L’ottimismo – l’ abbiamo ricordato circa un mese fa dopo la riunione a Washington dei ministri economici e finanziari del G7 – è una caratteristica dei comunicati del G7 – un po’ come il “basso continuo” nel teatro in musica del XVII secolo. Quindi, è fuori luogo adombrarsi, e peggio ancora irritarsi, come ha fatto molta stampa (specialmente il settimanale The Economist) nel commentare il documento ufficiale diffuso al termine della riunione dei ministri Economici e Finanziari dei paesi del G7 tenutasi, come di consueto, a Washington in margine alla sessione primaverile degli “organi di governo” di Banca mondiale e di Fondo monetario. Mentre i capi di Stato e di Governo che compongono il G8 e il G20 possono, e spesso, devono utilizzare tonalità cupe, come il re maggiore, allo scopo di indurre gli agenti economici (individui, famiglie, imprese e le stesse amministrazioni pubbliche di cui i loro governi sono a capo) a rimodulare i propri comportamenti (e renderli “virtuosi”), i G7 finanziari hanno come primo compito quello di “rincuorare le truppe”, tenendogli occhi puntati sui mercati finanziari – specialmente alla luce del crollo dell’azionario e del prosciugamento del “private equity” verificatisi nei 16 mesi dal primo gennaio 2008. Soprattutto se la riunione avviene all’indomani della pubblicazione di un rapporto del Fondo monetario in cui, per l’anno in corso, si stima una contrazione del Pil mondiale dell’1,3%, del pil Usa del 2,8% e del pil dell’Ue del 4,2% e si annuncia una ripresa timida solo a partire, in pratica, dal secondo semestre 2010. E se nonostante queste previsioni, lo stesso presidente Obama dichiara che «gli stimoli monetari e di bilancio hanno creato un nuovo senso di speranza tre le popolazioni» degli Usa e del resto del mondo.
Le cifre del Fondo oggi fanno accapponare la pelle, ove non venire i brividi a chi non ricorda – scrive Fiorella Kostoris in un saggio uscito in questi giorni – che dopo il 1929 il pil americano «risultò decurtato del 30% e il tasso di disoccupazione salì al 20%» delle forze lavoro e che produzione e occupazione in Europa riportarono un simile tracollo. Adesso, inoltre, a differenza di allora c’è un’area dell’economia mondiale che sta resistendo alla crisi: l’Asia che, guidata dalla Cina, esporrà, secondo le stime del Fondo, una crescita del 4,8% pur nell’anno orribile, 2009, e potrebbe aiutare a trainare il convoglio mondiale l’anno prossimo. Oltre alla buona tenuta dell’Asia, ci sono altre indicazioni positive (non colte a pieno né nel comunicato del G7 né nelle voci che ne hanno criticato l’ottimismo). La prima è la vera e propria svolta dell’Amministrazione Obama in favore della liberalizzazione degli scambi commerciali e di una conclusione soddisfacente per tutti della Doha development agenda (Dda), il negoziato multilaterale in corso in seno all’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) dall’ormai lontano novembre 2001; è una svolta, per molti aspetti, inattesa perché Obama si è candidato alla Casa Bianca con un programma di politica commerciale apertamente protezionista che annunciava anche la fine del Nafta, la zona di libero scambio nordamericana. La seconda riguarda lo “stress test” effettuato dal Tesoro Usa sulle grandi banche degli Stati Uniti; delle 19, solamente una non ha ricevuto aiuti dal Governo federale: anche se per molte banche è evidente l’esigenza di ricapitalizzazione, il quadro complessivo è migliore di quanto si pensasse prima del “test”. Quindi, con questi elementi, c’è spazio per un moderato ottimismo, anche se ciò non deve indurre i governi e il settore finanziario a troppo facili compiacimenti – a pensare di avere superato, in un tempo relativamente breve e a un costo abbastanza contenuto, il punto di svolta inferiore e a potere presto tornare a una gestione di affari correnti.
Da un lato, ci sono ancora rischi di contraccolpi, di bruschi arresti nel processo di riassetto e anche di marce indietro. Da un altro è all’”ordinaria amministrazione” che non si tornerà se con tale locuzione si intende un’impostazione delle politiche economiche e finanziarie analoga a quella della lunga fase che ha preceduto la crisi. Il G7 finanziario dovrebbe aiutare il G8 politico a traghettare verso l’ordine internazionale del “dopo crisi”. Lo sottolinea, tra l’altro, il World Bank Policy Research Paper n. 4087 in cui, sin dal titolo, si mette in rilievo come, con la crisi, “le vacche sacre” delle finanza e delle politiche macro-economiche sono “morte” e occorre crearne di nuove.
Ciò è particolarmente importante poiché quello, presieduto dall’Italia e ora in programma a L’Aquila sarà molto probabilmente l”ultimo G8 delle serie iniziata circa 35 anni fa nel castello di Rambouillet. A L’Aquila capi di Stato e di Governo presenti non saranno otto ma poco più di una dozzina; quelli che non appartengono al G8 ufficiale (o “storico”, che dir si voglia) non si accontenteranno, in futuro, di essere invitati per il caffè (e non per il pranzo di gala). In quanto “ultimo G8”, resterà negli annali della storia economica e, soprattutto, dovrà indicare agli altri “G” la rotta per il futuro, non soltanto per come uscire dalla crisi ma per quello che dovrà essere il mondo del dopo-crisi. Un po’ come avvenne con le conferenze di Bretton Woods (per la finanza) e di La Havana (per il commercio) mentre volgeva al termine la seconda guerra mondiale. Ciò rende tremendamente importanti il ruolo e le responsabilità dell’Italia, “ultimo presidente” dell’”ultimo G8”.L’attenzione si è, sino ad ora, concentrata sulle “nuove regole” per la finanza mondiale. Data la delicatezza della materia, è necessario che prevalga il riserbo della diplomazia economica internazionale. A fine aprile all’Adlon Hotel di Berlino politici e tecnici dei maggiori paesi industriali a economia di mercato sono giunti a un’intesa su quanto predisposto dall’Italia. È pure importante sapere che, per mutuare il titolo di un breve ma efficace studio predisposto, dal Ceps di Bruxelles e dall’Assonime italiana, le “nuove regole” saranno ispirate a semplicità e trasparenza. L’”ultimo G8”, però, mancherebbe al compito di aprire il solco per il dopo-crisi se non affrontasse l’altro problema chiave: dal dopoguerra alla metà degli Anni 80. il mondo (e in particolare i paesi Ocse) hanno conosciuto una crescita senza precedenti (rispetto ai secoli passati) accompagnata da una riduzione delle disparità, mentre negli ultimi vent’anni (sino alla crisi in corso) la crescita è stata a macchia di leopardo e ovunque contrappuntata da un aumento delle differenze di reddito e di benessere, una miccia che può essere il detonatore di nuove crisi, non solamente economiche. Il mercato è stato la locomotiva della crescita sino a quando i conducenti erano consapevoli di tenere la barra di una rotta che ne correggesse le imperfezioni e coniugasse crescita con equità. Tornerà ad esserlo se i conducenti del futuro riacquisteranno tale consapevolezza e terranno la barra dritta.Ciò ha implicazioni specialmente per l’Europa. Mentre gli Usa e, in minor misura, la Gran Bretagna sono l’epicentro del sisma finanziario ed economico mondiale in corso, con sussulti di vari gradi d’intensità, dalla metà del 2007 l’Europa continentale è l’area dove la crisi morde di più. Eloquenti le previsioni dei venti maggiori istituti di analisi econometrica internazionale diramate a fine maggio: nell’anno in corso, il pil dell’area dell’euro avrà una contrazione del 4% rispetto a quella del 2,7 stimata per il Nord America; nel 2010, nell’area dell’euro si segnerà un incremento del pil appena dello 0,3% (e a partire dall’autunno), mentre nel Nord America la ripresa sarà dell’1,5% (e inizierà in primavera). A fine 2010, Europa continentale e Nord America avranno tassi di disoccupazione quasi identici (tendenti al 10% delle forze lavoro).Cosa spiega questa divergenza? In primo luogo – come affermano Pier Carlo Padoan e Paolo Guerrieri in un libro fresco di stampa – la strategia di crescita dell’Europa continentale è da decenni fondata sull’export di manufatti come motore di sviluppo; quindi il Vecchio Continente è (con il Giappone) l’area che reagisce di più a un crollo a picco dell’esportazioni mondiali (-9% stimato per quest’anno). A riguardo, la recente vicenda Fiat-Opel mostra che lascia molto a desiderare la cooperazione intra-europea in un settore in crisi che la metalmeccanica (l’Ue ha il 10% della popolazione ma produce il 30% di auto, in gran misura per l’esportazione senza tener conto che paesi un tempo “emergenti” sono diventati produttori ed esportatori di livello).In secondo luogo, negli ultimi dieci anni, le disparità tra redditi di lavoro e redditi da capitale sono aumentate (nonostante “il modello sociale europeo”) nel Vecchio Continente che in Nord America: dati Ocse mostrano che in Europa continentale, in termini reali i redditi medi da lavoro sono rimasti stazionari (e quelli delle fasce più basse diminuiti) mentre quelli da capitale sono cresciuti del 25% circa. Da un lato, quindi, l’export da traino è diventato freno. Dall’altro, redditi da lavoro stazionari (o in decremento) incidono negativamente sulla domanda interna, specialmente di beni di consumo durevole di massa (si differiscono gli acquisti di elettrodomestici, di abbigliamento, di auto in attesa di tempi migliori e si tenta, almeno, di avere risorse, sino a fine mese, per il fitto – o il mutuo – il pranzo e la cena). La crisi deve essere un’occasione per ripensare il modello di crescita dell’Europa continentale. Non abbandonare il manifatturiero tramite una politica di de-industrializzazione e finanziarizzazione come fatto dalla Gran Bretagna negli Anni 90 – la premessa che oggi la ha posta al centro della crisi. Ma ri-orientare la struttura industriale verso fabbisogni e consumi interni: meno accento sull’export e maggiore enfasi sull’utilizzazione di nuove tecnologie per il capitale umano e sociale (telemedicina, teleformazione), su prodotti per i servizi alla persona e alla famiglia (essenziali in un’area afflitta da invecchiamento e bassa natalità), su energie alternative ed eco-compatibili. Tale ri-orientamento dal lato dell’offerta avrebbe, però, risultati modesti senza un aumento della domanda interna. Quindi, di un maggiore equilibrio tra i redditi da lavoro e quelli da capitale con attenzione specialmente alle fasce più deboli.
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