Roma, 19 giu (Velino) - È arrivato a Roma, al Teatro dell’Opera, circondato da un’atmosfera di scandalo, “Le Gran Macabre” di György Ligéti. Addirittura, nei manifesti, viene “consigliato per un pubblico adulto”. Giunge nel quadro di una tournée mondiale iniziata a Bruxelles e che avrà come tappe successive Sidney, Londra, Barcellona e forse gli Stati Uniti. È, senza dubbio, uno dei maggiori impegni produttivi internazionali per il teatro in musica di questi ultimi anni. “Le Gran Macabre” è anche una delle opere contemporanee più rappresentate al mondo nelle due versioni: la prima, con molte parti parlate, che ha avuto la prima a Stoccolma nel 1978; la seconda, piuttosto rimaneggiata, che ha debuttato a Salisburgo nel 1997. In Italia è già stata vista a Bologna nel quadro della normale stagione lirica del 1979-80 e ai Festival di Ferrara e di Ravenna. Si tratta di un apologo morale, tratto da “La Ballade du Grand Macabre” del belga Michel de Ghelderode.
A Brueghelandia (paese immaginario modellato sulla pittura dei Brueghel), un asteroide sta per sterminare il genere umano, il quale, saputo di dover morire, si dà a sesso sfrenato un po’ come in “Mahagonny” di Bertold Brecht e Kurt Weill. Anche la Morte, che avrebbe il compito di mettere in atto l’esecuzione, viene irretita dal gioco. Quindi, non uccide nessuno e, brunettianamente parlando, diventa una fannullona. E l’umanità continua. Il lavoro è diviso in due parti: nella prima, l’accento è sui cittadini di Brueghelandia: da giovani coppie innamorate in voglia di sesso, a partner maturi (l’astrologo e la sua consorte) in giochi sado-maso, a ubriaconi fino alla Morte disorientata da tutto quell’ambiente; nella seconda parte, siamo nel Palazzo del Potere, tra governanti imbelli e consiglieri sicofanti. Sino allo scioglimento in una “ciaccona” finale.
Il testo è fortemente ironico. E tale è la partitura. In un saggio incluso nel ricco programma di sala, Luigi Bellingardi ricorda che Ligéti aveva due modelli in mente: “L’Incoronazione di Poppea” di Monteverdi (satira della scalata al potere tramite il sesso) e “Falsfaff” di Verdi con la fuga “Tutto il mondo è una burla” trasformata nella “ciaccona” finale. Ci sono altre citazioni, da Donizetti, Hoffembach, Mozart e Stravinskij in una scrittura orchestrale (per un organico mahleriano) e vocale (il declamato scivola in ariosi e accattivanti duetti) raffinatissima. Tanto il testo del libretto quanto gli aspetti musicali sono colmi d’ironia. Sotto il profilo drammaturgico, gli allestimenti precedenti di “Le Gran Macabre” hanno avuto enormi difficoltà nel caratterizzare Brueghelandia.
Per la Fura dels Baus, che cura questa produzione, un enorme corpo nudo di donna caduto a terra domina il palcoscenico: ha il viso di una maschera tragica greca, le fattezze delle sculture iperrealiste, è alta sette metri, lunga quindici, larga altrettanto e ruota a 360 gradi. Ma si deteriora, perde pezzi, mostra i visceri, ospita ed espelle dagli orifizi i personaggi in scena. È lei, Claudia, preda di un male oscuro, l’elemento choc della produzione e il centro della corrotta Brueghelandia dove l’angelo della morte Nekrotzar annuncia l’imminente fine del mondo ai suoi edonistici abitanti: l’astrologo di corte Astradamors, l’assatanata Mescalina, il servo Piet, il goloso principe bambino Go-Go, il capo della polizia politica segreta Gepopo. Ne deriva una trama volta a volta grottesca, delirante, orgiastica, farsesca. Il cataclisma che sembra minacciare gli umani si rispecchia nella decomposizione di Claudia e si alimenta della sua angoscia.
Questa chiave interpretativa è, da un lato, elemento visionario di stupore, ma indebolisce l’ironia che domina invece il testo e la partitura. Il difetto, a mio avviso, è soprattutto nella prima parte mentre nella seconda Ligéti e la sua ironia prendono il sopravvento su la Fura dels Baus, gruppo catalano che in molti spettacoli (si pensi al recente “Ring” fiorentino) ha brillato per inventiva ma in nessuno per ironia. Alcuni dicono che la melanconia mediterranea (tipica de la Fura) può ed è spesso graffiante, ma mai ironica. Ideazione e regia sono di Alex Ollé e Valentina Carrasco, le scene di Alfonso Florens, costumi di Lluc Castels, disegno e luci di Peter van Praet, e i 3D di Franc Aleu. Alcuni momenti sono di dubbio gusto. Di altissimo livello la parte musicale. L’orchestra del Teatro dell’Opera, concertata da Zoltán Peskó (che già curò la prima esecuzione italiana nel 1979) fa vere meraviglie nel cogliere le notazioni timbriche e l’ironia delle citazioni ed è lievissima tanto quanto la Fura è spesso eccessivamente pesante.
Complimenti anche al coro guidato da Andrea Giorgi. Voci di primissimo piano: Chris Merritt (Piet) ha ormai transitato da tenore rossiniano di coloratura ad un repertorio novecentesco, Annie Vavrille (Amando) e Ilse Eerens (Amanda) rievocano echi monteverdiani e mozartiani, Sir Willard White è un Nekrotzar di statura, Nicholas Isherwood un Astradamors di classe, Ning Liang una Mescalina sensuale, Caroline Stein nel doppio ruolo di Venere e Gepopo conferma la sua versatilità, Brian Asawa (Go-Go) il maggior controtenore su campo. Bravi tutti gli altri. Probabilmente è stato un errore programmare Le Gran Macabre” a metà giugno, quando i romani preferiscono spettacoli all’aperto e vanno al mare. Sarebbe stata, invece, un’opera appropriata per inaugurare la stagione: è breve, ha un solo intervallo e suscita controversie e dibattiti.
(Hans Sachs) 19 giugno 2009 12:42
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