CLT - Teatro, alla Scala l’affascinante ma scomodo “Sogno” di Britten
Teatro, alla Scala l’affascinante ma scomodo “Sogno” di Britten
Roma, 10 giu (Velino) - È arrivato alla Scala di Milano un allestimento da considerarsi storico: il “Sogno di una notte di mezza estate” così come venne messo in scena nel lontano 1991 da Robert Carsen al Festival di Aix en Provence. Da allora era stato visto in vari teatri e ogni volta Carsen lo aveva ritoccato. In Italia anni fa approdò al Ravenna Festival (il palcoscenico del Teatro Alighieri non è molto differente da quello di Aix) e al Ferrara Musica. Si sarebbe dovuto vedere, circa dieci anni fa, a Roma, al Teatro Argentina ma ragioni di costo imposero di sostituirlo con una produzione “low cost” ma efficace al Nazionale. Circa nove anni fa arrivò, inoltre, dalla lontana Australia al San Carlo un allestimento di gran lusso. Questa stagione, l’opera era stata programmata anche a Bologna dove è stata sostituita da “La Rondine” affidata ai corsisti della Scuola d’Opera del teatro. Con Richard Strauss e Leos Janaceck, Benjamin Britten è uno dei tre maggiori grandi autori del teatro in musica del “Novecento storico”. Poco eseguito in Italia per anni (fa eccezione Roma grazie principalmente ai programmi di musica contemporanea dell’orchestra della Rai), in questi ultimi due lustri c’è stata una ripresa dell’interesse dei teatri e, quel che più conta, del pubblico. “The turn of the screw” è stato visto a Torino, Roma e Cagliari nella seconda metà degli Anni Novanta; “Peter Grimes” a Firenze, Milano, Reggio Emilia e Ferrara; “Billy Budd” a Venezia, Torino e Genova; “A death in Venice” e “The Rape of Lucretia” a Genova e Firenze; “A mid-summer night’s dream” a Roma, Napoli e nel circuito toscano di Città Lirica; “Albert Herring” nel circuito emiliano e a Cosenza; gli apologhi sacri sono stati messi in scena a Spoleto; il “Saint Nicholas” a Bari e Montepulciano; “The little sweep” a Palermo, oltre che a Rovigo e Modena. Per il trentennale della morte, nel 2006, Parma ha organizzato un mini-festival. L’elenco non è esaustivo ma indicativo del successo del teatro in musica di Britten e si sono avute varie esecuzioni del “War requiem”, di sinfonica e di cameristica in varie città. Il pubblico non è mai mancato e gli “esauriti” sono la prova più concreta dell’apprezzamento. D’altro canto, basti pensare che la sua ultima opera, “A death in Venice”, aveva avuto nel solo 1973 ben 15 differenti allestimenti tra cui Aldeburgh, dove Britten risiedeva, Venezia, Edimburgo, Bruxelles e Londra e l’anno seguente era approdata con enorme successo al Metropolitan di New York.
Lo stile musicale eclettico di Britten non rifiuta mai la scrittura tonale ed è accattivante anche per chi non ha dimestichezza con le convenzioni della musica del Novecento. Pur continuando nella grande tradizione britannica iniziata con Purcell, fa propria nel teatro in musica la tecnica di Berg di adottare la forma di un tema su cui costruire ciascuna scena inserendo molteplici variazioni, intercalando le varie scene con intermezzi indipendenti che servano da elementi di unificazione musicale e drammatica. Altro aspetto fondante è la capacità di ottenere il massimo colore e calore orchestrale con il minimo di organico: unicamente 13 elementi ad esempio in “The turn of the screw” e una versione a organico ridotto per “Billy Budd” pur concepito, inizialmente, come un grand opéra. Grande attenzione, poi, alle voci. Pur nel rispetto delle convenzioni, Britten riscopre il controtenore e lo accompagna, proprio in “A mid-summer” in duetti estatici con un soprano di coloratura. Oppure, in “Billy Budd” utilizza 17 voci maschili (5 tenori, 8 baritoni, un baritono basso e 3 bassi) e nessuna voce femminile, affidando la vocalità chiara a un quartetto di adolescenti e dieci fanciulli che non cantano ma chiacchierano sullo sfondo. In “The turn of the screw”, invece, le voci sono quasi esclusivamente femminili (tre soprani e due voci bianche) con cui contrasta un baritenore. Naturalmente il metodo di organizzazione cambia quando si tratta di musica concepita per essere eseguita in chiesa (Britten era cattolico praticante) in cui il pubblico viene considerato non in veste di spettatore ma di compartecipe all’azione liturgica; quindi, alcune parti erano pensate perché eseguite dall’intera congregazione.
“A mid-summer” è uno dei lavori più affascinanti di Britten. Viene utilizzato (opportunamente ridotto da lui stesso e dal suo compagno di vita, il tenore Peter Pears), il testo di Shakespeare, eliminando scene e ruoli secondari e quindi parti del “play” la cui versione musicale avrebbe avuto una durata spropositata. Viene così accentuata la differenza tra la città, Atene, dove regnano regole formalmente eque ma sostanzialmente ingiuste, e la foresta dove regna la natura, trovano rifugio i giovani amanti, dove la regina delle Fate Titania riconquista il re delle fate Oberon e i villici diventano poeti. L’opera è stata concepita in un periodo in cui Britten intendeva salvare il teatro in musica britannico, riducendone i costi e, quindi, gli organici, impiegando voci giovani e costituendo compagnie che potessero viaggiare da città a città. La Jubilee Hall di Aldeburgh, la cittadina dove Britten e Pears risiedevano, venne appositamente ampliata per l’occasione: conteneva, però, 316 spettatori (non i 1.800 circa della Scala), un piccolo golfo mistico per un organico quasi cameristico e i 18 solisti erano in gran misura giovani. Ebbe un successo enorme, nonostante fosse un lavoro “scomodo” : ironizzava sia sulla “buona società” britannica dell’epoca sia sulla storia della musica del Regno Unito, con richiami e citazioni vagamente messe alla berlina.
Anche la regia di Carsen, che punta sul mistero e sulla sensualità della foresta e accentua i registri vocali “non terreni” (Oberon è un controtenore, Titania, un soprano di coloratura) , è concepita per un palcoscenico di dimensioni relativamente piccole. La prima sfida, quindi, è consistita nel mettere in scena alla Scala uno spettacolo nato per la Jubilee Hall di Aldenburgh e per il Théatre dell’Archeveché di Aix quale era nel 1991. Carsen e lo scenografo James Levine dilatano la scena: nel primo atto e nel primo quadro del secondo siamo su un “green”, come solo in Gran Bretagna si può immaginare, dominato da letti (prima due enormi, quindi sei a due piazze e infine tre che discendono dal cielo). Carsen mette enfasi sull’eros, da quello giovane a quello maturo come elemento centrale dello spettacolo. Nell’ultimo quadro, letti e “green” spariscono nella torre scenica a vista per dare il posto a un’Atene algida dove, ormai ricomposte le tre coppie, si passa all’ironico “teatro nel teatro” dei villici. Complessivamente, il “blow up” (l’ingrandimento) funziona bene e per oltre tre ore il pubblico si diverte. Curatissimi “physique du role” e recitazione. Anzi i solisti devono anche ballare oltre che recitare e cantare. Nella parte musicale, eccellono il direttore Sir Andrew Davies e gli orchestrali della Scala. Il golfo mistico è rimpicciolito: vi trovano posto un cembalo, due arpe e piccole pattuglie di archi, fiati, ottoni e percussioni. Una vera e propria orchestrazione cameristica a cui i professori della Scala rispondono con entusiasmo. Di livello buono ma non eccelso le voci. La compagnia di canto, lo si avverte dal primo momento, è affiatata e in gran misura britannica. Spiccano Rosemary Joshua (Titania), Emil Wolk (il folletto Puck) e le due coppie di giovani amanti (Gordon Gietz, David Adam Moore, Danne Meek e Erin Wall). David Daniels (Oberon) è un controtenore con un volume piuttosto piccolo rispetto alle dimensioni de La Scala: fa rimpiangere James Bowman e Brian Esawa, ascoltati nello stesso ruolo all’Opera di Roma ed al San Carla diversi anni fa.
(Hans Sachs) 10 giu 2009 12:45
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