Due lavori usciti in queste ultime settimane – il “Settimo rapporto sulla liberalizzazione della società Italiana” di Società Libera e l’”Indice delle liberalizzazioni 2009” dell’Istituto Bruno Leoni, IBL – devono essere letti progettando quello che dovrà essere il mondo (in particolare l’Italia) dopo la crisi finanziaria ed economica internazionale che ci ha investito dal 2007. Negli ultimi 18 mesi, infatti, la mano pubblica è tornata alla grande nel capitale di banche e finanziarie e pure di alcune grandi imprese. In Italia, ciò è avvenuto meno che altrove per ragioni specifiche al nostro Paese – quali l’alto grado di vigilanza sulle attività bancarie e finanziarie e l’esistenza di un settore manifatturiero vasto ma diffuso in “distretti” o in “imprese-rete”. Tuttavia, anche da noi, il processo di denalizionalizzazione, privatizzazione e liberalizzazione ha subito un brutto colpo di arresto. Dei due documenti, quello di Società Libera si sofferma sugli “spiragli” per riprendere il cammino ancora esistenti al 31 dicembre 2008 (si tratta di un annuario) mentre quello dell’IBL è una meticolosa radiografia. Ambedue pongono l’accento sul comparto dove meno si è fatto in termini di privatizzazioni e liberalizzazioni: i servizi pubblici, specialmente quelli locali. Il lavoro dell’IBL fornisce, in particolare una utilissima messe di dati (per comparto) oltre che proposte specifiche.
Quale è il messaggio complessivo che si trae e quali le indicazioni per la XVI legislatura? Dall’inizio della legislatura è appena trascorso poco più di un anno, con la conferma, alle elezioni europee, dell’azione del Governo in carica, nonostante la crisi economica e finanziaria e le sue implicazioni in termini produttivi ed occupazionali. E’, quindi, stata superata la fase di “tooling up” (affinamento degli strumenti); ora occorre entrare in quella più concreta di programmi pluriennali.
La prima lezione che si trae è la necessità di liberalizzare (bene) prima di privatizzare (male)- in breve uno slogan analogo al “Trade not Aid” (“Commercio non Aiuti”) lanciato dai Paesi in via di sviluppo negli anni 60. Esempi quali la privatizzazione di Telecom e di Alitalia (in mancanza di una quadro che necessitasse una forte spinta competitiva) sono eloquenti.
La seconda lezione è che occorre prendere il toro per lo corna ed affrontare il comparto dove si è rilevato più difficile sia liberalizzare sia privatizzare: il “capitalismo municipale”- oltre duecento aziende (a volte con intrecci multinazionali con monopoli ed oligopoli stranieri, grandi e piccoli ) con quasi 230.000 occupati e responsabili per l’1% del pil (ma del 6% in alcune Regioni). E’ il campo in cui i nessi più o meno nobili con la politica (a livello locale) sono, al tempo stesso, più opachi e più stretti: tali che sino ad ora sono stati in grado di bloccare, sul nascere, e liberalizzazioni e privatizzazioni.
Se il Cav vuole restare negli Annali di storia economica italiana ed europea deve mettercela tutta per disboscare il “capitalismo municipale” inserendovi i germi della concorrenza ed arrivando presto a liberalizzazione sostanziali in grado di consentire nazionalizzazioni efficienti ed efficaci.
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