In The Merchant of Venice di Shakespeare, Porzia, travestita da avvocato, salva il suo amato con un’arringa imperniata su “the quality of mercy”. Occorre rifletterci e pensare a un’analisi analoga, all’approssimarsi del G8. Il debito sarà uno dei temi centrali del vertice de L’Aquila. All’argomento del debito, viene dedicato l’editoriale di The Economist del 13 giugno. Un po’ contraddittorio Il Sole-24 Ore del 12 giugno: a pagina 15 l’editorialista Carlo Bastasin destina una pagina intera al percorso coordinato auspicabile perché i paesi dell’unione monetaria europea escano dall’indebitamento eccessivo senza troppi traumi. La seconda pagina del giornale è, invece, quasi completamente occupata da un intervento di Carlo De Benedetti (il quale di solito utilizza il “suo” giornale-partito, La Repubblica) per invitare Governi e Banche centrali a fare uso dell’inflazione per liberarsi dal debito. Senza riflettere sul fatto che essa è la tassa più iniqua: colpisce duramente i poveri ma scalfisce solamente i ricchi.
L’indebitamento di gran parte dei paesi Ocse è in gran misura il risultato della crisi economica e finanziaria internazionale e delle misure (nazionalizzazioni di banche e di imprese, apertura dei rubinetti del credito) prese per evitare che essa degenerasse in una nuova Grande depressione, con conseguenze economiche, politiche e sociali da far paura. La stessa Banca centrale europea (non certo una filiale della San Vincenzo o della Caritas) ha suonato l’allarme, nel suo ultimo bollettino, contro l’aggravarsi della disoccupazione. In breve, dal 2007 c’è stata, quasi ovunque, una crescita esponenziale, e a ritmi che non hanno precedenti, dell’indebitamento totale (quindi, sia pubblico sia privato) in rapporto alla produzione. Ci sono casi estremi: nell’arco di solamente due anni, a ragione , in gran parte, della dilatazione della spesa pubblica per i “salvataggi bancari”, lo stock di debito dello Stato, degli enti locali e del settore pubblico allargato in senso lato della Gran Bretagna è passato dal 40% all’80% del Pil e minaccia di crescere ulteriormente; alcuni paesi neo-comunitari (ad esempio, l’Ungheria) si sono indebitati tanto da essere alle soglie dell’insolvenza.
All’Italia – attenzione – l’Himalaya del debito è stato in parte risparmiato per ragioni già illustrate su Ffwebmagazine: l’esistenza di un già elevato stock di debito pubblico in rapporto al Pil , finanziato quasi interamente a motivo dell’alto tasso di risparmio di individui e famiglie (ancora uno dei più elevati al mondo se misurato in proporzione al reddito disponibile); un settore industriale diffuso non “rimpiazzato” principalmente da servizi finanziari; meccanismi di regolamentazione e vigilanza bancaria che, nonostante le loro imperfezioni e i loro limiti, hanno tenuto meglio che altrove.
La tendenza generale, ma “the quality of debt”, al pari della “the quality of mercy” varia da situazione a situazione. Negli Stati Uniti, a motivo del tasso di risparmio negativo delle famiglie e della forte leva finanziaria con cui hanno operato le imprese (nonché della politica di spesa pubblica per emergenze di ogni sorta e per stimolare la domanda aggregata), a fine 2008 il rapporto debito totale/Pil era quasi al 3:1, il doppio di quelle contabilizzato nel 1929 (quando scoppiò la Grande Depressione). Gli altri paesi Ocse non stanno molto meglio: in Irlanda, Spagna, Australia e Nuova Zelanda, l’espansione del credito totale interno dal 1977 al 2007 a tassi annui superiori al 10% (molto più alti, dunque, di quelli del Pil nominale) ha creato montagne di debito totale in proporzione alla produzione che si pongono come un macigno sulla via della ripresa di medio e lungo termine. I dati citati sono rigorosamente quelli di fonti ufficiali che, come è noto, o non tengono conto di forme “innovative” di indebitamento (quali quelle tramite Siv, Special investment vehicles) o di gestioni fuori bilancio, oppure le sottostimano. Verosimilmente, se si tiene di conto delle Siv (non praticate in Italia, dove gran parte delle loro fattispecie è vietata) la situazione è molto peggiore. E anche “the quality of debt” a ragione del ricorso all’indebitamento a breve termine e all’estero.
Un breve saggio di Hyman Minsky, economista americano morto nel 1996 ed i cui lavori sono stati in gran misura dimenticati, pubblicato una ventina di anni orsono, sulla scia della crisi delle Borse dell’autunno 1987, proponeva la “ipotesi dell’instabilità finanziaria”. Secondo lo schema di Minsky, i periodi di stabilità e di crescita reale hanno i germi dell’instabilità poiché abbassano l’avversione al rischio e rendono individui, famiglie, imprese, pubbliche amministrazioni e governi più spericolati e, dunque, maggiormente propensi a indebitarsi per intraprese a rendimento molto contenuto o anche negativo. Minsky vedeva cicli relativamente brevi in cui a una fase d’instabilità ne seguiva una di tremori e timori che inducevano (per qualche tempo) comportamenti virtuosi. Per poi ricominciare. Il periodo detto di “grande moderazione” che ha caratterizzato gli ultimi vent’anni (con interruzioni ben localizzate su piano regionale, come la crisi asiatica), esce dallo schema di Minsky in quanto ha portato all’annullamento quasi dell’avversione al rischio: si è diffusa l’opinione che le nuove tecniche di finanza strutturata avrebbero parcellizzato il rischio sino a farlo sparire, causando un indebitamento sempre più marcato, sino a livelli superiori a quelli dei mesi precedenti la Grande Depressione.
Estrapolando dallo schema di Minsky si può dire che non ci sono che due strade. Se si sceglie un percorso di bassa inflazione, c’è la probabilità di fallimenti a catena e il pericolo di scivolare nella Depressone. Se si prende il percorso dell’inflazione sostenuta, si abbatte il debito in modo iniquo: l’inflazione e il rientro dal debito pesano soprattutto sulle fasce a più basso reddito e sulle generazioni giovani (nonché su quelle future). Dato che nel 2009 i maggiori paesi industrializzati hanno un indebitamente netto delle pubbliche amministrazioni (ossia disavanzo d’esercizio di bilanci) pari a circa il 9% del Pil e che la liquidità Usa sta raddoppiando ogni sei mesi, pare che sia stato implicitamente scelto il percorso dell’inflazione sostenuta. Con le implicazioni di etica pubblica che ciò comporta.
Ci sono alternative che meritano di essere esplorate: l’Italia degli Anni Ottanta ne è stata in un certo modo un laboratorio in quanto riuscì a centrare l’obiettivo di frenare l’inflazione (a due cifre all’inizio del decennio, ma attorno al 5% l’anno alla fine) senza rallentare la crescita. Anzi aumentandola. Vale la pena esplorarle con interventi a più voci e se del caso con qualche seminario per contribuire alla prossima legge finanziaria.
15 giugno 2009
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