Per
cortesia, non torniamo a Bretton Woods
Sarebbe un errore, nel XXI secolo, tornare a Bretton
Woods, ossia ad un sistema di cambi fissi, oppure gestiti collegialmente
attorno a "parità centrale" determinate per accordo politico
Settanta anni fa, al George Washington Hotel (privo di
aria condizionata), si svolse, nelle prime settimane di luglio, la conferenza
di Bretton Woods che fornì un assetto all’economia internazionale per decenni
del dopoguerra, almeno sino al 1971-73 quando, da un lato, il sistema dei cambi
‘quasi-fissi’ (o gestiti collegialmente) tracollò sotto il peso del disavanzo
della bilancia dei pagamenti americana e, da un altro, i Paesi produttori di
materia prime, dopo un paio di secoli di silenzio, alzarono la testa per fare
sentire le loro voci (e le loro ragioni di scambio).
In occasione della ricorrenza, c’è una vera e propria
pioggia di articoli di augusti commentatori sul tema “torniamo a Bretton Woods”
per mettere ordine nel sistema economico internazionale, per salvare gli Stati
alle prese con massicci debiti sovrani e – perché no? – fare nascere più figli
nella senescente Europa e forse anche curare le emorroidi.
Nulla di più banale. Ho lavorato, per un quarto di
secolo, per le istituzioni di Bretton Woods, dal 1968 al 1986, 1986-89 e dal
1990-94. Sono state il mio migliore datore di lavoro. Ho grande rispetto per la
quantità e la qualità del loro lavoro nonché soprattutto per la loro
“efficienza adattiva”, la capacità di cambiare obiettivi ma mantenere elevati
livelli di efficienza al mutare di circostanze.
Tuttavia, sarebbe un errore, nel XXI secolo, tornare a
Bretton Woods, ossia ad un sistema di cambi fissi, oppure gestiti
collegialmente attorno a “parità centrale” determinate per accordo politico
(anche se su base economica). Ne si ha quasi ogni giorno la prova nei travagli
dell’eurozona.
Bretton Woods si basava su quello che Robert
Mundell e Marcus Fleming chiamarono “il teorema del trilemma” del 1962-63.
Mundell, che ha sempre amato le cerimonie religiosi tanto quanto il Montalcino,
mi disse di essere stato ispirato da due predicatori del Sei-Settecento: Philip
Henry e Isaac Watts. Fleming diceva di essersi ispirato addirittura a Epicuro.
Comunque sia, è un teorema che viene da lontano e va lontano. In breve dice che
non si possono raggiungere tre obiettivi quando uno dei tre è incompatibile con
gli altri due.
Nel caso specifico, dell’applicazione del teorema agli
accordi di Bretton Woods, per favorire la ricostruzione e la crescita, per
avere cambi fissi (ed impedire le svalutazioni competitive degli Anni Venti e
Trenta) e per promuovere la liberalizzazione degli scambi commerciali (dopo il
protezionismo e la frammentazione dei commerci tra l’inizio del Novecento e la
fine della seconda guerra mondiale), si rinunciò alla libertà di movimenti di
capitali (assoggettati anzi a controlli eliminati molto gradualmente e tolti
definitivamente solo dopo la fine dei cambi fissi) e, quindi, alla sovranità
monetaria.
Nell’eurozona, si è pensato di andare oltre (senza
avere le condizioni – sempre definite da Mundell – per essere un’area valutaria
ottimale ): cambi fissi (anche fississimi dato che le monete nazionali sono
sparire, piena libertà di movimenti di capitale, mercato unico per i commerci
di beni e servizi). Non pare che la situazione sia molto buona.
Dal luglio 1944 ad oggi, la storia economica ha
insegnato : a) il trilemma morde b) i Paesi che optano per cambi fluttuanti ma
non forzano svalutazioni competitive sono quelli che hanno i migliori risultati
in termini di crescita.
Non c’è un solo trilemma (quello di Mundell-Fleming o,
se si vuole, Epicuro-Henry-Watts. L’economista olandese Dirk Shoenmaker
ne ha formulato uno secondo cui è impossibile avere, simultaneamente, stabilità
finanziaria interna, un sistema finanziario internazionalizzato e sovranità
nazionale. In un bel libro di Dani Rodrik (Università di Harvard), The
Globalization Paradox, si sostiene, con solidi argomenti, che è impossibile
perseguire al tempo stesso obiettivi di politica nazionale “affermativa”,
democrazia interna e partecipazione al processo di internazionalizzazione.
Quest’ultimo richiede regole implicite o esplicite che limitano la possibilità
degli elettori di perseguire questa o quella finalità politica interna (come la
tutela delle industrie nascente o certi “diritti acquisiti” da lavoratori e
pensionati).
Il Ministro dell’Economia e delle Finanze, Pier
Carlo Padoan si destreggia bene nel labirinto dei trilemmi. Al Presidente
del Consiglio che si è laureato in diritto amministrativo mentre faceva
politica attiva, c’è un’ampia scelta offerta dalle università telematiche.
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