“It pays to advertise” dice un proverbio americano tradotto, più o meno, in italiano con il detto “la pubblicità è l’anima del commercio”. Negli ultimi 15-20, in parallelo con la bolla dell’investimento immobiliare, è esplosa un’altra bolla – quella della pubblicità- di cui si stanno accorgendo, amaramente, non solamente gli editori di giornali e periodici (l’editoria è in grave crisi in tutti i Paesi industriali ad economia di mercato a causa del vero e proprio tracollo delle inserzioni) ma anche tutto il vasto mondo collegato negli Usa a Madison Avenue e a Milano a Via della Spiga e dintorni.
Un grafico mostra come stia andando a picco una delle ultime (e forse più insidiose forme di pubblicità): l’invio a domicilio di offerte promozionali collegate a carte di credito. I dati sono di fonte americana ; l’elaborazione è stata fatta a maggio 2009. E’interessante confrontarlo con altri due grafici: quello relativo all’andamento delle spese delle famiglie per consumi privati e quello relativo alle vendite al dettaglio. Il tracollo della pubblicità è molto più forte di quello delle spese delle famiglie per consumi privati ed anche del forte calo delle vendite al dettaglio. Riflette, infatti, la fine di un’illusione: quella secondo cui (vi ricordate “La Società Opulenta” di John Kenneth Galbraith nella seconda metà degli Anni Cinquanta) secondo cui “i persuasori occulti” potesse plasmare la scelte di individui, famiglie ed imprese, creando nuovi “bisogni” e forgiando la domanda in funzione delle esigenze dei produttori.
La proliferazione delle forme di pubblicità (dagli innocenti cartelloni e dai “Caroselli” di un tempo alla vera e propria tempesta in televisione, sul cellelura, sui siti web, al proprio telefono di casa nei momenti in cui si è concentrati su altro) ha fatto sì che, da un lato, i modi sempre più aggressivi siano diventati sempre più fastidiosi e, dall’altro, che l’advertising ha perso di credibilità. Secondo un’indagine recente, nei Paesi Ocse oggi l’80% dei consumatori “non hanno fiducia” nella pubblicità e si rivolgono alle inserzioni unicamente quando cercano qualcosa di molo specifico. Se non vengono lette, guardate od ascoltate- anzi alla minaccia della pubblicità si volta pagina, si cambia canale, ci si sintonizza altrove-, allora perché dedicare risorse al settore ed alla variegata schiera di “comunicatori” da esso alimentati? Il risveglio per alcuni è stato brusco; per chi scrive il quadro era già chiaro all’inizio del decennio quando, richiesto di condurre uno studio delle transizione da televisione analogica a digitale terrestre, una semplice occhiata alla curva di spesa pubblicitaria (un andamento molto più forte di quelli del pil e dei consumi) indicava che la bolla era lì, lì per esplodere e che , quindi, per il finanziamente di una televisione a 400 canali si sarebbe dovuto pensare ad altre fonti di entrata.
E’ un tema per sociologi più che per economisti. La teoria economia dell’informazione, però, è chiara: la credibilità del bene informazione si conquista e si mantiene con fatica – i ragazzi “brillanti” di Madison Avenue e simili non lo hanno capito. Come non hanno metabolizzato la vecchia legge di Grisham secondo cui la moneta cattiva caccia quella buona.
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