casa di morti (la cui prima
avvenne nel 1930, dopo la morte dell’autore). Ciò contrastava con l’atmosfera
allora dominante nella Repubblica Cecoslovacca di grande attese e
speranze dopo la creazione di uno Stato non omogeneo ma libero dal giogo
asburgico. Janácˇek avvertiva il presagio che qualcosa ancora peggiore stesse
per avvenire (proprio a Brnó ci fu, anni dopo, una delle maggiori stragi
di ebrei). L’immedesimazione del compositore con il materiale narrativo
delle sue opere è sempre molto forte: durante la composizione Da una
casa di morti, tratta da un lavoro di Dostoevskij nel quale il letterato russo
rievoca le tragiche esperienze dell’esilio siberiano, egli confessa ad un amico:
«mi sembra di scendere, gradino per gradino, sempre più in basso, e di
camminare nei bassifondi più miserabili degli esseri umani. Ed è un cammino
molto penoso».
162 Giuseppe Pennisi
Le opere precedenti o contemporanee alla Grande Guerra
Anche la mia conoscenza con i maggiori lavori di Janácˇek è stata tardiva
– avevo ascoltato la Sinfonietta, La Messa Glagolitica ed Diario di uno
scomparso durante i tre lustri passati negli Stati Uniti. Quasi per caso, in
una serata dell’aprile 1985 a Trieste, dove ero per un paio di conferenze, al
Teatro Verdi si rappresentava Jenufa, di cui non sapevo nulla (libretto,
struttura musicale, durata). Concertava Julian Kovatchev (al suo debutto
in Italia), la regia era di Giulio Chazalettes, cast interamente italiano che
cantava in moravo senza soprattitoli – quindi, con difficoltà per un ascoltare
sostanzialmente ignorante. Lo scarno programma di sala mi aiutò a
comprendere l’intreccio (all’apparenza un fattaccio di cronaca nera oggetto
di un romanzo di successo della scrittrice morava Gabriella Preissová).
Venni letteralmente rapito da un lessico musicale modernissimo e dal grande
arioso finale. Da allora ho avuto la fortuna di ascoltare dal vivo Jenufa
al Festival dei Due Mondi a Spoleto, al Maggio Musicale Fiorentino, al San
Carlo ed alla Scala (nel giro di pochi anni).
In un villaggio della Moravia, la bella Jenufa, figliastra della sagrestana,
è corteggiata dall’aitante Steva, che, messala incinta, l’abbandona. Ne è innamorato
(e continua ad esserlo pur dopo essere messo a conoscenza dello
stato della ragazza), il fratellastro di Steva, Laca. Per far sì che Laca non
desista da propositi matrimoniali, la sagrestana fa morire il neonato esponendolo
al freddo. L’infanticidio viene scoperto proprio durante la festa di nozze
tra Jenufa e Laca, il quale si stringe ancora di più alla moglie, aiutandola
a cercare speranza e riscatto nonostante la riprovazione della società che li
circonda. Il protagonista del lavoro è la piccola e gretta borghesia morava di
un impero «perbenista» sostanzialmente già defunto. Il dramma è incentrato
nel confronto tra due donne (ambedue soprano, anche se di differente tessitura):
l’austera, altera e lucida pur se tormentata sagrestana e la nevrotica e
passionale figliastra. Ad un passo di distanza, il confronto tra due uomini
(ambedue tenori, pur se di differente timbro): Laca nevrotico e passionale,
come Jenufa, e Steva, ragazzaccio amorale. Nel fondale, come detto, la società
morava. Nei 90 minuti, la partitura è in gran misura fatta di frammenti
emotivi, spesso contraddittori, che si fondono alla perfezione con il parlato
in prosa; la scrittura orchestrale e vocale richiede, accanto alla tenuta
d’insieme, virtuosismo da parte dei singoli strumenti. Delle varie esecuzioni
dal vivo di questi ultimi anni, due mi sono rimaste particolarmente vive:
quella della Scala nel 2005 e quella del San Carlo nel 2000.
Alla Scala è stata presentata una coproduzione con lo Châtelet di Parigi
e il Teatro Real di Madrid. Il regista Stéphane Braunschweig dà una
Musica e politica: la Grande Guerra 163
lettura stilizzata del dramma: una scena unica in cui dominano (anche nei
costumi) tre colori – il marrone cupo tendente al nero, il rosso e varie gradazioni
del bianco. Lothar Koenigs ha diretto enfatizzando il virtuosismo
dei solisti (magnifici gli «a solo» del violoncello e tutta la ricca strumentazione
timbrica). Tra i quattro protagonisti spiccavano le due donne: l’avvenente
Emily Magee (Jenufa) dalla vasta estensione e la sorprendente Anja
Silja che a 75 anni di età, e 57 di carriera, era ancora una convincente sagrestana.
Miro Dvorsky era un Laca dal timbro morbido che ben si giustapponeva
alla vocalità da tenore eroico di Ian Storey (Steva). Lo spettacolo
sarebbe stato perfetto se non fosse stato interrotto da un lungo intervallo
che ne ha spezzato la tensione.
Il San Carlo ha prodotto Jenufa apparentemente come pretesto per
l’addio alle scene di Raina Kabaivanska nelle vesti della sagrestana. A
differenza di altri allestimenti (ad esempio, quelli di Trieste, Spoleto e Firenze),
nella regia di Walter Le Moli e nelle scene e costumi di Tiziano
Santi (ispirati alle fotografie di Josef Kouldeka) non c’era nulla di bozzettistico
o di pittoresco: il dramma della lotta tra fratellastri per la conquista
di Jenufa, dell’infanticidio e del riscatto in una società contadina e piccolo
borghese veniva trasportato dall’inizio del secolo scorso al 2000, in un
contesto (pure di famiglie divise su fronti avversi) che potrebbe essere il
Kossovo – un ultimo scampolo della fine degli Imperi multinazionali avvenuta
con la Grande Guerra.
L’allora giovanissimo Vladimir Jurowski ha diretto con piglio e intensità
i 90 minuti dei tre atti intensissimi. Jurowski è riuscito nel compito, pur
coprendo, a tratti, qualche voce di cantanti meno dotati del volume richiesto
dall’ampia sala del San Carlo (ad esempio, Alexander Fedin nel ruolo di
Laca). Alla Kabaivanska, grandissima per quella che sarebbe dovuta essere
la sua ultima interpretazione sulla scena, ha fatto da pendant un’eccellente
Gwinne Geyer nel ruolo della protagonista; voce calda e duttile (specialmente
nei difficili fraseggi) ed ottima presenza scenica. Ian Storey è adeguatamente
bullo e trucido nel ruolo di Steva. I numerosi personaggi minori sono
stati scelti con cura, come si addice a uno spettacolo di classe.
Non ho mai visto dal vivo Le avventure del signor Broucˇek, che peraltro
credo sia stato rappresentato in Italia unicamente al Maggio Musicale Fiorentino
del 1967 ed è anche eseguita di raro al di fuori della Repubblica
Ceca. È un lavoro satirico in due parti, di cui una sulla luna ed una del XV
secolo. È meno compatta della altre, anche in quanto composta durante un
periodo di oltre dieci anni. È attinente al nostro tema in quanto la prima
parte (sostanzialmente completata nel 1918), per quanto molto acida nei
confronti del trasformismo della borghesia (più di quella boema che di
164 Giuseppe Pennisi
quella morava) ha un forte carattere nazionalista e la partitura è dedicata a
T. G. Masaryk, eroe dell’indipendenza della Cecoslovacchia, di cui sarebbe
stato il primo Presidente. L’opera termina, dopo tanto sarcasmo, con le
note di un inno di vittoria.
Tra Jenufa e Le avventure del signor Broucˇek trascorrono tre lustri.
Ambedue, per quanto amare, hanno un finale denso di speranza, più Broucˇek
che Jenufa. Tuttavia, l’arioso finale del terzo atto del capolavoro del 1904
è nel segno del riscatto e di un domani migliore.
Le opere successive alla Grande Guerra
Nelle quattro opere successive alla Prima guerra mondiale questa visione
moderatamente ottimista del futuro si fa sempre più tenue sino a diventare
cupa, quasi disperata.
C’è il rimpianto per il passato nel Diario di uno scomparso, una serie di
Lied messi in scena come un atto unico alla Sagra Malatestiana a Rimini del
2006 con un’abilissima regia di Denis Krief. Composti quando l’allora 62enne
Janácˇek stava iniziando una relazione affettiva con una giovane donna,
Kamila Stösslová, che aveva incontrato durante una vacanza in una stazione
termale, in cui ambedue erano accompagnati dai rispettivi consorti. La relazione
durò circa dodici anni, sino, quindi, alla morte di Janácˇek: la Stösslová
finì gassata durante la Seconda guerra mondiale in un campo di concentramento
nazista. La relazione fu intensa: è stato di recente pubblicato un epistolario
di 722 lettere (in gran parte quelle di Janácˇek, mentre quelle della
Stösslová sono andate quasi tutte perdute). La relazione ebbe (lo mostra
l’epistolario) una forte carica sensuale, ma non venne mai consumata. Mettendo
in musica Il diario (che termina con la scomparsa del protagonista
verso luoghi ignoti) Janácˇek raccontava il suo tardo ma appassionato amore
con la Stösslová, guardando, però, ai sogni della sua giovinezza.
Andiamo con ordine. In Kát’a Kabanová (di cui si sono viste belle
edizioni al Massimo Bellini di Catania, a Firenze, a La Fenice in trasferta al
Tronchetto ed alla Scala) siamo, a pochi anni dalla fine della Grande Guerra,
in un mondo dove non c’è più spazio per le illusioni. Kát’a Kabanová è
la più fragile di tutte le eroine di Janácˇek. La vicenda è tratta da un romanzo,
e da un dramma, di successo dello scrittore russo Alexander Ostrovsky.
In un piccolo centro bigotto, dove domina la suocera Kabanicha (intenta,
tra un paternostro e l’altro, in giochi sadomaso con il mercante Dikoj), Kát’a
Kabanová ha un marito imbelle e forse impotente, Tichon, ed è amata in
segreto dal bel Boris. Ai margini del clima pesante del villaggio, la sua mi-
Musica e politica: la Grande Guerra 165
gliore amica, la trovatella Varvara, ha una relazione amorosa-sessuale fresca
e piena con il giovane professore di chimica Kudrjásch. Durante un viaggio
d’affari di Tichon, Varvara dà a Kát’a la chiave del luogo dove si incontra
con Kudrjásˇ. Non sapremo mai se il rapporto tra Kát’a e Boris va al di là
del platonico. Il rimorso, però, è tale che al ritorno di Tichon, e nel corso
di un uragano, Kát’a si confessa adultera. Trova sollievo solo gettandosi nel
Volga, mentre Kabanicha ringrazia i presenti per la collaborazione data del
risolvere il caso aperto dalla confessione della nuora. Ed il villaggio torna
alla bigotteria di sempre.
In Kát’a Kabanová, a 67 anni, Janácˇek dimostra una grande capacità di
sviscerare in musica l’animo umano (con una scrittura spezzettata e continuamente
ricostituita raramente superata). A Catania si è visto, tre lustri fa,
un allestimento portato dall’Opera Nazionale di Praga. La produzione scaligera
(2006) proveniva dalla De Vlaamse Opera di Anversa. La regia è
stata curata dal canadese Robert Carsen. La scenografia, giocata sulla predominanza
dell’elemento acquatico che richiama l’incombente presenza del
fiume, è opera – come i costumi – di Patrick Kinmonth. Sul podio, il britannico
John Eliot Gardiner. Completano il cast tecnico le coreografie di Philippe
Giraudeau. Gli interpreti: Janice Watson è Kát’a, Vladimir Ognovenko
Savël Prokofjevicˇ Dikoj, Peter Straka Boris Grigorjevic, Judith Forst Kabanicha,
Guy De Mey Tichon. Uno spettacolo di grande livello.
Nei miei ricordi, il più struggente, e il più disperato, è quello messo in
scena al Tronchetto nel 2003. I 90 minuti dei sei quadri e due intermezzi si
snodavano senza interruzione in un’atmosfera scura dominate dalle acque
del Volga – una grande piscina sul boccascena. Perfette le scene (semplici
ma efficacissime) di Ralph Koltai e i costumi di Sue Willmington; tesissima
la regia di David Pountney (la sua più riuscita dopo quella di Inquest of
Love di Jonathan Harvey che ha meritamente fatto il giro del mondo, pur
senza mai approdare in Italia). Ottimo il cast (che richiede tre tenori di livello).
Kát’a è Gwynne Geyer, che già mi incantò in Jenufa al San Carlo;
Kabanicha è Karen Armstrong, che dimostra come, scegliendo i ruoli adatti,
si può restare bravissimi (e bellissimi) con 40 anni di carriera sulle spalle;
Julia Gertseva è una sensuale Varvara. I tre tenori sono Clifton Forbis
(un Boris aitante), Peter Straka (un Kudrjásˇ appassionato) e Christoph
Homberger (un Tichon cappone). Ben scelti i numerosi caratteristi del
borgo selvaggio e bigotto in cui si svolge il dramma. Lothar Koenigs ha
diretto un’orchestra de La Fenice in stato di grazia.
La piccola volpe astuta negli ultimi 15 anni si è vista al Festival di
Spoleto, alla Fenice, alla Scala, e a Firenze, nonché in una produzione semplice
al Teatro Studio del Parco della Musica come saggio finale della Scuo-
166 Giuseppe Pennisi
la dell’Opera dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. È un testamento
pieno di sarcasmo in cui Janácˇek prende in giro il perbenismo dei borghesipiccoli-
piccoli (il maestro di scuola saccente, il curato pedante, il guardiacaccia
mal coniugato, il venditore ambulante avido) che rendevano difficile
la sua vita. Per la vicenda, Janácˇek ricorre ai fumetti popolari di un
giornale vagamente di sinistra, acquistato dalla sua cameriera, e ne fa
un’opera in tre atti in cui il mondo piccolo borghese viene messe a confronto
con quello degli animali del poco lontano bosco. La piccola volpe astuta
(di cui l’allestimento fiorentino del 2009, coprodotto con il giapponese
Saito Kinen Festival, è specialmente memorabile) è una vera chicca. Andiamo
ai fumetti che portarono il sessantenne, devoto ma in crisi eroticosentimentale
per la Stösslová, a mettere in berlina la società morava. Si era
attorno al 1920, più o meno nel periodo in cui Walt Disney inventava Topolino
e gettava le basi per quella che sarebbe stata una delle maggiori
multinazionali dell’entertainment «formato famiglia». Sul «Lidové Noviny»
(«Quotidiano del Popolo») di Brnó appariva ogni giorno una puntata di un
romanzo sterminato di Rudolf Téšnohlídek, cronista giudiziario dai sentimenti
vagamente anarchici, orientato verso l’avanguardia e caratterizzato
da poca simpatia per la burocrazia e la magistratura, specie se giustizialista.
Mentre i fumetti di Disney erano antropomorfici e seguivano rules and
mores dalla middle class americana, le strisce disegnate di Téšnohlídek
giustapponevano il modo ipocrita degli uomini (il curato, il maestro ed il
guardiacaccia si ubriacano ogni sera ed il venditore ambulante ha il fucile
facile) con quello libero e sensuale del bosco. Da questo spunto, Janácˇek
scrive il libretto e compone la musica di un lavoro in cui non solo il perbenismo
moraleggiante viene contrapposto alla libertà della natura ma si
esalta la vita che scorre, che non può essere piegata agli editti della carta
bollata in quanto basa il proprio rinnovarsi sulla forza immensa delle proprie
regole eterne (meglio comprese e seguite nel bosco che nella cittadina). Di
queste regole, la più profonda (e la più irritante per i borghesi piccolipiccoli)
è l’amore che con la sua fisicità è l’eterna molla del rinnovamento.
Nel 1924, quando debuttò, La piccola volpe astuta fu un grande successo,
anche a ragione della popolarità dei fumetti di Téšnohlídek. Furono necessari,
però, molti lustri perché la sferzante satira raggiungesse i palcoscenici
dei maggiori teatri europei ed americani: fondamentale un’edizione diretta
da Walter Felsenstein nel 1957 alla Komische Oper di Berlino, quindi in
quella che era la Repubblica Democratica Tedesca (dove il contrasto tra
vitalità del bosco e della volpe astuta con il grigiore del curato, del maestro,
del guardiacaccia e del venditore ambulante lanciavano messaggi molto
eloquenti). La partitura è un magico equilibrio tra il melodismo nostalgico
Musica e politica: la Grande Guerra 167
slavo ed il sinfonismo pagano di Richard Strauss. Si avverte un’influenza
di Debussy (del quale Janácˇek conosceva bene sia La Mer sia Pelléas et
Mélisande) sull’orchestrazione. Massimo Mila ha parlato di «un ininterrotto
mormorio della foresta, inafferrabile e inclassificabile, nutrito di ingredienti
anche diversi da quelli del sinfonismo di Strauss, e provvisto di temi
di assoluta originalità, nonché di delicatezza impressionistica e di calligrafismo
sonoro da Ravel campagnolo».
Il penultimo lavoro, L’affare Makropulos, è intrigante. È stato visto
relativamente spesso in Italia grazie ad un’edizione (curata da Luca Ronconi)
in traduzione ritmica italiana proposta a Torino, a Bologna, e a Napoli,
e a produzioni in moravo alla Scala, a Firenze e a La Fenice. Ci sono
anche state due edizioni di grandissimo livello ai Festival di Aix-en-Provence
e di Salisburgo. Ha le guise di un dramma poliziesco: un processo su una
vertenza di successione che dura da più di cent’anni in cui si inserisce una
bellissima e giovanissima cantante – Emilia Marty – che tanto sa (e tanti
documenti sa trovare) ma cerca disperatamente un manoscritto in greco. Il
dramma di cˇ apek (da cui è tratto il lavoro) dura oltre quattro ore ed è
farcito di discorsi filosofici. I tre atti di Janácˇek durano 90 minuti e rendono
meglio se – come a Salisburgo – vengono rappresentati senza intervallo.
L’opera in effetti tratta del valore e della durata della vita come esperienza
terrena. Emilia Marty ha 337 anni; ha avuto, negli oltre tre secoli di esistenza,
vari nomi tutti con le iniziali E. M.; suo padre, il negromante cretese
Makropulos, ha predisposto una pozione di lunga vita per l’Imperatore
d’Ungheria, lei l’ha provata ed è rimasta sempre giovane ma allo scadere
dei giorni in cui si svolge l’opera deve bere di nuovo la pozione o morirà.
La ricetta si è smarrita nelle mani di un antenato di coloro che sono coinvolti
nel maxiprocesso. Da qui la sua ricerca affannosa. È così bella che una
delle controparti nel processo (senza sapere di essere un suo bisnipote) si
innamora perdutamente di lei e che un altro si suicida quando apprende
che suo padre (in possesso delle carte in greco) dà il documento in cambio
di una notte di sesso con lei. Ma, pure sotto le lenzuola, Emilia è fredda. In
trecento anni, i suoi amici, i suoi amanti, le persone a lei care sono sparite,
mentre lei vagava da Paese a Paese. Quando ha il documento, lo cede alla
fidanzata (giovane) di uno dei suoi innamorati, che lo brucia, mentre lei
invecchia in pochi istanti e muore. Come in Jenufa un grande arioso finale
e un pianissimo chiudono il lavoro. A differenza di Jenufa, però, il finale de
L’affare Makropulos è senza speranza.
Janácˇek, moravo, sarebbe dovuto essere politicamente appagato dalla
istituzione della Repubblica Cecoslovacca dato che dalla nascita nel 1854
aveva sofferto il giogo austro-ungarico. La Moravia era pacifica e relati-
168 Giuseppe Pennisi
vamente ricca. Eppure la sua ultima opera Da una casa di morti – come
notò nel 1981 Milan Kundera in un articolo sulla patria lontana occupata
dai russi – è preveggente: «più contemporaneo non potrebbe essere» poiché
descrive i gulag ed i Lager e utilizza un linguaggio musicale in anticipo
di alcuni decenni – una semantica che intende cogliere il nesso tra
note e psicologia e in cui il linguaggio crudo, e spesso volgare, dei carcerati
viene presentato in una struttura in 13 episodi, ciascuno diviso in
sezioni tematiche, ognuna costruita su iterazioni di motivi semplici e con
una tonalità fissa. Ciò accentua il carattere al tempo stesso cupo e crudo
del lavoro, ma anche, come ha scritto il musicologo John Tyrrell, l’immensa
pietas dell’opera.
In Italia, l’opera era stata messa in scena a Perugia nel 1963 e a Milano
nel 1968 ma in versioni manipolate da allievi di Janácˇek. Il Teatro Massimo
di Palermo nel 2008 e la Scala nel 2010 ne hanno presentato due edizioni
differenti ma in quella che dal 1974 è ritenuta l’edizione critica più vicina
alle intenzioni dell’autore (che morì prima di suggellare la terza stesura
della partitura). Il lavoro non ha veri e propri protagonisti ma ben 23 personaggi
– ciascuno con caratterizzazioni difficili da interpretare e da cantare;
le voci sono unicamente maschili (tranne un breve intervento di un soprano
nel ruolo di una prostituta ammessa nel carcere, in occasione della
Pasqua, per soddisfare le esigenze dei prigionieri); la scrittura vocale e orchestrale
è estremamente complessa; i tre atti vengono rappresentati senza
intervallo proprio per accentuare il senso di claustrofobia (e il simbolo finale
di libertà: il volo di un’aquila ferita e curata dai carcerati). A Palermo,
l’opera era coprodotta con la Welsh National Opera, la regia affidata a
David Pountney e la direzione musicale a Gabriele Ferro che ha cesellato
la partitura. Alla prima c’erano alcune file vuote: lo scotto che si paga per
l’innovazione, ma il passaparola ha funzionato per le repliche. Lo spettacolo,
pluripremiato, accolto con clamoroso successo da pubblico e critica, è
nato nel maggio 2007 alle Wiener Festwochen, rassegna viennese in cui
Stéphane Lissner convinse Patrice Chéreau e Pierre Boulez a lavorare insieme
in un nuovo progetto teatrale, trent’anni dopo il loro storico Ring di
Bayreuth. Ha debuttato al Festival di Aix-en-Provence che lo ha coprodotto
con la Scala e il Metropolitan di New York. A Aix sul podio c’era Boulez;
a Milano e a New York Esa-Pekka Salonen, che insieme a Boulez ha lavorato
alla revisione della partitura di Janácˇek.
Resta l’interrogativo di Kundera: come mai nella seconda metà degli
anni Venti in una Moravia lieta della propria indipendenza e apparentemente
serena, un vecchio borghese professore di conservatorio riuscì ad anticipare
i Lager ed i gulag di quello che, in un bel libro, Luigi Fenizi ha corretta-
Musica e politica: la Grande Guerra 169
mente chiamato Il secolo crudele e caratterizzato da un’unica Grande Guerra
dal 1914 al crollo del muro di Berlino?
Conclusione
Le due parti di questo articolo hanno un nesso più forte di quanto
possa apparire: le citazioni di esecuzioni recenti e di Festival imminenti
sulla musica della Grande Guerra sono germane della vita musicale di
Janácˇek che vide la Prima guerra mondiale come speranza per la piccola
Nazione a cui apparteneva ma che subito dopo presagì la pace come un
breve interludio ne Il secolo crudele. Un secolo di profonda rivoluzione
musicale, sulla quale le vicende politiche e militari hanno inciso forse più
di quanto i musicologi realizzino.
Giuseppe Pennisi
Premessa
Per mera coincidenza, l’uscita del fascicolo della «Nuova Antologia»
con questo articolo avviene proprio nelle settimane in cui ricorre il centenario
della Prima guerra mondiale, da tutti conosciuta come la Grande
Guerra. Pochi eventi, nella storia del mondo moderno, hanno avuto un
impatto profondo come quello della Grande Guerra sulla cultura europea
e, al contempo, rare sono le grandi svolte epocali altrettanto impreviste,
devastanti, traumatizzanti. Fra il 1914 e il 1918 la Grande Guerra produsse
mutamenti di vastissima portata sul piano politico, economico,
sociale, culturale, come pure, e inevitabilmente, sul piano intimo e profondo
delle coscienze individuali. Nel corso di quegli anni il flusso della
vita e della storia si interruppe almeno per un momento e lì, in quell’arresto
della storia europea, si poterono cogliere simultaneamente l’agonia
del Vecchio Mondo (la Finis Austriae ove non la Finis Europae oppure
Gli ultimi giorni dell’umanità come chiamò quel periodo Karl Kraus) e
l’irrompere del nuovo: l’una non ancora compiuta, l’altro non ancora
pienamente dispiegato ma già visibile tra i lampi e le terrificanti esplosioni
(veicolo di esperienze sonore di inaudita potenza).
Con il sanguinoso «rito di passaggio» della Grande Guerra (non a
caso Le Sacre du printemps deflagra a Parigi giusto un anno prima dell’inizio
del conflitto) si dispiegò un nuovo paesaggio culturale. Fu allora che
lo specchio della civiltà occidentale andò in frantumi. Fu allora che un
«colpo di tuono» – come scrive lo storico Antonio Gibelli – «squarciò il
velo del progresso e aprì le porte della modernità, svelandone la micidiale
ambivalenza». E rimane più che mai attuale l’interrogarsi del «soldato»
-Robert Musil: «già oggi suona di nuovo incredibile come sia stato possibile
a uomini normali, in serie, milioni per tutta Europa, vivere per quattro
anni dove la vita era logicamente un assurdo senza smarrire la ragione,
senza perdere d’umanità, conservando intatta la capacità di essere allegri,
di gustare piccole gioie animali, di coltivare legami d’affetto; sostituendo
valori nuovi ai valori sconsacrati, trovando nella propria coscienza giustificazioni
all’assurdo e all’orrore».
La Grande Guerra non poteva non avere effetti ed implicazioni sulla
musica: pose in gran misura fine al «tardo Romanticismo» e, specialmente
nel teatro in musica, al «Verismo», ed aprì nuovi percorsi come l’Espressionismo
e la dodecafonia. Fece fiorire nuove culture musicali «nazionali» in
Paesi che erano stati considerati marginali o addirittura tali da non meritare
interesse.
Ad una lettura superficiale, soprattutto in Italia, l’opera lirica pareva
rifugiarsi in mondi lontani dal conflitto. Scorriamo i titoli delle «prime assolute
» di maggior successo: Parisina di Mascagni, Francesca da Rimini di
Zandonai, Madame Sans Gêne di Giordano, Fedra di Pizzetti, La Rondine
di Puccini, Lodoletta ancora di Mascagni. Ci si rifugiava in mondi lontani
o in commedie leggere. I teatri erano lontani dal fronte. Non così in tutti i
Paesi europei. In Germania, ad esempio, Strauss e Hofmannsthal reagivano
alla guerra con la vittoria di Eros su Thanatos (Ariadne auf Naxos) oppure
con un grande inno alla vita (Die Frau ohne Schatten) oppure Eine florentinische
Tragödie (Una tragedia fiorentina) del compositore austriaco
Alexander Zemlinsky portava in scena il clima putrido della società civile
in anni appena precedenti a quelli in cui proprio da detta società civile sarebbero
nate dittature. In Germania – ricorda in un saggio recente Giacomo
Properzj – la Grande Guerra terminò non per sconfitta militare al fronte
ma per implosione interna, implosione già avvertita proprio nelle partiture
di Zemlinsky e di altri suoi contemporanei, come Korngold e Schreker.
Oppure ancora in Paesi che emergevano da imperi multinazionali sarebbero
venute culture musicali che, anche se poco notate dai contemporanei,
avrebbero avuto un grande impatto nel resto del «secolo breve».
Questo articolo è diviso in due parti distinte ma connesse. Nella prima,
si commentano alcuni Festival del 2014 ed alcune delle esecuzioni recenti
di lavori musicali correlati alla Grande Guerra e la seconda è dedicata ad
un compositore, Leoš Janácˇek, diventato tardi noto al di fuori della natia
Moravia, ma che meglio di altri ha espresso, con pochi, ma importantissimi
lavori, il cambiamento della società europea.
Musica e politica: la Grande Guerra 155
Festival musicali e Grande Guerra
Il Festival Printemps des Arts svoltosi a Montecarlo dal 14 marzo al 13
aprile ha aperto la serie di manifestazioni musicali che questa estate ricorderanno
i cento anni dall’inizio dell’«inutile strage». Anche se non si tratta
di una sagra musicale a tema specifico, uno dei suoi concerti di apertura,
quello affidato a Philippe Bianconi (Diapason d’Or, l’Oscar francese della
musica, del 2012) è stato fortemente caratterizzato dal ricordo della fase in
cui nelle coscienze fu chiaro che si passava da «una guerra lampo» ad un
lungo «conflitto di posizione», ossia di trincea. Il titolo stesso En blanc et
noir di Claude Debussy (una sonata per due pianoforti in cui Bianconi era
affiancato da Dana Ciocarlie) è ispirata alle stampe di Goya sugli orrori
della guerra. Nella lettera all’editore Jacques Durand, con cui trasmetteva
la partitura, Debussy affermava «sarà, dura, lunga, spietata, ma noi, che
viviamo nelle città, dobbiamo contenere le nostre angosce e lavoriamo per
la bellezza di cui i popoli hanno un bisogno istintivo specialmente quando
soffrono». La partitura, infatti, giustappone un cantico sacro con temi di
battaglia musicale ed una melodia chiarissima ed innocente che può essere
interpretata o come segno della vittoria finale oppure come speranza nella
trascendenza. La Serenata per due pianoforti e percussioni di Béla Bartók
(a Bianconi e Ciocarlie si sono affiancati Emmanuel Curt e Florent Jodelet)
è stata eseguita per la prima volta a Londra nel 1938 (quando già rullavano
i tamburi della Seconda guerra mondiale) ma la composizione era iniziata
nel 1914. La guerra si avverte sin dal tempo iniziale in cui un assai lento
viene giustapposto ad un allegro molto, si sente nel secondo tempo (lento
ma non troppo – un poco più andante), esplode nel terzo ed ultimo tempo
allegro ma non troppo. Sorge spontanea la domanda: come mai Bartók ha
tenuto nel cassetto (rifinendola spesso) questo lavoro proprio per quel
ventennio che è stato come un armistizio in un’unica grande guerra in cui
si è consumato il suicidio dell’Europa?
In Italia, nel 2014, solamente un Festival musicale estivo (quello di
Ravenna, giunto ad un quarto di secolo) è dedicato alla Grande Guerra.
Dal 5 giugno al 4 luglio, la Prima guerra mondiale sarà il filo conduttore
della manifestazione: si riascolteranno la Messa degli Alpini e quella delle
Alpi Marittime (nonché il Requiem verdiano tanto nella città romagnola
quanto nel Santuario di Redipuglia), gli echi di battaglie ed i rapporti tra
amore e guerra attraverso musica di vari secoli, ci saranno spettacoli di
prosa ispirati a quegli anni, molte grandi orchestre italiane e straniere con
sinfonica ispirata al tema. Possiamo anticipare, però, che al Teatro alla
Scala, dopo l’inaugurazione con Fidelio di Beethoven (inno alla libertà
156 Giuseppe Pennisi
piuttosto che riflessione sulla guerra), debutterà il 15 gennaio 2015 Die
Soldaten di Zimmermann nell’edizione presentata al Festival di Salisburgo
nell’estate 2012: la denuncia degli orrori della guerra viene spostata dalle
guerre tra francesi e fiamminghi nel Settecento alla Prima guerra mondiale.
Infine, l’ormai imminente Festival estivo di Salisburgo (18 luglio-31
agosto) dedicherà una sezione multidisciplinare al tema. Due settimane di
musica spirituale, un’opera commissionata a Marc-André Dalbavie (Charlotte
Salomon) relativa alle tensioni rimaste aperte dopo la Pace di Versailles
(e che sarebbero state tra le determinanti della Seconda guerra mondiale)
e la prima mondiale del dramma The Forbidden Zone di Duncan Macmillan
sulla Grande Guerra, come vista e sentita dalle donne nella zona a
loro «proibita»; verrà interpretato da attori di lingua inglese e tedesca (ciascuno
parlerà la propria lingua ma un sistema di sopratitoli renderà il lavoro
comprensibile a tutti).
La Grande Guerra in esecuzioni recenti di lavori di Mahler e Zemlinsky
Come accennato nella premessa, la Prima guerra mondiale ha profondamente
cambiato l’Europa. Era una trasformazione già in atto prima dello
scoppio delle ostilità e che si avverte anche in lavori di solito considerati
lontani da tematiche ad essa direttamente connesse. Un esempio è la Sesta
Sinfonia di Gustav Mahler, chiamata, nell’uso corrente, la Sinfonia Tragica,
ascoltata a fine marzo-inizio aprile 2014 nella lettura di Vladimir Jurowski
sul podio dell’orchestra sinfonica dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia.
Composta nella villa costruitasi nel piccolo villaggio di Maiernigg, in
Austria, nella quiete delle estati del 1903 e 1904, la Sesta Sinfonia fu definita
«tragica» da Mahler in persona. L’interpretazione corrente, ripresa
anche nel saggio di Paolo Gallarati nel programma di sala, sostiene che
Mahler vide, oltre alla spensieratezza e le gioie della vita familiare, i tristi
presagi delle disgrazie che lo colpirono negli anni successivi: la scoperta
della malattia cardiaca che avrebbe condizionato gli anni seguenti e la morte
della figlia maggiore nel 1907. Senso tragico testimoniato anche dalla
moglie Alma che nelle sue Memorie riporta: «Nessun’opera gli è sgorgata
tanto direttamente dal cuore come questa».
A questa interpretazione vorrei contrapporne una più ampia, che situa
il carattere personale della prima in un contesto più vasto. Un po’ come
fece Ken Russell nel film biografico sul compositore del 1974 – poco visto
in Italia pure a ragione del pessimo titolo affibbiatogli dalla distribuzione
La Perdizione. Il film è composto in gran misura da una serie di flashback
Musica e politica: la Grande Guerra 157
durante un viaggio in treno quando il rapporto coniugale tra Gustav Mahler
e sua moglie Alma è già sostanzialmente estinto ma sono vivi i presentimenti
di una morte prematura, proprio alla vigilia di quella Grande Guerra,
suicidio dell’Europa. Una parte significativa del film riguarda l’antisemitismo.
Altre sezioni trattano esplicitamente dell’autoritarismo sia prussiano sia
austro-ungarico da cui sarebbe germinato il nazismo. Non credo che Mahler
avrebbe chiamato «tragica» la sinfonia unicamente pensando alle proprie
vicende personali. Al compositore che, proprio mentre lavorava alla sinfonia
(che non richiedeva l’apporto della voce umana ma comporta l’organico
strumentale più vasto, e più complesso, da lui concepito), veniva cacciato
dalla direzione del Teatro dell’Opera di Vienna, erano chiari i presagi
della Finis Europae. Anche se i colpi di pistola a Sarajevo, sarebbero avvenuti
sei anni dopo la prima esecuzione della Sesta e tre dopo la morte del
suo autore, i germi di una guerra lunga e sanguinosa erano nell’aria – e con
essa della fine di un modo di vivere e di pensare.
La direzione di Vladimir Jurowski ha colto questo senso sin dall’allegro
energico ma non troppo – violento ma scandito che inizia con una violentissima
pulsazione degli archi e contiene una marcia incandescente nel
colore scuro di violoncelli e contrabbassi – una vera fosca atmosfera di
guerra e di morte di milioni di individui, non di uno solo, per quanto grandissimo
artista. Nel secondo movimento, andante moderato, l’atmosfera
idilliaca quasi campestre più che la quiete dopo la tempesta è il ricordo di
una stagione che non ritorna più. Con il nerbo di Jurowski, il terzo movimento,
scherzo pesante, ritrova la violenza del primo e la tinge di atmosfere
macabre con momenti caratterizzati da un ritmo incalzante. Nel quarto
ed ultimo movimento, Jurowski esalta gli «assoli» dei bassi, la fantasmagoria
dei colori timbrici e la crescente agitazione angosciosa segnata da colpi
di martello. Un vero presagio di Grande Guerra.
Un ragionamento analogo può essere fatto per Eine florentinische
Tragödie (Una tragedia fiorentina), di Alexander Zemlinsky, opera raramente
eseguita e nel marzo 2014 proposta dal Teatro Regio di Torino. È un
atto unico breve (50 minuti) che richiede non solo un grande organico, ma
anche tre grandi voci e tratta con estrema crudeltà di adulterio, sesso, tradimento
e omicidio in un quadro intriso di decadentismo. Lo caratterizzano
il sinfonismo continuo attorno ad alcuni nuclei tematici ed un declamato
che scivola in ariosi. Di Zemlinsky, la «Nuova Antologia» ha trattato nel
fascicolo 2260 dell’ottobre-dicembre 2011.
L’opera andò in scena a Stoccarda nel 1917 – un chiaro segnale dell’implosione
degli Imperi centrali durante l’anno della Prima guerra mondiale
che pur li vide «sfondare» sul fronte italiano a Caporetto, reggere bene su
158 Giuseppe Pennisi
quello francese ed essere vincitori ad Est a causa dello spappolamento
dell’Impero russo. Eine florentinische Tragödie è tratto da un testo di Oscar
Wilde. I drammi in musica di Zemlinsky sono brevi e molto intensi, in uno
stile eclettico, a cavallo tra XIX e XX secolo e hanno successo soprattutto
tra i giovani. Per questo motivo negli ultimi trent’anni vengono rappresentati
frequentemente non solo in Germania e in Austria ma anche in quell’America
che all’esule aveva sbattuto la porta in faccia.
A differenza dell’edizione scaligera di dieci anni fa (quella romana fu
in forma di concerto), nella produzione presentata al Regio di Torino non
siamo in un ricco rinascimento di cartapesta ma in una Firenze anni Venti
torbida e cinica dove si avverte l’inquietante clima politico in cui viveva la
borghesia del dopoguerra. La scena (Saverio Santoliquido e Claudia Boasso)
è sostanzialmente unica; una camera alto borghese in cui è centrale un
letto. La regia di Vittorio Borrelli è lenta e indugia sull’atmosfera. Belli i
costumi protofascisti di Laura Vignone.
Soprattutto, il merito dello spettacolo va alla bacchetta di Stefan Anton
Reck. Occorre elogiare la perizia con cui ha concertato Zemlinsky facendo
quasi palpare i «nuclei» in cui è tessuto il sinfonismo. Di livello, il cast.
Tommi Hakala ha affrontato con successo l’impervio e lunghissimo ruolo
del protagonista; lo hanno ben affiancato Zoran Todorovich e Angeles
Blancas Gulin.
Leoš Janácˇek, paradigma del cambiamento nell’Europa della Grande
Guerra
Perché considero Leoš Janácˇek, autore paradigmatico delle trasformazioni
nell’Europa della Prima guerra mondiale? Visse a lungo. Nato nella
cittadina di Hukvaldy vicino a Prˇíbor in Moravia (dove ebbe i natali anche
Sigmund Freud), nel 1854, visse quasi tutta la vita a Brnó, capitale della
regione allora parte dell’Impero austro-ungarico, ed oggi parte meridionale
della Repubblica Ceca. Brnó è a circa metà strada tra Vienna e Cracovia – il
cuore quasi di quell’area dell’Europa centrale dove la Grande Guerra apportò
i maggiori cambiamenti ai confini geografici e politici. Lì vi era il
carcere dove è stato Silvio Pellico.
Per decenni, Janácˇek fu essenzialmente un didatta e compose principalmente
musica dello spirito o ispirata a tradizioni locali (nonché di un’opera
in atto ancor oggi raramente messa in scena). A 50 anni circa, nel 1904
(quasi contemporaneamente alle prime di Madama Butterfly di Puccini e
di Salomè di Strauss), nella sala da tè (adattata a teatro) del maggior caffè
Musica e politica: la Grande Guerra 159
di Brnó venne rappresentato il suo primo capolavoro Jenufa – oggi la città
dispone di tre teatri di cui il maggiore (1300 posti) porta il nome del compositore.
La partitura di Jenufa era stata respinta dal Teatro Nazionale di
Praga, dove venne rappresentata solo nel 1916, in piena Prima guerra mondiate,
dopo forti rimaneggiamenti imposti dalla censura. Jenufa diventò un
successo europeo in seguito alla rappresentazione a Vienna nel 1918 (proprio
mentre l’Impero era sul punto del tracollo), nella traduzione di Max
Brod in tedesco (lingua in cui le opere di Janácˇek sono state eseguite per
decenni, al di fuori della Moravia). Janácˇek visse sino al 1928; nell’ultima
fase della sua vita in un’Europa in rapida trasformazione ebbe meritatissimi
riconoscimenti (laurea honoris causa, ammissione all’Accademia Prussiana
delle Arti). Per quanto, tra le «scuole» della piccola Brnó, si considerasse
vicino a quella musicale, sviluppò un linguaggio modernissimo che, al di
fuori dell’Europa centrale, venne compreso solamente dopo la Seconda
guerra mondiale, grazie a direttori come Sir Charles Mackerras, James
Conlon e Lothar Koenigs. Nella New York degli anni Settanta, i lavori di
Janácˇek trovavano casa alla City Opera, considerata tra lo sperimentale e il
popolare, non al Metropolitan.
La fortuna Janácˇek in Italia è stata tardiva. Se ne eseguivano la cameristica
e la Sinfonietta, ma si dovette aspettare sino al 1936 per la prima esecuzione
(radiofonica) di Jenufa ed al 1941 perché La Fenice la mettesse in
scena. Per Kát’a Kabanová ci volle il coraggio del Maggio Musicale Fiorentino
nel 1957. L’anno dopo, La Scala allestiva La piccola volpe astuta; nel
1963, la Sagra Musicale Umbra proponeva, al Morlacchi di Perugia. Da una
casa di morti nel 1966; nel 1967 era ancora Firenze a scommettere su L’affare
Makropulos e su Le avventure del Signor Brouceck. Si trattava, di solito,
di esecuzioni non sempre nella lingua. Si perdeva, quindi, l’impasto tra musica
e testo (rigorosamente in prosa) centrale alla struttura musicale di Janácˇek.
Non che la forte carica innovativa non fosse apprezzata dagli specialisti:
in un saggio del 1957, Massimo Mila ha scritto che egli stesso, Gianandrea
Gavezzani e Fedele D’Amico «avevano dato l’allarme: siamo alla presenza
di un grande, una specie di Mussorgskij moravo, con in più le esperienze
musicali recenti, da Strauss all’espressionismo, fino ai confini della crisi
atonale». Negli anni Cinquanta, Mila ha anche detto: «se Janácˇek fosse
stato francese, oggi sarebbe importante e famoso quanto Ravel». Tuttavia
solo negli anni Settanta le sue opere vengono rappresentate pure al di fuori
dei pochi enti lirici principali della Penisola, giungono nel circuito lombardo
ed in quello emiliano-romagnolo, arrivano nei teatri siciliani. Unicamente
negli anni Ottanta e Novanta, vengono eseguite in moravo (con
l’ausilio essenziale dei sopratitoli) e in edizioni critiche. Adesso, anche in
160 Giuseppe Pennisi
Italia Janácˇek è riconosciuto, con Strauss e Britten, tra i tre massimi autori
del teatro musicale del Novecento.
Nell’estate 2004, a cento anni dalla prima esecuzione della sua opera
più nota, Jenufa, due festival italiani sono imperniati sui lavori e sulla figura
del compositore moravo Leoš Janácˇek. Al Ravenna Festival, un’intera
sezione (7-9 luglio) gli è dedicata: l’Orchestra Filarmonica Slovacca e il
Coro Filarmonico Slovacco vi hanno presentato la Sinfonietta, La Messa
Glagolitica (ossia in antica lingua morava) ed un concerto di musica corale;
il quartetto Pražák ha eseguito il Quartetto n. 1 ispirato alla Sonata a
Kreutzer e il Quartetto n. 2 detto Lettere intime. Al Cantiere d’Arte di
Montepulciano (30 luglio-8 agosto), buona parte del programma è stato
affidato alla Young Janácˇek Philharmonic Orchestra, un organico di giovani
formato da Lothar Koenigs raccogliendo strumentisti da tutta Europa,
nonché specialmente dedicata all’opera del compositore moravo. Vi sono
state proposte, oltre alla Messa Glagolitica ed alla Voix Humaine di Francis
Poulenc (monodramma in gran misura ispirato a Janácˇek), due composizioni
raramente eseguite in Italia: il Diario di uno scomparso e Gioventù, il
sestetto di fiati in cui rievoca la spensieratezza degli anni da studente.
Pure in patria il successo è stato tardivo: Jenufa – si è detto – è stata
allestita in modo approssimativo a Brnó (al cui conservatorio Janácˇek insegnava)
quando aveva 50 anni e, in forma mutilata, a Praga quando ne
aveva quasi 62. Le difficoltà erano di natura estetica. In una piccola nazione
(la Moravia) di quello che allora era un grande Impero, la corrente di
moda della musica colta guardava al passato: una combinazione di nazionalismo
e di wagnerismo. Janácˇek, invece, voltava le spalle al ceppo tedesco
e si rivolgeva al mondo slavo e alla musica contadina. Rifiutava il verso:
come, dopo di lui, Berg e Poulenc, optava per una prosa in cui la musica e
la parola fossero fuse; tagliava drasticamente i drammi in modo che i tre
atti rituali fossero contenuti in non più di 90 minuti complessivi; prendeva
a prestito le tecniche di quello che allora era la nuova forma di spettacolo
(con pretese di arte), il cinema.
Queste difficoltà di natura estetica nell’Europa centrale della prima
parte del secolo scorso, gli anni detti della Grande Trasformazione da
Michael Polanyi sono anche alla base del successo che Janácˇek ha oggi
pure con il pubblico più giovane. L’Espressionismo janácˇekiano esce dal
Romanticismo e dal post-Romanticismo, nonché dal wagnerismo, grazie
ad una struttura musicale fondata sull’alternanza di frammenti differenti
e contradditori nello stesso movimento (nonché insistentemente reiterati
come avverrà più tardi nella musica dodecafonica), con l’inserimento di
abbandoni lirici unicamente in certi momenti specialmente liberatori (si
Musica e politica: la Grande Guerra 161
pensi alle scene conclusive di Jenufa e di L’affare Makropulos). Anche i
tempi ed i metri si alternano con frequenza insolita, rompendo con l’unità
emotiva dei movimenti della musica dell’Ottocento. Infine, come sottolinea
il suo compatriota Milan Kundera, la coesistenza di più emozioni contraddittorie
in spazi limitatissimi crea una semantica originale in cui si hanno,
parallelamente, «la inattesa contiguità delle emozioni» e la «polifonia delle
emozioni». A tutto ciò, che è comunque tremendamente moderno e attuale
(anche sotto il profilo tecnico-musicale), si aggiungono i temi trattati
nei lavori di Janácˇek: dal riscatto di chi è reietto in un mondo meschino
(Jenufa, Kát’a Kabanová), dal ricordo della stagione che non ritorna, la
giovinezza (Diario di uno scomparso, Gioventù), alla ricerca dell’Alto,
alla rinascita della vita ed alla stessa resurrezione dei corpi (L’affare Makropulos,
La piccola volpe astuta, Da una casa di morti) – argomenti
principali della sua musica da Chiesa e di quella vera e propria in un’orgia
di esperienze foniche che è la Messa Glagolitica.
Le sei opere principali per il teatro possono essere divise in due fasi.
Prima della Grande Guerra, Jenufa afferma, nella piccola Moravia dell’Impero
asburgico, il rifiuto delle concezioni romantiche e la volontà di appartenere
invece ad un mondo ideale e morale nel quale vengano rispettati i
diritti degli uomini, a partire dai più umili e indifesi, mentre Le avventure
del signor Broucˇek (completata nel 1918 ma rappresentato nel 1920) contiene
una dura satira contro il conformismo della borghesia incapace di
vedere il profondo cambiamento in atto.
Nel dopoguerra la pessimista visione del mondo di Janácˇek trovò la sua
massima manifestazione in quattro opere che contengono, in maniera diversa,
una forte carica di protesta: Kát’a Kabanová (1921), La volpe astuta
(1924), L’affare Makropulos (1926) e Da una casa di morti (la cui prima
avvenne nel 1930, dopo la morte dell’autore). Ciò contrastava con l’atmosfera
allora dominante nella Repubblica Cecoslovacca di grande attese e
speranze dopo la creazione di uno Stato non omogeneo ma libero dal giogo
asburgico. Janácˇek avvertiva il presagio che qualcosa ancora peggiore stesse
per avvenire (proprio a Brnó ci fu, anni dopo, una delle maggiori stragi
di ebrei). L’immedesimazione del compositore con il materiale narrativo
delle sue opere è sempre molto forte: durante la composizione Da una
casa di morti, tratta da un lavoro di Dostoevskij nel quale il letterato russo
rievoca le tragiche esperienze dell’esilio siberiano, egli confessa ad un amico:
«mi sembra di scendere, gradino per gradino, sempre più in basso, e di
camminare nei bassifondi più miserabili degli esseri umani. Ed è un cammino
molto penoso».
162 Giuseppe Pennisi
Le opere precedenti o contemporanee alla Grande Guerra
Anche la mia conoscenza con i maggiori lavori di Janácˇek è stata tardiva
– avevo ascoltato la Sinfonietta, La Messa Glagolitica ed Diario di uno
scomparso durante i tre lustri passati negli Stati Uniti. Quasi per caso, in
una serata dell’aprile 1985 a Trieste, dove ero per un paio di conferenze, al
Teatro Verdi si rappresentava Jenufa, di cui non sapevo nulla (libretto,
struttura musicale, durata). Concertava Julian Kovatchev (al suo debutto
in Italia), la regia era di Giulio Chazalettes, cast interamente italiano che
cantava in moravo senza soprattitoli – quindi, con difficoltà per un ascoltare
sostanzialmente ignorante. Lo scarno programma di sala mi aiutò a
comprendere l’intreccio (all’apparenza un fattaccio di cronaca nera oggetto
di un romanzo di successo della scrittrice morava Gabriella Preissová).
Venni letteralmente rapito da un lessico musicale modernissimo e dal grande
arioso finale. Da allora ho avuto la fortuna di ascoltare dal vivo Jenufa
al Festival dei Due Mondi a Spoleto, al Maggio Musicale Fiorentino, al San
Carlo ed alla Scala (nel giro di pochi anni).
In un villaggio della Moravia, la bella Jenufa, figliastra della sagrestana,
è corteggiata dall’aitante Steva, che, messala incinta, l’abbandona. Ne è innamorato
(e continua ad esserlo pur dopo essere messo a conoscenza dello
stato della ragazza), il fratellastro di Steva, Laca. Per far sì che Laca non
desista da propositi matrimoniali, la sagrestana fa morire il neonato esponendolo
al freddo. L’infanticidio viene scoperto proprio durante la festa di nozze
tra Jenufa e Laca, il quale si stringe ancora di più alla moglie, aiutandola
a cercare speranza e riscatto nonostante la riprovazione della società che li
circonda. Il protagonista del lavoro è la piccola e gretta borghesia morava di
un impero «perbenista» sostanzialmente già defunto. Il dramma è incentrato
nel confronto tra due donne (ambedue soprano, anche se di differente tessitura):
l’austera, altera e lucida pur se tormentata sagrestana e la nevrotica e
passionale figliastra. Ad un passo di distanza, il confronto tra due uomini
(ambedue tenori, pur se di differente timbro): Laca nevrotico e passionale,
come Jenufa, e Steva, ragazzaccio amorale. Nel fondale, come detto, la società
morava. Nei 90 minuti, la partitura è in gran misura fatta di frammenti
emotivi, spesso contraddittori, che si fondono alla perfezione con il parlato
in prosa; la scrittura orchestrale e vocale richiede, accanto alla tenuta
d’insieme, virtuosismo da parte dei singoli strumenti. Delle varie esecuzioni
dal vivo di questi ultimi anni, due mi sono rimaste particolarmente vive:
quella della Scala nel 2005 e quella del San Carlo nel 2000.
Alla Scala è stata presentata una coproduzione con lo Châtelet di Parigi
e il Teatro Real di Madrid. Il regista Stéphane Braunschweig dà una
Musica e politica: la Grande Guerra 163
lettura stilizzata del dramma: una scena unica in cui dominano (anche nei
costumi) tre colori – il marrone cupo tendente al nero, il rosso e varie gradazioni
del bianco. Lothar Koenigs ha diretto enfatizzando il virtuosismo
dei solisti (magnifici gli «a solo» del violoncello e tutta la ricca strumentazione
timbrica). Tra i quattro protagonisti spiccavano le due donne: l’avvenente
Emily Magee (Jenufa) dalla vasta estensione e la sorprendente Anja
Silja che a 75 anni di età, e 57 di carriera, era ancora una convincente sagrestana.
Miro Dvorsky era un Laca dal timbro morbido che ben si giustapponeva
alla vocalità da tenore eroico di Ian Storey (Steva). Lo spettacolo
sarebbe stato perfetto se non fosse stato interrotto da un lungo intervallo
che ne ha spezzato la tensione.
Il San Carlo ha prodotto Jenufa apparentemente come pretesto per
l’addio alle scene di Raina Kabaivanska nelle vesti della sagrestana. A
differenza di altri allestimenti (ad esempio, quelli di Trieste, Spoleto e Firenze),
nella regia di Walter Le Moli e nelle scene e costumi di Tiziano
Santi (ispirati alle fotografie di Josef Kouldeka) non c’era nulla di bozzettistico
o di pittoresco: il dramma della lotta tra fratellastri per la conquista
di Jenufa, dell’infanticidio e del riscatto in una società contadina e piccolo
borghese veniva trasportato dall’inizio del secolo scorso al 2000, in un
contesto (pure di famiglie divise su fronti avversi) che potrebbe essere il
Kossovo – un ultimo scampolo della fine degli Imperi multinazionali avvenuta
con la Grande Guerra.
L’allora giovanissimo Vladimir Jurowski ha diretto con piglio e intensità
i 90 minuti dei tre atti intensissimi. Jurowski è riuscito nel compito, pur
coprendo, a tratti, qualche voce di cantanti meno dotati del volume richiesto
dall’ampia sala del San Carlo (ad esempio, Alexander Fedin nel ruolo di
Laca). Alla Kabaivanska, grandissima per quella che sarebbe dovuta essere
la sua ultima interpretazione sulla scena, ha fatto da pendant un’eccellente
Gwinne Geyer nel ruolo della protagonista; voce calda e duttile (specialmente
nei difficili fraseggi) ed ottima presenza scenica. Ian Storey è adeguatamente
bullo e trucido nel ruolo di Steva. I numerosi personaggi minori sono
stati scelti con cura, come si addice a uno spettacolo di classe.
Non ho mai visto dal vivo Le avventure del signor Broucˇek, che peraltro
credo sia stato rappresentato in Italia unicamente al Maggio Musicale Fiorentino
del 1967 ed è anche eseguita di raro al di fuori della Repubblica
Ceca. È un lavoro satirico in due parti, di cui una sulla luna ed una del XV
secolo. È meno compatta della altre, anche in quanto composta durante un
periodo di oltre dieci anni. È attinente al nostro tema in quanto la prima
parte (sostanzialmente completata nel 1918), per quanto molto acida nei
confronti del trasformismo della borghesia (più di quella boema che di
164 Giuseppe Pennisi
quella morava) ha un forte carattere nazionalista e la partitura è dedicata a
T. G. Masaryk, eroe dell’indipendenza della Cecoslovacchia, di cui sarebbe
stato il primo Presidente. L’opera termina, dopo tanto sarcasmo, con le
note di un inno di vittoria.
Tra Jenufa e Le avventure del signor Broucˇek trascorrono tre lustri.
Ambedue, per quanto amare, hanno un finale denso di speranza, più Broucˇek
che Jenufa. Tuttavia, l’arioso finale del terzo atto del capolavoro del 1904
è nel segno del riscatto e di un domani migliore.
Le opere successive alla Grande Guerra
Nelle quattro opere successive alla Prima guerra mondiale questa visione
moderatamente ottimista del futuro si fa sempre più tenue sino a diventare
cupa, quasi disperata.
C’è il rimpianto per il passato nel Diario di uno scomparso, una serie di
Lied messi in scena come un atto unico alla Sagra Malatestiana a Rimini del
2006 con un’abilissima regia di Denis Krief. Composti quando l’allora 62enne
Janácˇek stava iniziando una relazione affettiva con una giovane donna,
Kamila Stösslová, che aveva incontrato durante una vacanza in una stazione
termale, in cui ambedue erano accompagnati dai rispettivi consorti. La relazione
durò circa dodici anni, sino, quindi, alla morte di Janácˇek: la Stösslová
finì gassata durante la Seconda guerra mondiale in un campo di concentramento
nazista. La relazione fu intensa: è stato di recente pubblicato un epistolario
di 722 lettere (in gran parte quelle di Janácˇek, mentre quelle della
Stösslová sono andate quasi tutte perdute). La relazione ebbe (lo mostra
l’epistolario) una forte carica sensuale, ma non venne mai consumata. Mettendo
in musica Il diario (che termina con la scomparsa del protagonista
verso luoghi ignoti) Janácˇek raccontava il suo tardo ma appassionato amore
con la Stösslová, guardando, però, ai sogni della sua giovinezza.
Andiamo con ordine. In Kát’a Kabanová (di cui si sono viste belle
edizioni al Massimo Bellini di Catania, a Firenze, a La Fenice in trasferta al
Tronchetto ed alla Scala) siamo, a pochi anni dalla fine della Grande Guerra,
in un mondo dove non c’è più spazio per le illusioni. Kát’a Kabanová è
la più fragile di tutte le eroine di Janácˇek. La vicenda è tratta da un romanzo,
e da un dramma, di successo dello scrittore russo Alexander Ostrovsky.
In un piccolo centro bigotto, dove domina la suocera Kabanicha (intenta,
tra un paternostro e l’altro, in giochi sadomaso con il mercante Dikoj), Kát’a
Kabanová ha un marito imbelle e forse impotente, Tichon, ed è amata in
segreto dal bel Boris. Ai margini del clima pesante del villaggio, la sua mi-
Musica e politica: la Grande Guerra 165
gliore amica, la trovatella Varvara, ha una relazione amorosa-sessuale fresca
e piena con il giovane professore di chimica Kudrjásch. Durante un viaggio
d’affari di Tichon, Varvara dà a Kát’a la chiave del luogo dove si incontra
con Kudrjásˇ. Non sapremo mai se il rapporto tra Kát’a e Boris va al di là
del platonico. Il rimorso, però, è tale che al ritorno di Tichon, e nel corso
di un uragano, Kát’a si confessa adultera. Trova sollievo solo gettandosi nel
Volga, mentre Kabanicha ringrazia i presenti per la collaborazione data del
risolvere il caso aperto dalla confessione della nuora. Ed il villaggio torna
alla bigotteria di sempre.
In Kát’a Kabanová, a 67 anni, Janácˇek dimostra una grande capacità di
sviscerare in musica l’animo umano (con una scrittura spezzettata e continuamente
ricostituita raramente superata). A Catania si è visto, tre lustri fa,
un allestimento portato dall’Opera Nazionale di Praga. La produzione scaligera
(2006) proveniva dalla De Vlaamse Opera di Anversa. La regia è
stata curata dal canadese Robert Carsen. La scenografia, giocata sulla predominanza
dell’elemento acquatico che richiama l’incombente presenza del
fiume, è opera – come i costumi – di Patrick Kinmonth. Sul podio, il britannico
John Eliot Gardiner. Completano il cast tecnico le coreografie di Philippe
Giraudeau. Gli interpreti: Janice Watson è Kát’a, Vladimir Ognovenko
Savël Prokofjevicˇ Dikoj, Peter Straka Boris Grigorjevic, Judith Forst Kabanicha,
Guy De Mey Tichon. Uno spettacolo di grande livello.
Nei miei ricordi, il più struggente, e il più disperato, è quello messo in
scena al Tronchetto nel 2003. I 90 minuti dei sei quadri e due intermezzi si
snodavano senza interruzione in un’atmosfera scura dominate dalle acque
del Volga – una grande piscina sul boccascena. Perfette le scene (semplici
ma efficacissime) di Ralph Koltai e i costumi di Sue Willmington; tesissima
la regia di David Pountney (la sua più riuscita dopo quella di Inquest of
Love di Jonathan Harvey che ha meritamente fatto il giro del mondo, pur
senza mai approdare in Italia). Ottimo il cast (che richiede tre tenori di livello).
Kát’a è Gwynne Geyer, che già mi incantò in Jenufa al San Carlo;
Kabanicha è Karen Armstrong, che dimostra come, scegliendo i ruoli adatti,
si può restare bravissimi (e bellissimi) con 40 anni di carriera sulle spalle;
Julia Gertseva è una sensuale Varvara. I tre tenori sono Clifton Forbis
(un Boris aitante), Peter Straka (un Kudrjásˇ appassionato) e Christoph
Homberger (un Tichon cappone). Ben scelti i numerosi caratteristi del
borgo selvaggio e bigotto in cui si svolge il dramma. Lothar Koenigs ha
diretto un’orchestra de La Fenice in stato di grazia.
La piccola volpe astuta negli ultimi 15 anni si è vista al Festival di
Spoleto, alla Fenice, alla Scala, e a Firenze, nonché in una produzione semplice
al Teatro Studio del Parco della Musica come saggio finale della Scuo-
166 Giuseppe Pennisi
la dell’Opera dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. È un testamento
pieno di sarcasmo in cui Janácˇek prende in giro il perbenismo dei borghesipiccoli-
piccoli (il maestro di scuola saccente, il curato pedante, il guardiacaccia
mal coniugato, il venditore ambulante avido) che rendevano difficile
la sua vita. Per la vicenda, Janácˇek ricorre ai fumetti popolari di un
giornale vagamente di sinistra, acquistato dalla sua cameriera, e ne fa
un’opera in tre atti in cui il mondo piccolo borghese viene messe a confronto
con quello degli animali del poco lontano bosco. La piccola volpe astuta
(di cui l’allestimento fiorentino del 2009, coprodotto con il giapponese
Saito Kinen Festival, è specialmente memorabile) è una vera chicca. Andiamo
ai fumetti che portarono il sessantenne, devoto ma in crisi eroticosentimentale
per la Stösslová, a mettere in berlina la società morava. Si era
attorno al 1920, più o meno nel periodo in cui Walt Disney inventava Topolino
e gettava le basi per quella che sarebbe stata una delle maggiori
multinazionali dell’entertainment «formato famiglia». Sul «Lidové Noviny»
(«Quotidiano del Popolo») di Brnó appariva ogni giorno una puntata di un
romanzo sterminato di Rudolf Téšnohlídek, cronista giudiziario dai sentimenti
vagamente anarchici, orientato verso l’avanguardia e caratterizzato
da poca simpatia per la burocrazia e la magistratura, specie se giustizialista.
Mentre i fumetti di Disney erano antropomorfici e seguivano rules and
mores dalla middle class americana, le strisce disegnate di Téšnohlídek
giustapponevano il modo ipocrita degli uomini (il curato, il maestro ed il
guardiacaccia si ubriacano ogni sera ed il venditore ambulante ha il fucile
facile) con quello libero e sensuale del bosco. Da questo spunto, Janácˇek
scrive il libretto e compone la musica di un lavoro in cui non solo il perbenismo
moraleggiante viene contrapposto alla libertà della natura ma si
esalta la vita che scorre, che non può essere piegata agli editti della carta
bollata in quanto basa il proprio rinnovarsi sulla forza immensa delle proprie
regole eterne (meglio comprese e seguite nel bosco che nella cittadina). Di
queste regole, la più profonda (e la più irritante per i borghesi piccolipiccoli)
è l’amore che con la sua fisicità è l’eterna molla del rinnovamento.
Nel 1924, quando debuttò, La piccola volpe astuta fu un grande successo,
anche a ragione della popolarità dei fumetti di Téšnohlídek. Furono necessari,
però, molti lustri perché la sferzante satira raggiungesse i palcoscenici
dei maggiori teatri europei ed americani: fondamentale un’edizione diretta
da Walter Felsenstein nel 1957 alla Komische Oper di Berlino, quindi in
quella che era la Repubblica Democratica Tedesca (dove il contrasto tra
vitalità del bosco e della volpe astuta con il grigiore del curato, del maestro,
del guardiacaccia e del venditore ambulante lanciavano messaggi molto
eloquenti). La partitura è un magico equilibrio tra il melodismo nostalgico
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slavo ed il sinfonismo pagano di Richard Strauss. Si avverte un’influenza
di Debussy (del quale Janácˇek conosceva bene sia La Mer sia Pelléas et
Mélisande) sull’orchestrazione. Massimo Mila ha parlato di «un ininterrotto
mormorio della foresta, inafferrabile e inclassificabile, nutrito di ingredienti
anche diversi da quelli del sinfonismo di Strauss, e provvisto di temi
di assoluta originalità, nonché di delicatezza impressionistica e di calligrafismo
sonoro da Ravel campagnolo».
Il penultimo lavoro, L’affare Makropulos, è intrigante. È stato visto
relativamente spesso in Italia grazie ad un’edizione (curata da Luca Ronconi)
in traduzione ritmica italiana proposta a Torino, a Bologna, e a Napoli,
e a produzioni in moravo alla Scala, a Firenze e a La Fenice. Ci sono
anche state due edizioni di grandissimo livello ai Festival di Aix-en-Provence
e di Salisburgo. Ha le guise di un dramma poliziesco: un processo su una
vertenza di successione che dura da più di cent’anni in cui si inserisce una
bellissima e giovanissima cantante – Emilia Marty – che tanto sa (e tanti
documenti sa trovare) ma cerca disperatamente un manoscritto in greco. Il
dramma di cˇ apek (da cui è tratto il lavoro) dura oltre quattro ore ed è
farcito di discorsi filosofici. I tre atti di Janácˇek durano 90 minuti e rendono
meglio se – come a Salisburgo – vengono rappresentati senza intervallo.
L’opera in effetti tratta del valore e della durata della vita come esperienza
terrena. Emilia Marty ha 337 anni; ha avuto, negli oltre tre secoli di esistenza,
vari nomi tutti con le iniziali E. M.; suo padre, il negromante cretese
Makropulos, ha predisposto una pozione di lunga vita per l’Imperatore
d’Ungheria, lei l’ha provata ed è rimasta sempre giovane ma allo scadere
dei giorni in cui si svolge l’opera deve bere di nuovo la pozione o morirà.
La ricetta si è smarrita nelle mani di un antenato di coloro che sono coinvolti
nel maxiprocesso. Da qui la sua ricerca affannosa. È così bella che una
delle controparti nel processo (senza sapere di essere un suo bisnipote) si
innamora perdutamente di lei e che un altro si suicida quando apprende
che suo padre (in possesso delle carte in greco) dà il documento in cambio
di una notte di sesso con lei. Ma, pure sotto le lenzuola, Emilia è fredda. In
trecento anni, i suoi amici, i suoi amanti, le persone a lei care sono sparite,
mentre lei vagava da Paese a Paese. Quando ha il documento, lo cede alla
fidanzata (giovane) di uno dei suoi innamorati, che lo brucia, mentre lei
invecchia in pochi istanti e muore. Come in Jenufa un grande arioso finale
e un pianissimo chiudono il lavoro. A differenza di Jenufa, però, il finale de
L’affare Makropulos è senza speranza.
Janácˇek, moravo, sarebbe dovuto essere politicamente appagato dalla
istituzione della Repubblica Cecoslovacca dato che dalla nascita nel 1854
aveva sofferto il giogo austro-ungarico. La Moravia era pacifica e relati-
168 Giuseppe Pennisi
vamente ricca. Eppure la sua ultima opera Da una casa di morti – come
notò nel 1981 Milan Kundera in un articolo sulla patria lontana occupata
dai russi – è preveggente: «più contemporaneo non potrebbe essere» poiché
descrive i gulag ed i Lager e utilizza un linguaggio musicale in anticipo
di alcuni decenni – una semantica che intende cogliere il nesso tra
note e psicologia e in cui il linguaggio crudo, e spesso volgare, dei carcerati
viene presentato in una struttura in 13 episodi, ciascuno diviso in
sezioni tematiche, ognuna costruita su iterazioni di motivi semplici e con
una tonalità fissa. Ciò accentua il carattere al tempo stesso cupo e crudo
del lavoro, ma anche, come ha scritto il musicologo John Tyrrell, l’immensa
pietas dell’opera.
In Italia, l’opera era stata messa in scena a Perugia nel 1963 e a Milano
nel 1968 ma in versioni manipolate da allievi di Janácˇek. Il Teatro Massimo
di Palermo nel 2008 e la Scala nel 2010 ne hanno presentato due edizioni
differenti ma in quella che dal 1974 è ritenuta l’edizione critica più vicina
alle intenzioni dell’autore (che morì prima di suggellare la terza stesura
della partitura). Il lavoro non ha veri e propri protagonisti ma ben 23 personaggi
– ciascuno con caratterizzazioni difficili da interpretare e da cantare;
le voci sono unicamente maschili (tranne un breve intervento di un soprano
nel ruolo di una prostituta ammessa nel carcere, in occasione della
Pasqua, per soddisfare le esigenze dei prigionieri); la scrittura vocale e orchestrale
è estremamente complessa; i tre atti vengono rappresentati senza
intervallo proprio per accentuare il senso di claustrofobia (e il simbolo finale
di libertà: il volo di un’aquila ferita e curata dai carcerati). A Palermo,
l’opera era coprodotta con la Welsh National Opera, la regia affidata a
David Pountney e la direzione musicale a Gabriele Ferro che ha cesellato
la partitura. Alla prima c’erano alcune file vuote: lo scotto che si paga per
l’innovazione, ma il passaparola ha funzionato per le repliche. Lo spettacolo,
pluripremiato, accolto con clamoroso successo da pubblico e critica, è
nato nel maggio 2007 alle Wiener Festwochen, rassegna viennese in cui
Stéphane Lissner convinse Patrice Chéreau e Pierre Boulez a lavorare insieme
in un nuovo progetto teatrale, trent’anni dopo il loro storico Ring di
Bayreuth. Ha debuttato al Festival di Aix-en-Provence che lo ha coprodotto
con la Scala e il Metropolitan di New York. A Aix sul podio c’era Boulez;
a Milano e a New York Esa-Pekka Salonen, che insieme a Boulez ha lavorato
alla revisione della partitura di Janácˇek.
Resta l’interrogativo di Kundera: come mai nella seconda metà degli
anni Venti in una Moravia lieta della propria indipendenza e apparentemente
serena, un vecchio borghese professore di conservatorio riuscì ad anticipare
i Lager ed i gulag di quello che, in un bel libro, Luigi Fenizi ha corretta-
Musica e politica: la Grande Guerra 169
mente chiamato Il secolo crudele e caratterizzato da un’unica Grande Guerra
dal 1914 al crollo del muro di Berlino?
Conclusione
Le due parti di questo articolo hanno un nesso più forte di quanto
possa apparire: le citazioni di esecuzioni recenti e di Festival imminenti
sulla musica della Grande Guerra sono germane della vita musicale di
Janácˇek che vide la Prima guerra mondiale come speranza per la piccola
Nazione a cui apparteneva ma che subito dopo presagì la pace come un
breve interludio ne Il secolo crudele. Un secolo di profonda rivoluzione
musicale, sulla quale le vicende politiche e militari hanno inciso forse più
di quanto i musicologi realizzino.
Giuseppe Pennisi
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