Lirica, il “Götterdämmerung” della caduta del Muro di Berlino
Roma, 26 giu (Velino) - Questa estate terminano tre “Ring” di rilievo prodotti negli ultimi anni rispettivamente il primo dal Maggio Musicale Fiorentino e dal Palau de la Reina Sofia di Valencia, il secondo dal Teatro La Fenice di Venezia e dal Teatro dell’Opera di Colonia e il terzo dai Festival di Aix-en-Provence e di Salisburgo. Sono tre letture molto differenti della saga wagneriana (circa 15 ore di musica, suddivise in un atto unico e tre opere – ciascuna in tre atti, con 35 solisti in scena- un enorme organico orchestrale e l’intervento del coro unicamente nel secondo atto della terza opera). Produrre il “Ring” è un’intrapresa terrificante: pare che la messa in scena della saga abbia portato negli anni ‘90 al dissesto il Teatro “Massimo Bellini” di Catania e negli anni ‘80 il “Regio” di Torino. Ciononostante, la complessa opera di Richard Wagner trova nuovi teatri pronti a produrla e a metterla in scena. Si sono cimentati di recente, per la prima volta con il “Ring” il “São Carlos” di Lisbona e il Mariinsky di San Pietroburgo. Il Metropolitan di New York ha appena rappresentato due cicli della saga annunciando il pensionamento di un allestimento approntato negli anni ‘70 e rinverdito negli anni 90 (è cambiata la regia, non le straordinarie scene di Gunther Scheider-Siemssen). La Scala ha annunciato un nuovo “Ring” a partire dall’anno prossimo – con l’intero ciclo in scena nel 2013, secondo centenario della nascita di Wagner.
Il “Ring” in scena in questi giorni alla “Fenice” di Venezia – con “Götterdämmerung” si chiude il ciclo delle tre opere ma in Laguna di questa produzione non è mai stato rappresentato il prologo che pare sarà inserito nel cartellone della prossima stagione -, si differenzia marcatamente da quello fiorentino-spagnolo. Quest’ultimo, ancora in scena a Valencia, affidato per regia e allestimento scenico al gruppo catalano La Fura dels Bau, è all’insegna dello stupore, mentre la bacchetta di Zubin Mehta è marcatamente lirica. A Venezia e Colonia, il regista canadese Robert Carsen (le scene e i costumi sono di Patrick Kinmonth) opta per un’interpretazione storico-politica, analoga per molti aspetti a quelle che si sono viste in Germania, Gran Bretagna, negli Usa e anche in Italia negli anni ‘70 e ‘80 (negli anni ‘90 si è privilegiato il ritorno a letture astratte sul tipo di quelle di Wieland Wagner, con le scene di Adolphe Appia fatte quasi esclusivamente di luci, tipiche dei decenni precedenti). L’Italia può rivendicare la primogenitura di tali interpretazioni storico-politiche. La Scala iniziò, nel 1974, un “Ring” ambientato nell’epoca della prima industrializzazione (scene e costumi Pierluigi Pizzi, regia Luca Ronconi) ma vennero realizzati unicamente il prologo e la prima opera (“Die Walkirie”); il progetto venne interrotto per dissapori con Wolfgang Sawallisch, maestro concertatore e direttore d’orchestra. Venne ripreso, poi, nel 1979-82 a Firenze con la bacchetta allora altamente drammatica di Zubin Mehta.
Purtroppo di queste bellissime edizioni – il “Ring”, tra l’altro, era quasi interamente rappresentato in interni - sono state distrutte le scene ed esistono unicamente le foto. Vi è, invece, un bel cofanetto dvd del “Ring” del centenario della prima esecuzione integrale a Bayreuth: nel 1976 Patrice Chéreau e Pierre Boulez sorpresero il mondo con una lettura simile a quella di Pizzi-Ronconi-Mehta, ma, da un lato, con accenni favolistici e, dall’altro, con tempi più serrati. Prima del dvd, questa produzione Chéreau-Boulez ha fatto il giro del mondo grazie a una fortunata trasposizione televisiva ospitata pure in sale cinematografiche. Da “Ring” ambientati in epoca wagneriana d’industrializzazione, a quelli in epoca guglielmina e nazista il passo è breve. Specialmente i “Ring” in cui o i nibelunghi o i ghibicunghi erano nazisti, mentre Sigfrido e Brunilde eroi socialisti tesi verso il futuro, hanno pullulato soprattutto in Germania orientale, Polonia e Ungheria ma anche in edizioni nel mondo occidentale.
Alla “Fenice”, Carsen e Kinmonth ritornano a questo filone. Ma “Götterdämmerung”, ancora più delle opere precedenti, mostra che i tempi sono cambiati. Nella Reggia dei Ghibicunghi , sventolano vessilli rosso fuoco su cui è appare il logo della casa regnante. L’atmosfera è putrida, macera e corrotta, come in una memorabile regia di Wieland Wagner al Teatro dell’Opera di Roma nella primavera 1980. Il crepuscolo degli Dei (i quali, nell’opera, non compaiono che nell’appello di una valchiria scorata nel secondo quadro del primo atto) è anche la fine del regime dei ghibicunghi, molto simili, se si vuole, alla corte di una dittatura totalitario-comunista. Nell’ultima scena, dopo sei ore circa di spettacolo (due intervalli compresi) ci sarebbe aspettati, dopo l’olocausto di Brunilde, l’incendio del Palazzo reale, il crollo (nel fondo scena) di quello degli Dei, lo straripamento del Reno che “lava” e purifica la terra, anche l’abbattimento del muro di Berlino. Però l’idea geniale e originale di Carsen, è quella di avere in scena Brunilde solo durante tutto l’olocausto (con le voci fuori scena delle figlie del Reno e di Hagen). Ci sono altri aspetti che confermano questa lettura tedesco-orientale: i costumi anni ‘50 nella festa nuziale nel secondo atto, le vesti povere delle norme, di Sigfrido e di Valchiria, la soffitta piena di mobili anni ‘30 e ‘40 in cui operano le norme, il fiume trasformato in discarica. Come in altre regie di Carsen, c’è anche una buona dose di sesso.
Alla testa dell'orchestra e del coro, Jeffrey Tate accarezza la partitura allentando i tempi (soprattutto del primo atto) e mostrandone i ricami: un concertazione all’italiana o all’austriaca piuttosto che alla tedesca. L’orchestra della “Fenice” si cimenta bene con la complessa partitura, ma non è a livello di quella del Maggio Musicale Fiorentino (versione Firenze-Valencia) o dei Berliner Philarmoniker (Aix-Salisburgo). Tra le voci, la meno convincente è quella di Stefan Vinke, un heldentenor diseguale, con un timbro non particolarmente gradevole: ha cantato molo bene il lungo racconto del terzo atto (forse conservava i propri mezzi in vista di quel momento), ma nel primo e nel secondo è stato diseguale (buono nei legati e nei declamati ma con difficoltà negli acuti specialmente nei Do e nei Fa). Gabrierl Souvanen (Gunther), Gidon Saks (Hagen) e Werner Van Mechelen (Alberico) sono baritoni e bassi-baritoni di qualità, da tenere d’occhio i primi due, giovani e alla prima apparizione su scene italiane.
L’applausometro ha meritatamente decretato il trionfo di Jayne Caselman, una Brunilde scultorea nella voce e nell’azione scenica, che, nello stesso ruolo, aveva già avuto un grande successo al “San Carlo” circa un lustro fa. Da allora è ulteriormente maturata e ha affinato l’interpretazione del ruolo. Ottima sia nella recitazione sia nella vocalità; abilissima nell’ascendere alle tonalità acute, nel tenerle e nel discendere da esse. Di alto livello anche Nicola Beller Carbone (Gutrune) e Natasha Petrinsky (Waltraute). Buono il resto della compagnia.In breve questo “Götterdämmerung” vale un viaggio in Laguna.
(Hans Sachs) 26 giu 2009 12:52
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