Questa estate in Italia sono in scena 35 festival di lirica, rispetto ai 21 della Germania federale, ai 15 dell’ Austria, ai 16 degli Stati Uniti, ai 13 della Gran Bretagna agli e 11 della Francia. Questi dati vengono dal ai maggiori siti internazionali (www.operabase.com, www.operatoday.com) , il quadro non cambia: non vengono inclusi alcuni “festival” italiani (pur se così denominati) poiché frutto dell’attività di una compagnia di giro a basso costo (e di produzione e di biglietti), ma crescono quelli Usa. Se si guardano i dati americani con attenzione, molti festival nascondono saggi di fine corso (con più repliche) organizzati da Music Schools di Università per dare agli allievi il brivido del palcoscenico. Due “festival” del genere (non inclusi nei 35 citati in precedenza) sono in corso a Roma (vengono allestiti ciascuna estate) proprio con il medesimo obiettivo – dei due, uno è organizzato da un’intraprendente yankee docente in una scuola secondaria; all’ombra del Cupolone ha trovato l’America.
Nonostante musicisti e giornalisti si rotolino per terra, si strappino i capelli e protestino contro i “tagli” , consumiamo teatro in musica e melodramma più di altri. I festival” di Cianciano, Civita Castellana, Zavorrano, Massa Marittima, Ostia Antica, Pistoia, San Giminiano, San Vito al Tagliamento, Tarquinia, Veroli sono la tournee di un “Carro di Tespi” organizzato da un abile impresario con artisti dell’Europa orientale e dell’Asia centrale e titoli di sicuro richiamo, “Nabucco” e “Trovatore”; la qualità sarà simile a quella dei saggi delle Music Schools americane ma la cultura dell’opera lirica si diffonde o resta in vita. Ciò avviene nonostante le ristrettezze finanziarie; prima di tutto, del pubblico pagante e, successivamente, di un’amministrazione pubblica in cui negli ultimi dieci esercizi finanziari “il resto effettivo di cassa” (quanto non speso alla fine dell’anno) ha spesso superato quanto erogato.
Non mancano festival di qualità che attirano pubblico sia locale sia nazionale sia dal resto del mondo. Sono, soprattutto, quelli monografici (su un autore) o a tema (su un argomento). Tra i primi spiccano quelli imperniati su Puccini (Torre del Lago) e Rossini (Pesaro). Il Festival pucciniano ha condotto un’analisi economica dettagliata degli impatti (su valore aggiunto ed occupazione nell’area) delle attività connesse al 2008; il saldo economico è nettamente positivo. A Pesaro, il 70% del pubblico è straniero; al 20 giugno il 90% dei biglietti per la manifestazione (9-20 agosto) era già venduto, nonostante prezzi allineati su quelli tedeschi. Conti in attivo (e molti stranieri) pure nella piccola Jesi dove da circa un decennio si celebrano i due “genius loci”, Pergolesi e Spontini. Tra i Festival a tema spiccano Macerata (il tema del 2009 è “l’inganno”) e Ravenna (da sempre incentrato sulla spiritualità e l’incontro tra culture ed etnie). Il secondo è multidisciplinare (come quello di Spoleto)- la lirica è parte di un a serie di eventi in cui prosa, danza, cinema e mostre mobilizzano la città e l’area circostante.
Dalla esperienze di successo emergono alcune lezioni per chi sta operando al rilancio di quello che è stato il capostipite dei festival estivi italiani: quello dei “Due Mondi” di Spoleto, una manifestazione multidisciplinare a cui, di fatto, da dieci anni almeno Ravenna ha tolto lo scettro. In primo luogo, razionalizzazione d’amministrazione e direzione musicale: mentre Macerata, Ravenna, e Jesi (ed anche Perugia ed altre realtà) hanno integrato i festival con le attività dei locali teatri di tradizione (contenendo costi ed uniformando indirizzo artistico), a Spoleto convivono due strutture (il “Due Mondi” ed il “Lirico Sperimentale”, il cui management- unico caso al mondo- è a tempo indeterminato, tendenzialmente a vita), con evidenti duplicazioni e differenze di strategia. In secondo luogo, il finanziamento pubblico è essenziale ma se supera certi livelli trasforma il capitale umano da produttivo a improduttivo: a Ravenna e Torre del Lago (ed in Festival stranieri di prestigio come Aix en Provence e Glyndebuorne) vige la regola secondo cui un terzo del budget è finanziato dal contributo pubblico (di ogni ordine e grado) e due terzi da sponsor e biglietteria- un principio sano ed analogo a quello delle finanze “fogliane”. In terzo luogo, la capacità di attivare grandi co-produzioni internazionali (questa estate Ravenna lavora con Salisburgo e Parigi) e di vendere i propri allestimento ad altri teatri (il 20% circa degli introiti di Aix e Glyndebourne).
martedì 30 giugno 2009
Ravenna Festival, bilancio lusinghiero per il 2009 Il Velino 30 giugno
CLT -
Ravenna Festival, bilancio lusinghiero per il 2009
Roma, 30 giu (Velino) - Sbarca il 3 luglio all’elegante Teatro “Dante Alighieri” di Ravenna l’ultima scoperta di Riccardo Muti: la quarta versione del “Demofoonte” di Niccolò Jommelli composta nel 1770 su libretto di Pietro Metastasio. E’, per alcuni aspetti, un ritorno poiché le prove dell’opera sono state condotte nell’elegante Teatro “Rossini” di Lugo di Romagna. Ha poi preso il volo al Festival di Pentecoste di Salisburgo e ha avuto a metà giugno una serie di repliche all’Opéra di Parigi. Dopo le rappresentazioni al Ravenna Festival (sino al 7 luglio) ci sarà, probabilmente, una tournee autunnale e invernale nell’Italia centrale. “Demofoonte” è un’“opera seria”: sgarbi fatti agli Dei, mostri inviati per punire i colpevoli (veri o presunti), amori tormentati e intrighi sino al lieto fine di prammatica. Jommelli, uno dei maestri della “scuola napoletana”, ebbe una grande influenza sui musicisti più giovani di lui, in particolare su Mozart. Di particolare interesse, nella partitura, i recitativi “accompagnati” che accentuano l’azione e anticipano le “tragedie liriche” d’inizio Ottocento. A Salisburgo, l’opera ha avuto un’accoglienza calorosa, nonostante le circa quattro ore di spettacolo. Muti ha diretto con una bacchetta agile e spigliata. La regia di Cesare Lievi e le scene di Margherita Palli sono efficaci nello spostare l’azione da una mitica Grecia alla fine del Settecento. Il successo è soprattutto merito dei giovani della Orchestra Cherubini (selezionati con molta cura) e dei sette solisti , anche loro tra le nuove generazioni del teatro in musica. Alle prese con arie molto ardue – l’“opera seria” della scuola napoletana era l’esaltazione del virtuosismo vocale – tutti reggono bene la prova. Spiccano, in particolare, Dimitri Korchak e Maria Grazia Schiavo.
“Demofoonte” ci porta a riflettere sul Ravenna Festival, manifestazione in cui pochi credevano quando è nata grazie alla determinazione di Cristina Mazzavillani Muti e che ora ha circa venti anni. Ha superato tutte le attese e in pratica ha fatto sparire dalla mappa dei festival pluridisciplinari italiani (in cui si declinano musica, prosa, danza e altre arti dal vivo) quel Festival dei “Due Mondi” di Spoleto che ne era stato il precursore. L’edizione 2009, cominciata il 14 giugno e che andrà avanti sino al 18 luglio, è giunta praticamente a metà percorso. Offre di tutto e di più: dall’opera lirica, in coproduzione con Salisburgo e Parigi, al balletto, alla concertistica sia sinfonica sia cameristica, a novità assolute di avanguardia, fino a un gemellaggio importante con la città di Sarajevo. Nonostante la crisi internazionale e le previsioni iniziali di circa 60 mila spettatori (nel 1999 furono 10 mila), se ne stimano adesso quasi 75 mila. Due terzi del budget (6 milioni di euro) provengono da sponsor e biglietteria; 500 carnet gratuiti vengono dati a giovani con meno di 25 anni per incoraggiare la cultura musicale; in crescita l’affluenza di stranieri (circa l’8 per cento del pubblico).
Tra i concerti fino adesso eseguiti, da menzionare in particolare quelli diretti da Pierre Boulez e Christoph von Dohnanyi, nonché una vera rarità: la “Missa Defunctorum” di Paisiello, concertata da Muti, che verrà replicata in vari auditorium italiani. Molto vasto il menu per le prossime settimane: per chi ama la danza appuntamenti da non perdere sono la Soirée Maja Plisetskaja (4 luglio) con i migliori danzatori russi del momento, Le Baccanti di Micha von Hoecke (10 luglio) e il Sutra con i monaci buddisti del Tempio Shaolin (17 luglio); per chi preferisce il teatro, “Rumi” un lavoro concepito, disegnato e diretto da Robert Wilson (15-17 luglio); per la grande sinfonica il punto forte è il concerto di Muti alla guida dei complessi del Maggio Musicale Fiorentino (Brahms e Beethoven) che il 12 luglio verrà eseguito al Palazzo De André e il 13 al Centro Zetra di Sarajevo. Tutti i dettagli e il calendario completo della manifestazione si possono consultare alla pagina www.ravennafestival.org.
Ravenna Festival, bilancio lusinghiero per il 2009
Roma, 30 giu (Velino) - Sbarca il 3 luglio all’elegante Teatro “Dante Alighieri” di Ravenna l’ultima scoperta di Riccardo Muti: la quarta versione del “Demofoonte” di Niccolò Jommelli composta nel 1770 su libretto di Pietro Metastasio. E’, per alcuni aspetti, un ritorno poiché le prove dell’opera sono state condotte nell’elegante Teatro “Rossini” di Lugo di Romagna. Ha poi preso il volo al Festival di Pentecoste di Salisburgo e ha avuto a metà giugno una serie di repliche all’Opéra di Parigi. Dopo le rappresentazioni al Ravenna Festival (sino al 7 luglio) ci sarà, probabilmente, una tournee autunnale e invernale nell’Italia centrale. “Demofoonte” è un’“opera seria”: sgarbi fatti agli Dei, mostri inviati per punire i colpevoli (veri o presunti), amori tormentati e intrighi sino al lieto fine di prammatica. Jommelli, uno dei maestri della “scuola napoletana”, ebbe una grande influenza sui musicisti più giovani di lui, in particolare su Mozart. Di particolare interesse, nella partitura, i recitativi “accompagnati” che accentuano l’azione e anticipano le “tragedie liriche” d’inizio Ottocento. A Salisburgo, l’opera ha avuto un’accoglienza calorosa, nonostante le circa quattro ore di spettacolo. Muti ha diretto con una bacchetta agile e spigliata. La regia di Cesare Lievi e le scene di Margherita Palli sono efficaci nello spostare l’azione da una mitica Grecia alla fine del Settecento. Il successo è soprattutto merito dei giovani della Orchestra Cherubini (selezionati con molta cura) e dei sette solisti , anche loro tra le nuove generazioni del teatro in musica. Alle prese con arie molto ardue – l’“opera seria” della scuola napoletana era l’esaltazione del virtuosismo vocale – tutti reggono bene la prova. Spiccano, in particolare, Dimitri Korchak e Maria Grazia Schiavo.
“Demofoonte” ci porta a riflettere sul Ravenna Festival, manifestazione in cui pochi credevano quando è nata grazie alla determinazione di Cristina Mazzavillani Muti e che ora ha circa venti anni. Ha superato tutte le attese e in pratica ha fatto sparire dalla mappa dei festival pluridisciplinari italiani (in cui si declinano musica, prosa, danza e altre arti dal vivo) quel Festival dei “Due Mondi” di Spoleto che ne era stato il precursore. L’edizione 2009, cominciata il 14 giugno e che andrà avanti sino al 18 luglio, è giunta praticamente a metà percorso. Offre di tutto e di più: dall’opera lirica, in coproduzione con Salisburgo e Parigi, al balletto, alla concertistica sia sinfonica sia cameristica, a novità assolute di avanguardia, fino a un gemellaggio importante con la città di Sarajevo. Nonostante la crisi internazionale e le previsioni iniziali di circa 60 mila spettatori (nel 1999 furono 10 mila), se ne stimano adesso quasi 75 mila. Due terzi del budget (6 milioni di euro) provengono da sponsor e biglietteria; 500 carnet gratuiti vengono dati a giovani con meno di 25 anni per incoraggiare la cultura musicale; in crescita l’affluenza di stranieri (circa l’8 per cento del pubblico).
Tra i concerti fino adesso eseguiti, da menzionare in particolare quelli diretti da Pierre Boulez e Christoph von Dohnanyi, nonché una vera rarità: la “Missa Defunctorum” di Paisiello, concertata da Muti, che verrà replicata in vari auditorium italiani. Molto vasto il menu per le prossime settimane: per chi ama la danza appuntamenti da non perdere sono la Soirée Maja Plisetskaja (4 luglio) con i migliori danzatori russi del momento, Le Baccanti di Micha von Hoecke (10 luglio) e il Sutra con i monaci buddisti del Tempio Shaolin (17 luglio); per chi preferisce il teatro, “Rumi” un lavoro concepito, disegnato e diretto da Robert Wilson (15-17 luglio); per la grande sinfonica il punto forte è il concerto di Muti alla guida dei complessi del Maggio Musicale Fiorentino (Brahms e Beethoven) che il 12 luglio verrà eseguito al Palazzo De André e il 13 al Centro Zetra di Sarajevo. Tutti i dettagli e il calendario completo della manifestazione si possono consultare alla pagina www.ravennafestival.org.
lunedì 29 giugno 2009
LA GRANDE ILLUSIONE La Voce del Ribelle giugno
“It pays to advertise” dice un proverbio americano tradotto, più o meno, in italiano con il detto “la pubblicità è l’anima del commercio”. Negli ultimi 15-20, in parallelo con la bolla dell’investimento immobiliare, è esplosa un’altra bolla – quella della pubblicità- di cui si stanno accorgendo, amaramente, non solamente gli editori di giornali e periodici (l’editoria è in grave crisi in tutti i Paesi industriali ad economia di mercato a causa del vero e proprio tracollo delle inserzioni) ma anche tutto il vasto mondo collegato negli Usa a Madison Avenue e a Milano a Via della Spiga e dintorni.
Un grafico mostra come stia andando a picco una delle ultime (e forse più insidiose forme di pubblicità): l’invio a domicilio di offerte promozionali collegate a carte di credito. I dati sono di fonte americana ; l’elaborazione è stata fatta a maggio 2009. E’interessante confrontarlo con altri due grafici: quello relativo all’andamento delle spese delle famiglie per consumi privati e quello relativo alle vendite al dettaglio. Il tracollo della pubblicità è molto più forte di quello delle spese delle famiglie per consumi privati ed anche del forte calo delle vendite al dettaglio. Riflette, infatti, la fine di un’illusione: quella secondo cui (vi ricordate “La Società Opulenta” di John Kenneth Galbraith nella seconda metà degli Anni Cinquanta) secondo cui “i persuasori occulti” potesse plasmare la scelte di individui, famiglie ed imprese, creando nuovi “bisogni” e forgiando la domanda in funzione delle esigenze dei produttori.
La proliferazione delle forme di pubblicità (dagli innocenti cartelloni e dai “Caroselli” di un tempo alla vera e propria tempesta in televisione, sul cellelura, sui siti web, al proprio telefono di casa nei momenti in cui si è concentrati su altro) ha fatto sì che, da un lato, i modi sempre più aggressivi siano diventati sempre più fastidiosi e, dall’altro, che l’advertising ha perso di credibilità. Secondo un’indagine recente, nei Paesi Ocse oggi l’80% dei consumatori “non hanno fiducia” nella pubblicità e si rivolgono alle inserzioni unicamente quando cercano qualcosa di molo specifico. Se non vengono lette, guardate od ascoltate- anzi alla minaccia della pubblicità si volta pagina, si cambia canale, ci si sintonizza altrove-, allora perché dedicare risorse al settore ed alla variegata schiera di “comunicatori” da esso alimentati? Il risveglio per alcuni è stato brusco; per chi scrive il quadro era già chiaro all’inizio del decennio quando, richiesto di condurre uno studio delle transizione da televisione analogica a digitale terrestre, una semplice occhiata alla curva di spesa pubblicitaria (un andamento molto più forte di quelli del pil e dei consumi) indicava che la bolla era lì, lì per esplodere e che , quindi, per il finanziamente di una televisione a 400 canali si sarebbe dovuto pensare ad altre fonti di entrata.
E’ un tema per sociologi più che per economisti. La teoria economia dell’informazione, però, è chiara: la credibilità del bene informazione si conquista e si mantiene con fatica – i ragazzi “brillanti” di Madison Avenue e simili non lo hanno capito. Come non hanno metabolizzato la vecchia legge di Grisham secondo cui la moneta cattiva caccia quella buona.
Un grafico mostra come stia andando a picco una delle ultime (e forse più insidiose forme di pubblicità): l’invio a domicilio di offerte promozionali collegate a carte di credito. I dati sono di fonte americana ; l’elaborazione è stata fatta a maggio 2009. E’interessante confrontarlo con altri due grafici: quello relativo all’andamento delle spese delle famiglie per consumi privati e quello relativo alle vendite al dettaglio. Il tracollo della pubblicità è molto più forte di quello delle spese delle famiglie per consumi privati ed anche del forte calo delle vendite al dettaglio. Riflette, infatti, la fine di un’illusione: quella secondo cui (vi ricordate “La Società Opulenta” di John Kenneth Galbraith nella seconda metà degli Anni Cinquanta) secondo cui “i persuasori occulti” potesse plasmare la scelte di individui, famiglie ed imprese, creando nuovi “bisogni” e forgiando la domanda in funzione delle esigenze dei produttori.
La proliferazione delle forme di pubblicità (dagli innocenti cartelloni e dai “Caroselli” di un tempo alla vera e propria tempesta in televisione, sul cellelura, sui siti web, al proprio telefono di casa nei momenti in cui si è concentrati su altro) ha fatto sì che, da un lato, i modi sempre più aggressivi siano diventati sempre più fastidiosi e, dall’altro, che l’advertising ha perso di credibilità. Secondo un’indagine recente, nei Paesi Ocse oggi l’80% dei consumatori “non hanno fiducia” nella pubblicità e si rivolgono alle inserzioni unicamente quando cercano qualcosa di molo specifico. Se non vengono lette, guardate od ascoltate- anzi alla minaccia della pubblicità si volta pagina, si cambia canale, ci si sintonizza altrove-, allora perché dedicare risorse al settore ed alla variegata schiera di “comunicatori” da esso alimentati? Il risveglio per alcuni è stato brusco; per chi scrive il quadro era già chiaro all’inizio del decennio quando, richiesto di condurre uno studio delle transizione da televisione analogica a digitale terrestre, una semplice occhiata alla curva di spesa pubblicitaria (un andamento molto più forte di quelli del pil e dei consumi) indicava che la bolla era lì, lì per esplodere e che , quindi, per il finanziamente di una televisione a 400 canali si sarebbe dovuto pensare ad altre fonti di entrata.
E’ un tema per sociologi più che per economisti. La teoria economia dell’informazione, però, è chiara: la credibilità del bene informazione si conquista e si mantiene con fatica – i ragazzi “brillanti” di Madison Avenue e simili non lo hanno capito. Come non hanno metabolizzato la vecchia legge di Grisham secondo cui la moneta cattiva caccia quella buona.
PER LE MISURE DI RILANCIO ECONOMICO UN COLPO D’ALA IN TRE MOSSE Il Tempo 29 giugno
Le misure approvate dal Governo il 26 giugno sono un contributo positivo alla “exit strategy” dalla recessione dell’economia reale (l’Italia è stata appena sfiorata dalla crisi che ha travolto i mercati finanziari di metà del mondo). Non rappresentano, però, il colpo d’ala necessario per infondere fiducia a famiglie ed imprese, ridurre i costi di transazione e l’avversione al rischio e rimettersi su un sentiero di crescita (2,5% l’anno) ipotizzabile per un’economia matura con una demografia a rapido invecchiamento. Prime stime econometriche suggeriscono che nel loro insieme, potranno dare, nei prossimi 12 mesi, un aumento del tasso di crescita da un terzo alla metà di un punto percentuale e contribuire a far passare da negativo a positivo l’andamento del pil. In effetti, da un decreto di metà anno a ridosso di consultazioni elettorali, è difficile aspettarsi di più.
Il colpo d’ala è, però, fattibile in parallelo con la legge finanziaria. Si può farlo con tre mosse simultanee e parallele, tenendo presente che, al pari degli altri Paesi dell’area dell’euro, le autorità italiane non possono che influire su una delle tre leve tradizionali della politica economica – quella della moneta- ed hanno limiti severi in merito alla seconda – quella del bilancio.
La prima mossa riguarda proprio il bilancio pubblico. E’ una misura tecnica che, pare, il Ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef) avrebbe voluto inserire nel decreto di mezza estate, ma depennata su insistenza degli enti di spesa: concentrare in una tesoreria unica le risorse del conto economico consolidato della amministrazioni pubbliche (incluse SpA di cui lo Stato è azionista totalitaria). Non solo ciò porrebbe fine alla piaga dei resti di cassa non spesi, dei tesoretti più o meno occultati in contabilità speciali e altri aspetti di contabilità creativa, ma consentirebbe di concentrare le risorse su due obiettivi: crescita e solidarietà sociale. Di converso, Mef e Governo tutto si dovrebbero impegnare a fare sì che la finanziaria sia davvero “triennale” e che le amministrazioni possano avere certezze in una prospettiva triennale. Tale incertezza è spesso all’origine della contabilità creativa.
La secondo e la terza mossa dovrebbero riguardare quella politica dei prezzi e dei redditi (un tempo chiamata “concertazione”) entrata in disuso ma quanto mai necessaria per la “exit strategy” e per la crescita sostenibile. Ciò vuol dire definire (auspicabilmente con le parti sociali) un programma di liberalizzazioni che avvantaggi tutti (soprattutto i consumatori, ossia le famiglie) e di accelerazione di riforme (previdenza, energia) già definite ma per le quali sono stati previsti periodi di transizione eccessivamente lunghi. Non solamente ci sarebbe un forte impatto psicologico – l’indicazione che l’Italia, concorde, vuole rimettersi a correre più degli altri –ma le sole liberalizzazioni darebbero un colpo d’acceleratore al pil (valutato attorno a un punto e mezzo l’anno nei prossimi tre anni.
Il colpo d’ala è, però, fattibile in parallelo con la legge finanziaria. Si può farlo con tre mosse simultanee e parallele, tenendo presente che, al pari degli altri Paesi dell’area dell’euro, le autorità italiane non possono che influire su una delle tre leve tradizionali della politica economica – quella della moneta- ed hanno limiti severi in merito alla seconda – quella del bilancio.
La prima mossa riguarda proprio il bilancio pubblico. E’ una misura tecnica che, pare, il Ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef) avrebbe voluto inserire nel decreto di mezza estate, ma depennata su insistenza degli enti di spesa: concentrare in una tesoreria unica le risorse del conto economico consolidato della amministrazioni pubbliche (incluse SpA di cui lo Stato è azionista totalitaria). Non solo ciò porrebbe fine alla piaga dei resti di cassa non spesi, dei tesoretti più o meno occultati in contabilità speciali e altri aspetti di contabilità creativa, ma consentirebbe di concentrare le risorse su due obiettivi: crescita e solidarietà sociale. Di converso, Mef e Governo tutto si dovrebbero impegnare a fare sì che la finanziaria sia davvero “triennale” e che le amministrazioni possano avere certezze in una prospettiva triennale. Tale incertezza è spesso all’origine della contabilità creativa.
La secondo e la terza mossa dovrebbero riguardare quella politica dei prezzi e dei redditi (un tempo chiamata “concertazione”) entrata in disuso ma quanto mai necessaria per la “exit strategy” e per la crescita sostenibile. Ciò vuol dire definire (auspicabilmente con le parti sociali) un programma di liberalizzazioni che avvantaggi tutti (soprattutto i consumatori, ossia le famiglie) e di accelerazione di riforme (previdenza, energia) già definite ma per le quali sono stati previsti periodi di transizione eccessivamente lunghi. Non solamente ci sarebbe un forte impatto psicologico – l’indicazione che l’Italia, concorde, vuole rimettersi a correre più degli altri –ma le sole liberalizzazioni darebbero un colpo d’acceleratore al pil (valutato attorno a un punto e mezzo l’anno nei prossimi tre anni.
sabato 27 giugno 2009
RAVENNA VAL PIU’ DEI “DUE MONDI”
Il Ravenna Festival, iniziativa che deve molto ai coniugi Rioccardo Muti e Maria Cristina Mazzavillani Muti (i quali hanno mobilitato le imprese e le banche della Romagna e non solo) compie vent’anni. Si estende su 80 appuntamenti in 35 giorni – dal 14 giugno al 18 luglio- con una programmazione che va dall’opera lirica (in coproduzione con Salisburgo e Parigi) al balletto, alla concertistica (sia sinfonica sia cameristica), a novità assolute anche di avanguardia, ed ad un gemellaggio importante (con Sarajevo). Le statistiche mostrano un successo superiori alle previsioni: 10.000 spettatori nel 1990, 60.000 anticipati (sulla base dei dati di biglietteria) per il 2009 – nonostante la crisi economica e finanziaria internazionale; un bilancio di 6 milioni di euro (per il festival in corso) di cui due terzi di sponsor privati e meno del 15% dal pubblico (il resto è la biglietteria), 500 carnet gratuiti a giovani di meno di 25 anni per incoraggiare la cultura musicale dei giovani; una forte partecipazione di stranieri.
In breve, nell’arco di quattro lustri, il Ravenna Festival ha preso il trono che un tempo spettava al “Festival dei Due Mondi” di Spoleto, creato negli Anni 60 , creato su iniziativa di Giancarlo Menotti e Samuel Barber e con obiettivi in parte analoghi: un festival polivalente (ossia con più arti sceniche dal vivo) e tale da attirare artisti internazionali. Quando nacque il Festival dei Due Mondi- occorre ricordarlo – “internazionale” voleva in gran misura dire “americano” – Spoleto si proponeva come una palestra per fare cantare, recitare, danzare, suonare giovani americani in Europa, in bei teatri europei del Settecento o dell’Ottocento e di fronte a quella che veniva ritenuta una “sophisticated European audience”. Vennero creati Spoleto Festivals anche negli Usa ed agli antipodi , ossia nella lontana Australia.
Perché uno dei due Festival, dopo una fase di relativa ibernazione, sta tentando un rilancio- intrapresa difficile in quanto il marchio di fabbrica ed il prestigio ad esso associato non solo facili da riacquistare (una volta perduti), mentre l’altro è in pieno fulgore?
Senza dubbio, ci sono determinati con una matrice di storia economica: per lustri nel mercato italiano dei Festival , quello dei Due Mondi ha operato in condizioni di monopolio (con tutti i problemi di perdita di tono muscolare che le rendite di posizione comportano).
Ci sono, però, anche determinanti puramente economiche su cui merita riflettere. La prima riguarda l’alto livello di finanziamento pubblico al Festival dei Due Mondi ed allo spoletino Teatro Lirico Sperimentale – circa il 90% dei costi. Mutuando da un’analisi di Francesco Del Monte, ciò ha innescato un circolo vizioso: il capitale umano è diventato da produttivo (sempre teso alla ricerca di nuove combinazioni di processo e di prodotto) improduttivo (teso invece all’accaparramento dei fondi pubblici: note, anzi, notorie le lotte tra Associazione e Festival a Spoleto) ed è mancata la disciplina portata dagli sponsor privati. Fenomeni analoghi si sono verificati a Festival come Aix-e-Provence e Glyndebourne finanziati quasi interamente da privati rispetto al Festival di Monaco (che, finanziato unicamente da Pantalone) sta perdendo mordente.
La secondo riguarda il carattere tematico di Ravenna rispetto a Spoleto. Quest’anno il tema è la spiritualità. In un mercato ormai plurale occorre differenziarsi al fine di avere spettatori (e sponsor) fidelizzati. Una differenziazione efficace è per autore (Rossini a Pesaro, Wagner a Bayreuth, Puccini a Torre del Lago Verdi a Parma) o per temi (proprio mentre a Ravenna terminerà il Festival dello Spirito un po’ più a sud nella costiera adriatica inizierà a Macerata il Festival dell’inganno) oppure porsi come Aix-en-Provence quale il Festival di spettacoli che dall’autunno si vedranno nel resto d’Europa e negli Usa – ossia la manifestazione delle “prime” .
In breve, nell’arco di quattro lustri, il Ravenna Festival ha preso il trono che un tempo spettava al “Festival dei Due Mondi” di Spoleto, creato negli Anni 60 , creato su iniziativa di Giancarlo Menotti e Samuel Barber e con obiettivi in parte analoghi: un festival polivalente (ossia con più arti sceniche dal vivo) e tale da attirare artisti internazionali. Quando nacque il Festival dei Due Mondi- occorre ricordarlo – “internazionale” voleva in gran misura dire “americano” – Spoleto si proponeva come una palestra per fare cantare, recitare, danzare, suonare giovani americani in Europa, in bei teatri europei del Settecento o dell’Ottocento e di fronte a quella che veniva ritenuta una “sophisticated European audience”. Vennero creati Spoleto Festivals anche negli Usa ed agli antipodi , ossia nella lontana Australia.
Perché uno dei due Festival, dopo una fase di relativa ibernazione, sta tentando un rilancio- intrapresa difficile in quanto il marchio di fabbrica ed il prestigio ad esso associato non solo facili da riacquistare (una volta perduti), mentre l’altro è in pieno fulgore?
Senza dubbio, ci sono determinati con una matrice di storia economica: per lustri nel mercato italiano dei Festival , quello dei Due Mondi ha operato in condizioni di monopolio (con tutti i problemi di perdita di tono muscolare che le rendite di posizione comportano).
Ci sono, però, anche determinanti puramente economiche su cui merita riflettere. La prima riguarda l’alto livello di finanziamento pubblico al Festival dei Due Mondi ed allo spoletino Teatro Lirico Sperimentale – circa il 90% dei costi. Mutuando da un’analisi di Francesco Del Monte, ciò ha innescato un circolo vizioso: il capitale umano è diventato da produttivo (sempre teso alla ricerca di nuove combinazioni di processo e di prodotto) improduttivo (teso invece all’accaparramento dei fondi pubblici: note, anzi, notorie le lotte tra Associazione e Festival a Spoleto) ed è mancata la disciplina portata dagli sponsor privati. Fenomeni analoghi si sono verificati a Festival come Aix-e-Provence e Glyndebourne finanziati quasi interamente da privati rispetto al Festival di Monaco (che, finanziato unicamente da Pantalone) sta perdendo mordente.
La secondo riguarda il carattere tematico di Ravenna rispetto a Spoleto. Quest’anno il tema è la spiritualità. In un mercato ormai plurale occorre differenziarsi al fine di avere spettatori (e sponsor) fidelizzati. Una differenziazione efficace è per autore (Rossini a Pesaro, Wagner a Bayreuth, Puccini a Torre del Lago Verdi a Parma) o per temi (proprio mentre a Ravenna terminerà il Festival dello Spirito un po’ più a sud nella costiera adriatica inizierà a Macerata il Festival dell’inganno) oppure porsi come Aix-en-Provence quale il Festival di spettacoli che dall’autunno si vedranno nel resto d’Europa e negli Usa – ossia la manifestazione delle “prime” .
Gőtterdämmerung in Venice and Kőln — Sex And Politics Behind the Berlin Wall Opera Today June 27
With Götterdämmerung, a co-production with the Köln Opera House created by Robert Carsen (stage direction), Patrick Kinmonth (sets and costumes) and Jeffrey Tate (conductor), La Fenice approaches completion of the Ring cycle.
Richard Wagner: Götterdämmerung
Siegfried: Stefan Vinke; Gunther: Gabriel Suovanen; Hagen: Gidon Saks; Alberich: Werner Van Mechelen; Brünnhilde: Jayne Casselman; Gutrune: Nicola Beller Carbone; Waltraute: Natascha Petrinsky; First Norn: Ceri Williams; Second Norn: Julie Mellor; Third Norn: Alexandra Wilson; Woglinde: Eva Oltiványi; Wellgunde: Stefanie Irányi; Flosshilde: Annette Jahns. Orchestra e Coro del Teatro La Fenice. Voxonus Choir. Jeffrey Tate, maestro concertatore e direttore. Robert Carsen, regia. Patrick Kinmonth, scene e costumi. Marcovalerio Marletta, maestro del Coro. Claudio Marino Moretti, maestro del Coro (Voxonus Choir).
Above: Jayne Casselman as Brünnhilde [Photos courtesy of Teatro La Fenice]
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La Fenice’s Ring, however, will not be completed until next season because of complicated programming and budgeting considerations. Consequently, the prologue, Das Rheingold, will be seen in the lagoon after the downfall of the Gods and of the Gibichungs’ Kingdom. Moreover, although the Carsen-Kinmonth-Tate team remained unchanged, many cast changes were made at La Fenice along with a revamping of the sets to fit its smaller stage.
Chronologically, the Köln-La Fenice Ring is one of the first to be staged in the 21st century. Its concepts are similar to those of the “politically oriented” Rings that prevailed from the mid-70s to the mid-80s, especially in Europe. This first of these “politically oriented” Rings was the (nearly aborted) La Scala production created by Luca Ronconi (stage direction) and the Pierluigi Pizzi (sets and costumes) in 1974. The musical director, Wolfang Sawallisch, objected to proceeding beyond Die Walküre. The entire project was revived in Florence (with Zubin Mehta in the pit) in 1979-82. The most widely known of the “politically oriented” Rings was the Bayreuth “Centenary” production in 1976 entrusted to Patrice Chéreau and Pierre Boulez. After four years in the “Holy Hill”, it became a successful television serial that was also shown in regular movie houses. Now whilst only photographs remain of the Florence production, the Chéreau-Boulez Ring is available on DVD. It is fair to say that the saga lends itself to a political allegory of industrial and political power, of lust for money and for women, of Nazism’s rise and fall, a direction taken by Luchino Visconti in his 1971 blockbuster film.
In light of this context, there is something old fashioned in the La Fenice-Köln production. Nevertheless, the Ghibichung Kingdom is not Hitler’s Reich, but rather East Germany before the fall of the Berlin Wall. Red flags are flying about the Royal Palace. The “nomenklatura” are dressed in elegant attire of the '50s, accompanied by soldiers of the National Peoples’ Army. Siegfried, Brünnhilde and the Norns, on the other hand, are shabbily dressed. The Norns live in an attic filled with broken furniture from the 1930s and the 1940s (an allusion to the defunct bourgeoisie?).
Albeit attractive, the Rhinemaidens appear poverty-striken, swimming in a polluted Rhine. As in many of Carsen’s production, politics is mixed with a fair amount of sex. At daybreak, Brünnhilde begins her passionate love duet by performing oral sex upon Siegfried. Hagen makes love to Gutrune on Gunther’s royal desk (in the presence of her brother and King). In the wife-swapping scene at the end of the first act, Siegfried (disguised as Gunther) attempts to rape Brünnhilde before remembering his pact with the King. The second-act wedding party initially appears as an orgy with rivers of wine and spirits and ladies taking off their clothes.
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In a similar vein, the Rheinmaidens grope Siegfried all about his trousers. All of this heightens the coup-de-théâtre in the final scene. Brünnhilde is alone on stage during the holocaust, the fire of the Royal Palace, the downfall of the Gods and the flood of the river (cleansing corrupted Gods and corrupted men-in-power). During the concluding passages, a huge waterfall covers the stage. In short, although the concept goes back to the 70s, there are numerous innovations in this Ring and this Götterdämmerung in particular.
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Although British, Jeffrey Tate possesses an Italian or Austrian conducting style. He caresses the orchestra with gently slowing tempi. This clashes, however, with the dramatic action-oriented stage direction. La Fenice’s orchestra fares well; but it is not that of the Maggio Musicale Fiorentino (which performed Götterdämmerung a few weeks ago) or of the Berliner Philarmoniker (which will perform Götterdämmerung in Aix en Provence in early July). Jayne Casselman was simply excellent, both vocally and dramatically, as a vibrant Brünnhilde to be remembered for some time. Her Siegfried, Stefan Vinke, performed well in the taxing third act; but in the previous two acts he displayed vocal problems (especially with the Cs) and a host of technical difficulties. He paled against Lance Taylor who performed the role in the recent Florence production. A sexy Nicola Beller Carbone was a vocally imposing Gutrune. And, the youthful Gabriel Suovane and Gidon Saks were two well-rounded bass baritones, whom, I trust, we will hear often in the future.
Giuseppe Pennisi
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Richard Wagner: Götterdämmerung
Siegfried: Stefan Vinke; Gunther: Gabriel Suovanen; Hagen: Gidon Saks; Alberich: Werner Van Mechelen; Brünnhilde: Jayne Casselman; Gutrune: Nicola Beller Carbone; Waltraute: Natascha Petrinsky; First Norn: Ceri Williams; Second Norn: Julie Mellor; Third Norn: Alexandra Wilson; Woglinde: Eva Oltiványi; Wellgunde: Stefanie Irányi; Flosshilde: Annette Jahns. Orchestra e Coro del Teatro La Fenice. Voxonus Choir. Jeffrey Tate, maestro concertatore e direttore. Robert Carsen, regia. Patrick Kinmonth, scene e costumi. Marcovalerio Marletta, maestro del Coro. Claudio Marino Moretti, maestro del Coro (Voxonus Choir).
Above: Jayne Casselman as Brünnhilde [Photos courtesy of Teatro La Fenice]
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La Fenice’s Ring, however, will not be completed until next season because of complicated programming and budgeting considerations. Consequently, the prologue, Das Rheingold, will be seen in the lagoon after the downfall of the Gods and of the Gibichungs’ Kingdom. Moreover, although the Carsen-Kinmonth-Tate team remained unchanged, many cast changes were made at La Fenice along with a revamping of the sets to fit its smaller stage.
Chronologically, the Köln-La Fenice Ring is one of the first to be staged in the 21st century. Its concepts are similar to those of the “politically oriented” Rings that prevailed from the mid-70s to the mid-80s, especially in Europe. This first of these “politically oriented” Rings was the (nearly aborted) La Scala production created by Luca Ronconi (stage direction) and the Pierluigi Pizzi (sets and costumes) in 1974. The musical director, Wolfang Sawallisch, objected to proceeding beyond Die Walküre. The entire project was revived in Florence (with Zubin Mehta in the pit) in 1979-82. The most widely known of the “politically oriented” Rings was the Bayreuth “Centenary” production in 1976 entrusted to Patrice Chéreau and Pierre Boulez. After four years in the “Holy Hill”, it became a successful television serial that was also shown in regular movie houses. Now whilst only photographs remain of the Florence production, the Chéreau-Boulez Ring is available on DVD. It is fair to say that the saga lends itself to a political allegory of industrial and political power, of lust for money and for women, of Nazism’s rise and fall, a direction taken by Luchino Visconti in his 1971 blockbuster film.
In light of this context, there is something old fashioned in the La Fenice-Köln production. Nevertheless, the Ghibichung Kingdom is not Hitler’s Reich, but rather East Germany before the fall of the Berlin Wall. Red flags are flying about the Royal Palace. The “nomenklatura” are dressed in elegant attire of the '50s, accompanied by soldiers of the National Peoples’ Army. Siegfried, Brünnhilde and the Norns, on the other hand, are shabbily dressed. The Norns live in an attic filled with broken furniture from the 1930s and the 1940s (an allusion to the defunct bourgeoisie?).
Albeit attractive, the Rhinemaidens appear poverty-striken, swimming in a polluted Rhine. As in many of Carsen’s production, politics is mixed with a fair amount of sex. At daybreak, Brünnhilde begins her passionate love duet by performing oral sex upon Siegfried. Hagen makes love to Gutrune on Gunther’s royal desk (in the presence of her brother and King). In the wife-swapping scene at the end of the first act, Siegfried (disguised as Gunther) attempts to rape Brünnhilde before remembering his pact with the King. The second-act wedding party initially appears as an orgy with rivers of wine and spirits and ladies taking off their clothes.
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In a similar vein, the Rheinmaidens grope Siegfried all about his trousers. All of this heightens the coup-de-théâtre in the final scene. Brünnhilde is alone on stage during the holocaust, the fire of the Royal Palace, the downfall of the Gods and the flood of the river (cleansing corrupted Gods and corrupted men-in-power). During the concluding passages, a huge waterfall covers the stage. In short, although the concept goes back to the 70s, there are numerous innovations in this Ring and this Götterdämmerung in particular.
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Although British, Jeffrey Tate possesses an Italian or Austrian conducting style. He caresses the orchestra with gently slowing tempi. This clashes, however, with the dramatic action-oriented stage direction. La Fenice’s orchestra fares well; but it is not that of the Maggio Musicale Fiorentino (which performed Götterdämmerung a few weeks ago) or of the Berliner Philarmoniker (which will perform Götterdämmerung in Aix en Provence in early July). Jayne Casselman was simply excellent, both vocally and dramatically, as a vibrant Brünnhilde to be remembered for some time. Her Siegfried, Stefan Vinke, performed well in the taxing third act; but in the previous two acts he displayed vocal problems (especially with the Cs) and a host of technical difficulties. He paled against Lance Taylor who performed the role in the recent Florence production. A sexy Nicola Beller Carbone was a vocally imposing Gutrune. And, the youthful Gabriel Suovane and Gidon Saks were two well-rounded bass baritones, whom, I trust, we will hear often in the future.
Giuseppe Pennisi
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A VENEZIA IL CREPUSCOLO TORNA IN VESTE POLITICA Milano Finanza 27 giugno
Dopo il Götterdämerung fantasmagorico curato da La Fura dels Baus per Firenze e Valencia e prima della versione prodotta per i Festival di Aix en Provence e Salisburgo, arriva a Venezia (sino al 7 luglio) un allestimento “politico” de La Fenice ed il Teatro dell’Opera di Colonia. Le letture “politiche” della saga wagneriana, iniziate con un’edizione Pizzi-Ronconi alla Scala, sono progressivamente passate di moda negli Anni 90 quando si sono preferite letture filosofiche. Quindi, questo allestimento (regia di Robert Carsen, le scene ed i costumi sono di Patrick Kinmonth) è, per certi aspetti, “rétro”. Mentre, anche sulla scia di un film di Luchino Visconti, i Götterdämerung “politici” di trent’anni fa ambientavano in epoca nazista la complicata azione scenica (al crepuscolo degli Dei corrisponde, sulla terra, il tracollo di un regno corrotto), le uniformi, il passo militare e lo sbandieramento di vessilli a fondo rosso, inducono a pensare agli ultimi sprazzi della Repubblica Democratica Tedesca, ossia della Germania Est. Manca solo, nel finale, dopo l’incendio del Palazzo del potere e lo straripamento del Reno, l’abbattimento del muro di Berlino. Molto curata la recitazione, come consueto nelle regie di Carsen.
La parte musicale stride leggermente con questa lettura. Jeffrey Tate accarezza la partitura mostrandone i ricami: una concertazione all’italiana o all’austriaca piuttosto che alla tedesca. Tra i protagonisti, spiccano la Brunilde di Jane Casselman e la Gutrune di Nicole Beller Carbone. Diseguale il Sigfrido di Stefan Vinke, pur dotato di ottimi mezzi vocali. Di buon livello gli altri.
La parte musicale stride leggermente con questa lettura. Jeffrey Tate accarezza la partitura mostrandone i ricami: una concertazione all’italiana o all’austriaca piuttosto che alla tedesca. Tra i protagonisti, spiccano la Brunilde di Jane Casselman e la Gutrune di Nicole Beller Carbone. Diseguale il Sigfrido di Stefan Vinke, pur dotato di ottimi mezzi vocali. Di buon livello gli altri.
MADE IN BRITTEN Il Foglio 27 giugno
Con Richard Strauss e Leos Janaceck, Benjamin Britten, è uno dei tre maggiori grandi del teatro in musica del “Novecento storico”. La messa in scena alla Scala di “A Midsummer Night’s Dream” in un allestimento concepito, nel 1991 per il Festival di Aix en Provence, dall’allora enfant prodige, Robert Carsen, ha proposto un tema raramente affrontato: quella della sensualità e della sessualità che pervade tutti i lavori di Britten, tranne gli apologhi religiosi, scritti per essere rappresentati in Chiesa. La regia di Carsen esplode di sensualità e sessualità, nei modi in cui sensualità e sessualità si potevano rappresentare circa 20 anni fa, senza la pletora, ad esempio, di maschi nudi come nel “Der Rosenkavalier” da lui allestito per il Festival di Salisburgo.
Non è stato affrontato il tema più profondo: il trattamento di Britten da parte dei “poteri costituiti” è una delle prove più concrete del fatto che nei confronti degli intellettuali ”scomodi”, le norme si interpretano ( se apprezzati a Palazzo) mentre si applicano se il Palazzo teme che possano essere eversivi.
La Gran Bretagna dell’immediato secondo dopoguerra era bigotta. Avrebbe volentieri mandato in carcere un nuovo Oscar Wilde per sodomia e corruzione di minori, se si fosse presentato il caso. E’ l’unico Paese in cui è stata vietata la messa in scena di “A View from the Bridge” di Arthur Miller (rappresentato pure della perbenista Italia centrista) perché nel secondo atto il protagonista Eddie Carbone bacia il giovane immigrato clandestino nel tentativo di far pensare alla propria nipote (su cui ha mire) che il ragazzo avrebbe tendenze allora dette “devianti”. Dato il successo mondiale del lavoro di Miller (un film di cassetta, due drammi in musica- di cui uno di Renzo Rossellini), si ricorse al sotterfugio di trasformare un teatro del West End da srl a club privato ed i biglietti in tessere di soci del sodalizio il cui unico scopo sociale era quello di mettere in scena il dramma di Miller (allora considerato potenzialmente eversivo).
In questa Londra dove, tra genuflessioni e benedizioni, si guardava dal buco della serratura, Britten rompe tutti gli schemi. Nel 1939 (all’approssimarsi dal conflitto), a 26 anni (e già famoso per un’operetta e musiche di scena), evita la leva andando oltreoceano con Peter Pears, suo compagno di vita sino alla morte. Rientrato in Patria, trionfa, non inun teatro trasformato in club, ma al Sadler’s Wells (una delle sale storiche della capitale) con “Peter Grimes”, capolavoro sulla solitudine di chi è diverso ma pur sempre incentrato su rapporti ambigui tra il protagonista ed i mozzi che ingaggia di volta in volta (e che mai ritornano dalle escursioni a mare). Ancora più esplicito “Billy Budd”, un’opera con solo uomini e ragazzi in scena - 17 voci maschili (5 tenori, 8 baritoni, un baritono basso e 3 bassi) con la vocalità chiara affidata ad un quartetto di adolescenti e dieci fanciulli che non cantano ma chiacchierano sullo sfondo. Uno dei protagonisti, Claggard (il “Male”), è un omosessuale sadico, ma anche il giovane e forse casto Billy (che è, invece il “Bene”), ha, in camerata, un duetto omoerotico con un commilitone. Il suo testamento – “A Death in Venice”- arriva nel 1973, quando Britten sapeva di essere molto malato (sarebbe deceduto nel 1976) e i “mores” britannici erano cambiati: tratto dal romanzo omonimo di Thomas Mann è un addio alla bellezza (un giovane adolescente) concepita come senso della vita. Fu un successo enorme, ripreso nel giro di un paio d’anni da 15 dei maggiori teatri europei ed americani.
A rendere il quadro ancora più complicato – ove mai ce ne fosse bisogno- oltre che imboscato e renitente alla leva (in tempo di guerra) e noto “gay” (nei repressivi Anni 50(), Britten era pure un cattolico praticante, in un Regno in cui la Regina è anche il Capo della Chiesa. Non un ateo devoto che si recava al Castello di Windsor o all’Abbazia di Canterbury per il rispetto dell’etichetta.
Dunque aveva tutte le carte per essere scomodo: pacifista (mentre si combatteva la “battaglia d’Inghilterra” per la sopravvivenza dell’Impero), “gay” nel proprio orientamento, stile di vita ed opere, cattolico osservante. Eppure , era coccolato dalla Casa Reale e dai poteri costituiti: il suo solo lavoro da dimenticare (pur se all’epoca applauditissimo) è “Gloriana”, commissionato dal Covent Garden per l’incoronazione di Elisabetta II.
Parafrasando Enrico IV di Navarra, si può dire che la tolleranza (per se medesimo) val bene una “Gloriana”.
Non è stato affrontato il tema più profondo: il trattamento di Britten da parte dei “poteri costituiti” è una delle prove più concrete del fatto che nei confronti degli intellettuali ”scomodi”, le norme si interpretano ( se apprezzati a Palazzo) mentre si applicano se il Palazzo teme che possano essere eversivi.
La Gran Bretagna dell’immediato secondo dopoguerra era bigotta. Avrebbe volentieri mandato in carcere un nuovo Oscar Wilde per sodomia e corruzione di minori, se si fosse presentato il caso. E’ l’unico Paese in cui è stata vietata la messa in scena di “A View from the Bridge” di Arthur Miller (rappresentato pure della perbenista Italia centrista) perché nel secondo atto il protagonista Eddie Carbone bacia il giovane immigrato clandestino nel tentativo di far pensare alla propria nipote (su cui ha mire) che il ragazzo avrebbe tendenze allora dette “devianti”. Dato il successo mondiale del lavoro di Miller (un film di cassetta, due drammi in musica- di cui uno di Renzo Rossellini), si ricorse al sotterfugio di trasformare un teatro del West End da srl a club privato ed i biglietti in tessere di soci del sodalizio il cui unico scopo sociale era quello di mettere in scena il dramma di Miller (allora considerato potenzialmente eversivo).
In questa Londra dove, tra genuflessioni e benedizioni, si guardava dal buco della serratura, Britten rompe tutti gli schemi. Nel 1939 (all’approssimarsi dal conflitto), a 26 anni (e già famoso per un’operetta e musiche di scena), evita la leva andando oltreoceano con Peter Pears, suo compagno di vita sino alla morte. Rientrato in Patria, trionfa, non inun teatro trasformato in club, ma al Sadler’s Wells (una delle sale storiche della capitale) con “Peter Grimes”, capolavoro sulla solitudine di chi è diverso ma pur sempre incentrato su rapporti ambigui tra il protagonista ed i mozzi che ingaggia di volta in volta (e che mai ritornano dalle escursioni a mare). Ancora più esplicito “Billy Budd”, un’opera con solo uomini e ragazzi in scena - 17 voci maschili (5 tenori, 8 baritoni, un baritono basso e 3 bassi) con la vocalità chiara affidata ad un quartetto di adolescenti e dieci fanciulli che non cantano ma chiacchierano sullo sfondo. Uno dei protagonisti, Claggard (il “Male”), è un omosessuale sadico, ma anche il giovane e forse casto Billy (che è, invece il “Bene”), ha, in camerata, un duetto omoerotico con un commilitone. Il suo testamento – “A Death in Venice”- arriva nel 1973, quando Britten sapeva di essere molto malato (sarebbe deceduto nel 1976) e i “mores” britannici erano cambiati: tratto dal romanzo omonimo di Thomas Mann è un addio alla bellezza (un giovane adolescente) concepita come senso della vita. Fu un successo enorme, ripreso nel giro di un paio d’anni da 15 dei maggiori teatri europei ed americani.
A rendere il quadro ancora più complicato – ove mai ce ne fosse bisogno- oltre che imboscato e renitente alla leva (in tempo di guerra) e noto “gay” (nei repressivi Anni 50(), Britten era pure un cattolico praticante, in un Regno in cui la Regina è anche il Capo della Chiesa. Non un ateo devoto che si recava al Castello di Windsor o all’Abbazia di Canterbury per il rispetto dell’etichetta.
Dunque aveva tutte le carte per essere scomodo: pacifista (mentre si combatteva la “battaglia d’Inghilterra” per la sopravvivenza dell’Impero), “gay” nel proprio orientamento, stile di vita ed opere, cattolico osservante. Eppure , era coccolato dalla Casa Reale e dai poteri costituiti: il suo solo lavoro da dimenticare (pur se all’epoca applauditissimo) è “Gloriana”, commissionato dal Covent Garden per l’incoronazione di Elisabetta II.
Parafrasando Enrico IV di Navarra, si può dire che la tolleranza (per se medesimo) val bene una “Gloriana”.
venerdì 26 giugno 2009
Lirica, il “Götterdämmerung” della caduta del Muro di Berlino Il Velino 26 giugno
Lirica, il “Götterdämmerung” della caduta del Muro di Berlino
Roma, 26 giu (Velino) - Questa estate terminano tre “Ring” di rilievo prodotti negli ultimi anni rispettivamente il primo dal Maggio Musicale Fiorentino e dal Palau de la Reina Sofia di Valencia, il secondo dal Teatro La Fenice di Venezia e dal Teatro dell’Opera di Colonia e il terzo dai Festival di Aix-en-Provence e di Salisburgo. Sono tre letture molto differenti della saga wagneriana (circa 15 ore di musica, suddivise in un atto unico e tre opere – ciascuna in tre atti, con 35 solisti in scena- un enorme organico orchestrale e l’intervento del coro unicamente nel secondo atto della terza opera). Produrre il “Ring” è un’intrapresa terrificante: pare che la messa in scena della saga abbia portato negli anni ‘90 al dissesto il Teatro “Massimo Bellini” di Catania e negli anni ‘80 il “Regio” di Torino. Ciononostante, la complessa opera di Richard Wagner trova nuovi teatri pronti a produrla e a metterla in scena. Si sono cimentati di recente, per la prima volta con il “Ring” il “São Carlos” di Lisbona e il Mariinsky di San Pietroburgo. Il Metropolitan di New York ha appena rappresentato due cicli della saga annunciando il pensionamento di un allestimento approntato negli anni ‘70 e rinverdito negli anni 90 (è cambiata la regia, non le straordinarie scene di Gunther Scheider-Siemssen). La Scala ha annunciato un nuovo “Ring” a partire dall’anno prossimo – con l’intero ciclo in scena nel 2013, secondo centenario della nascita di Wagner.
Il “Ring” in scena in questi giorni alla “Fenice” di Venezia – con “Götterdämmerung” si chiude il ciclo delle tre opere ma in Laguna di questa produzione non è mai stato rappresentato il prologo che pare sarà inserito nel cartellone della prossima stagione -, si differenzia marcatamente da quello fiorentino-spagnolo. Quest’ultimo, ancora in scena a Valencia, affidato per regia e allestimento scenico al gruppo catalano La Fura dels Bau, è all’insegna dello stupore, mentre la bacchetta di Zubin Mehta è marcatamente lirica. A Venezia e Colonia, il regista canadese Robert Carsen (le scene e i costumi sono di Patrick Kinmonth) opta per un’interpretazione storico-politica, analoga per molti aspetti a quelle che si sono viste in Germania, Gran Bretagna, negli Usa e anche in Italia negli anni ‘70 e ‘80 (negli anni ‘90 si è privilegiato il ritorno a letture astratte sul tipo di quelle di Wieland Wagner, con le scene di Adolphe Appia fatte quasi esclusivamente di luci, tipiche dei decenni precedenti). L’Italia può rivendicare la primogenitura di tali interpretazioni storico-politiche. La Scala iniziò, nel 1974, un “Ring” ambientato nell’epoca della prima industrializzazione (scene e costumi Pierluigi Pizzi, regia Luca Ronconi) ma vennero realizzati unicamente il prologo e la prima opera (“Die Walkirie”); il progetto venne interrotto per dissapori con Wolfgang Sawallisch, maestro concertatore e direttore d’orchestra. Venne ripreso, poi, nel 1979-82 a Firenze con la bacchetta allora altamente drammatica di Zubin Mehta.
Purtroppo di queste bellissime edizioni – il “Ring”, tra l’altro, era quasi interamente rappresentato in interni - sono state distrutte le scene ed esistono unicamente le foto. Vi è, invece, un bel cofanetto dvd del “Ring” del centenario della prima esecuzione integrale a Bayreuth: nel 1976 Patrice Chéreau e Pierre Boulez sorpresero il mondo con una lettura simile a quella di Pizzi-Ronconi-Mehta, ma, da un lato, con accenni favolistici e, dall’altro, con tempi più serrati. Prima del dvd, questa produzione Chéreau-Boulez ha fatto il giro del mondo grazie a una fortunata trasposizione televisiva ospitata pure in sale cinematografiche. Da “Ring” ambientati in epoca wagneriana d’industrializzazione, a quelli in epoca guglielmina e nazista il passo è breve. Specialmente i “Ring” in cui o i nibelunghi o i ghibicunghi erano nazisti, mentre Sigfrido e Brunilde eroi socialisti tesi verso il futuro, hanno pullulato soprattutto in Germania orientale, Polonia e Ungheria ma anche in edizioni nel mondo occidentale.
Alla “Fenice”, Carsen e Kinmonth ritornano a questo filone. Ma “Götterdämmerung”, ancora più delle opere precedenti, mostra che i tempi sono cambiati. Nella Reggia dei Ghibicunghi , sventolano vessilli rosso fuoco su cui è appare il logo della casa regnante. L’atmosfera è putrida, macera e corrotta, come in una memorabile regia di Wieland Wagner al Teatro dell’Opera di Roma nella primavera 1980. Il crepuscolo degli Dei (i quali, nell’opera, non compaiono che nell’appello di una valchiria scorata nel secondo quadro del primo atto) è anche la fine del regime dei ghibicunghi, molto simili, se si vuole, alla corte di una dittatura totalitario-comunista. Nell’ultima scena, dopo sei ore circa di spettacolo (due intervalli compresi) ci sarebbe aspettati, dopo l’olocausto di Brunilde, l’incendio del Palazzo reale, il crollo (nel fondo scena) di quello degli Dei, lo straripamento del Reno che “lava” e purifica la terra, anche l’abbattimento del muro di Berlino. Però l’idea geniale e originale di Carsen, è quella di avere in scena Brunilde solo durante tutto l’olocausto (con le voci fuori scena delle figlie del Reno e di Hagen). Ci sono altri aspetti che confermano questa lettura tedesco-orientale: i costumi anni ‘50 nella festa nuziale nel secondo atto, le vesti povere delle norme, di Sigfrido e di Valchiria, la soffitta piena di mobili anni ‘30 e ‘40 in cui operano le norme, il fiume trasformato in discarica. Come in altre regie di Carsen, c’è anche una buona dose di sesso.
Alla testa dell'orchestra e del coro, Jeffrey Tate accarezza la partitura allentando i tempi (soprattutto del primo atto) e mostrandone i ricami: un concertazione all’italiana o all’austriaca piuttosto che alla tedesca. L’orchestra della “Fenice” si cimenta bene con la complessa partitura, ma non è a livello di quella del Maggio Musicale Fiorentino (versione Firenze-Valencia) o dei Berliner Philarmoniker (Aix-Salisburgo). Tra le voci, la meno convincente è quella di Stefan Vinke, un heldentenor diseguale, con un timbro non particolarmente gradevole: ha cantato molo bene il lungo racconto del terzo atto (forse conservava i propri mezzi in vista di quel momento), ma nel primo e nel secondo è stato diseguale (buono nei legati e nei declamati ma con difficoltà negli acuti specialmente nei Do e nei Fa). Gabrierl Souvanen (Gunther), Gidon Saks (Hagen) e Werner Van Mechelen (Alberico) sono baritoni e bassi-baritoni di qualità, da tenere d’occhio i primi due, giovani e alla prima apparizione su scene italiane.
L’applausometro ha meritatamente decretato il trionfo di Jayne Caselman, una Brunilde scultorea nella voce e nell’azione scenica, che, nello stesso ruolo, aveva già avuto un grande successo al “San Carlo” circa un lustro fa. Da allora è ulteriormente maturata e ha affinato l’interpretazione del ruolo. Ottima sia nella recitazione sia nella vocalità; abilissima nell’ascendere alle tonalità acute, nel tenerle e nel discendere da esse. Di alto livello anche Nicola Beller Carbone (Gutrune) e Natasha Petrinsky (Waltraute). Buono il resto della compagnia.In breve questo “Götterdämmerung” vale un viaggio in Laguna.
(Hans Sachs) 26 giu 2009 12:52
Roma, 26 giu (Velino) - Questa estate terminano tre “Ring” di rilievo prodotti negli ultimi anni rispettivamente il primo dal Maggio Musicale Fiorentino e dal Palau de la Reina Sofia di Valencia, il secondo dal Teatro La Fenice di Venezia e dal Teatro dell’Opera di Colonia e il terzo dai Festival di Aix-en-Provence e di Salisburgo. Sono tre letture molto differenti della saga wagneriana (circa 15 ore di musica, suddivise in un atto unico e tre opere – ciascuna in tre atti, con 35 solisti in scena- un enorme organico orchestrale e l’intervento del coro unicamente nel secondo atto della terza opera). Produrre il “Ring” è un’intrapresa terrificante: pare che la messa in scena della saga abbia portato negli anni ‘90 al dissesto il Teatro “Massimo Bellini” di Catania e negli anni ‘80 il “Regio” di Torino. Ciononostante, la complessa opera di Richard Wagner trova nuovi teatri pronti a produrla e a metterla in scena. Si sono cimentati di recente, per la prima volta con il “Ring” il “São Carlos” di Lisbona e il Mariinsky di San Pietroburgo. Il Metropolitan di New York ha appena rappresentato due cicli della saga annunciando il pensionamento di un allestimento approntato negli anni ‘70 e rinverdito negli anni 90 (è cambiata la regia, non le straordinarie scene di Gunther Scheider-Siemssen). La Scala ha annunciato un nuovo “Ring” a partire dall’anno prossimo – con l’intero ciclo in scena nel 2013, secondo centenario della nascita di Wagner.
Il “Ring” in scena in questi giorni alla “Fenice” di Venezia – con “Götterdämmerung” si chiude il ciclo delle tre opere ma in Laguna di questa produzione non è mai stato rappresentato il prologo che pare sarà inserito nel cartellone della prossima stagione -, si differenzia marcatamente da quello fiorentino-spagnolo. Quest’ultimo, ancora in scena a Valencia, affidato per regia e allestimento scenico al gruppo catalano La Fura dels Bau, è all’insegna dello stupore, mentre la bacchetta di Zubin Mehta è marcatamente lirica. A Venezia e Colonia, il regista canadese Robert Carsen (le scene e i costumi sono di Patrick Kinmonth) opta per un’interpretazione storico-politica, analoga per molti aspetti a quelle che si sono viste in Germania, Gran Bretagna, negli Usa e anche in Italia negli anni ‘70 e ‘80 (negli anni ‘90 si è privilegiato il ritorno a letture astratte sul tipo di quelle di Wieland Wagner, con le scene di Adolphe Appia fatte quasi esclusivamente di luci, tipiche dei decenni precedenti). L’Italia può rivendicare la primogenitura di tali interpretazioni storico-politiche. La Scala iniziò, nel 1974, un “Ring” ambientato nell’epoca della prima industrializzazione (scene e costumi Pierluigi Pizzi, regia Luca Ronconi) ma vennero realizzati unicamente il prologo e la prima opera (“Die Walkirie”); il progetto venne interrotto per dissapori con Wolfgang Sawallisch, maestro concertatore e direttore d’orchestra. Venne ripreso, poi, nel 1979-82 a Firenze con la bacchetta allora altamente drammatica di Zubin Mehta.
Purtroppo di queste bellissime edizioni – il “Ring”, tra l’altro, era quasi interamente rappresentato in interni - sono state distrutte le scene ed esistono unicamente le foto. Vi è, invece, un bel cofanetto dvd del “Ring” del centenario della prima esecuzione integrale a Bayreuth: nel 1976 Patrice Chéreau e Pierre Boulez sorpresero il mondo con una lettura simile a quella di Pizzi-Ronconi-Mehta, ma, da un lato, con accenni favolistici e, dall’altro, con tempi più serrati. Prima del dvd, questa produzione Chéreau-Boulez ha fatto il giro del mondo grazie a una fortunata trasposizione televisiva ospitata pure in sale cinematografiche. Da “Ring” ambientati in epoca wagneriana d’industrializzazione, a quelli in epoca guglielmina e nazista il passo è breve. Specialmente i “Ring” in cui o i nibelunghi o i ghibicunghi erano nazisti, mentre Sigfrido e Brunilde eroi socialisti tesi verso il futuro, hanno pullulato soprattutto in Germania orientale, Polonia e Ungheria ma anche in edizioni nel mondo occidentale.
Alla “Fenice”, Carsen e Kinmonth ritornano a questo filone. Ma “Götterdämmerung”, ancora più delle opere precedenti, mostra che i tempi sono cambiati. Nella Reggia dei Ghibicunghi , sventolano vessilli rosso fuoco su cui è appare il logo della casa regnante. L’atmosfera è putrida, macera e corrotta, come in una memorabile regia di Wieland Wagner al Teatro dell’Opera di Roma nella primavera 1980. Il crepuscolo degli Dei (i quali, nell’opera, non compaiono che nell’appello di una valchiria scorata nel secondo quadro del primo atto) è anche la fine del regime dei ghibicunghi, molto simili, se si vuole, alla corte di una dittatura totalitario-comunista. Nell’ultima scena, dopo sei ore circa di spettacolo (due intervalli compresi) ci sarebbe aspettati, dopo l’olocausto di Brunilde, l’incendio del Palazzo reale, il crollo (nel fondo scena) di quello degli Dei, lo straripamento del Reno che “lava” e purifica la terra, anche l’abbattimento del muro di Berlino. Però l’idea geniale e originale di Carsen, è quella di avere in scena Brunilde solo durante tutto l’olocausto (con le voci fuori scena delle figlie del Reno e di Hagen). Ci sono altri aspetti che confermano questa lettura tedesco-orientale: i costumi anni ‘50 nella festa nuziale nel secondo atto, le vesti povere delle norme, di Sigfrido e di Valchiria, la soffitta piena di mobili anni ‘30 e ‘40 in cui operano le norme, il fiume trasformato in discarica. Come in altre regie di Carsen, c’è anche una buona dose di sesso.
Alla testa dell'orchestra e del coro, Jeffrey Tate accarezza la partitura allentando i tempi (soprattutto del primo atto) e mostrandone i ricami: un concertazione all’italiana o all’austriaca piuttosto che alla tedesca. L’orchestra della “Fenice” si cimenta bene con la complessa partitura, ma non è a livello di quella del Maggio Musicale Fiorentino (versione Firenze-Valencia) o dei Berliner Philarmoniker (Aix-Salisburgo). Tra le voci, la meno convincente è quella di Stefan Vinke, un heldentenor diseguale, con un timbro non particolarmente gradevole: ha cantato molo bene il lungo racconto del terzo atto (forse conservava i propri mezzi in vista di quel momento), ma nel primo e nel secondo è stato diseguale (buono nei legati e nei declamati ma con difficoltà negli acuti specialmente nei Do e nei Fa). Gabrierl Souvanen (Gunther), Gidon Saks (Hagen) e Werner Van Mechelen (Alberico) sono baritoni e bassi-baritoni di qualità, da tenere d’occhio i primi due, giovani e alla prima apparizione su scene italiane.
L’applausometro ha meritatamente decretato il trionfo di Jayne Caselman, una Brunilde scultorea nella voce e nell’azione scenica, che, nello stesso ruolo, aveva già avuto un grande successo al “San Carlo” circa un lustro fa. Da allora è ulteriormente maturata e ha affinato l’interpretazione del ruolo. Ottima sia nella recitazione sia nella vocalità; abilissima nell’ascendere alle tonalità acute, nel tenerle e nel discendere da esse. Di alto livello anche Nicola Beller Carbone (Gutrune) e Natasha Petrinsky (Waltraute). Buono il resto della compagnia.In breve questo “Götterdämmerung” vale un viaggio in Laguna.
(Hans Sachs) 26 giu 2009 12:52
Ligeti’s Le Grand Macabre shocks Rome but only mildly Opera Today 25 giugno
Le Grand Macabre is the only opera of György Ligéti, one of the major composers of the 20th century.
György Ligéti: Le Grand Macabre
Piet the pot: Chris Merritt; Amando: Annie Vavrille; Amanda: Ilse Eerens; Nekrotzar: Sir Willard White /Roberto Abbondanza; Astradamors: Nicholas Isherwood; Mescalina: Ning Liang; Venus: Caroline Stein; Prince Go-Go: Brian Asawa; White Minister: Eberhard Francesco Lorenz; Black Minister: Martin Winkler; Gepopo: Caroline Stein. Orchestra e Coro del Teatro Dell’opera. Maestro concertatore e Direttore: Zoltán Peskó. Maestro del Coro: Andrea Giorgi. Ideazione: Alex Ollè (La Fura dels Baus) & Valentina Carrasco. Regia: Alex Ollè.
Above: A scene from Le Grand Macabre
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It is also one of the contemporary operas most frequently performed in Europe. Ligéti composed two different versions of Le Grand Macabre — the former had its debut in Stockholm in 1978, the latter in Salzburg in 1997. The main difference is that the second version replaces almost all the spoken parts with recitative. The production at the Teatro dell’Opera di Roma (June 18-23) is a world-wide affair. It started in Brussels a few months ago. From the Italian capital it will travel to Sidney, Australia. In the fall, it will have a long spell at the English National Opera in London and at the Liceu in Barcelona. It might go on to the US and other major European opera houses in 2010.
It is a grand, and very costly, production organized by the Catalan Group La Fura dels Baus , now very trendy — the Group has staged the entire Ring in Florence and Valencia; and it is booked by La Scala for a new production of Tannäuser, which will also be shown in Berlin and other major houses.
Le Grand Macabre reaches Rome with a reputation of scandal and even perversion. In January-February, the Brussels performances were well received by the audience but a few reviewers — including The New York Times — wrote about “debauchery” on stage. The new management of the Teatro dell’Opera advertised that the production is “for an adult audience”. At the opening nights, there were a few boos at some sexually explicit moments in the opera (in particular in the second scene of the first act) but the audience did not seem shocked. If it did, it was a very mild shock. Rome has been for centuries the Babylon of Europe and is accustomed to almost everything. There were several curtain calls, but (as it is often the case when a modern opera is on stage) a few rows and many boxes were empty.
Let us place Le Grand Macabre in its proper context. In his own comments to the second version of the opera, Ligéti said that he initially intended to compose a singspiel, but eventually he wrote a full opera because, among other things, it is difficult to find singers equally good at singing, acting and dancing. He also clarifies that, as a Hungarian, he was well-acquainted with operetta. Finally, his main operatic sources of inspiration were Monteverdi’s L’Incoronazione di Poppea and Verdi’s Falstaff. In short, even though Le Grand Macabre requires a huge orchestra and ten soloists, Ligéti thought of something light (the duration of the two acts is around 100 minutes) and very ironic. There are quotations from Verdi, Donizetti, Stravinsky, Mozart and, of course, Monteverdi in both the vocal and the orchestral score, which add irony to an otherwise late 20th century musical work (it is influenced by both the German Darmstadt School and the French ICRAM School. Along with numerous rhythmic orchestral passages, “declamation” slides easily into “arioso” and “duets”.
Irony also arises in the text. Based on a Belgian play, it is an allegory. In Bruegeland (a country based on Bruegel’s paintings), an asteroid is about to destroy every living thing on the planet. As the news breaks that death is near, the reaction of the populace is extreme sex (from the adolescent sex of a vigorous couple of teen agers to sadomasochistic sex of the Court’s astrologist and his wife). A few take up drinking, instead. The second part takes place in the corridors of power. As death arrives, intrigue and deception become pointless. Rather, it is better to join all in a crazy dance (a wild 15th century “ciaccona”). Mr. Death is expected to do all the killing and all the destroying, but finds more fun in joining the humanity in extreme sex and wild dancing . Thus, Bruegeland’s last day is postponed, perhaps forever.
In my opinion, La Fura dels Baus uses a very heavy hand in the stage production that clashes with Ligéti’s sophisticated and elegant score. The stage is dominated by a huge statue of woman in progressive decomposition where the characters come out from very private parts of her body. Irony does not seem to be a gift of the Catalan Group, even though, thanks to Ligéti’s music, it is manifest in the second part (especially in the “ciaccona”).
The orchestra responds extremely well to Zoltán Peskó’s conducting. Peskó is a compatriot and long-time friend of Ligéti. He is thus, fully equipped to show all the delicate nuances of the score. Chris Merritt has completed his transition from Bellini and Rossini coloratura belcanto to a high baritone for 20th century works. Brian Asawa is the best countertenor now available world-wide. Sir Willard White is as imposing as ever. Nicholas Isherwood is a master of early British music where it is quoted in the score. Caroline Stein is now a veteran of the double role a sensual Venus and a cynic Gepopo. Ning Liang is a vicious Nescalina. Annie Vavrille and Ilse Eerens are just delightful as the amorous teenagers.
Giuseppe Pennisi
György Ligéti: Le Grand Macabre
Piet the pot: Chris Merritt; Amando: Annie Vavrille; Amanda: Ilse Eerens; Nekrotzar: Sir Willard White /Roberto Abbondanza; Astradamors: Nicholas Isherwood; Mescalina: Ning Liang; Venus: Caroline Stein; Prince Go-Go: Brian Asawa; White Minister: Eberhard Francesco Lorenz; Black Minister: Martin Winkler; Gepopo: Caroline Stein. Orchestra e Coro del Teatro Dell’opera. Maestro concertatore e Direttore: Zoltán Peskó. Maestro del Coro: Andrea Giorgi. Ideazione: Alex Ollè (La Fura dels Baus) & Valentina Carrasco. Regia: Alex Ollè.
Above: A scene from Le Grand Macabre
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It is also one of the contemporary operas most frequently performed in Europe. Ligéti composed two different versions of Le Grand Macabre — the former had its debut in Stockholm in 1978, the latter in Salzburg in 1997. The main difference is that the second version replaces almost all the spoken parts with recitative. The production at the Teatro dell’Opera di Roma (June 18-23) is a world-wide affair. It started in Brussels a few months ago. From the Italian capital it will travel to Sidney, Australia. In the fall, it will have a long spell at the English National Opera in London and at the Liceu in Barcelona. It might go on to the US and other major European opera houses in 2010.
It is a grand, and very costly, production organized by the Catalan Group La Fura dels Baus , now very trendy — the Group has staged the entire Ring in Florence and Valencia; and it is booked by La Scala for a new production of Tannäuser, which will also be shown in Berlin and other major houses.
Le Grand Macabre reaches Rome with a reputation of scandal and even perversion. In January-February, the Brussels performances were well received by the audience but a few reviewers — including The New York Times — wrote about “debauchery” on stage. The new management of the Teatro dell’Opera advertised that the production is “for an adult audience”. At the opening nights, there were a few boos at some sexually explicit moments in the opera (in particular in the second scene of the first act) but the audience did not seem shocked. If it did, it was a very mild shock. Rome has been for centuries the Babylon of Europe and is accustomed to almost everything. There were several curtain calls, but (as it is often the case when a modern opera is on stage) a few rows and many boxes were empty.
Let us place Le Grand Macabre in its proper context. In his own comments to the second version of the opera, Ligéti said that he initially intended to compose a singspiel, but eventually he wrote a full opera because, among other things, it is difficult to find singers equally good at singing, acting and dancing. He also clarifies that, as a Hungarian, he was well-acquainted with operetta. Finally, his main operatic sources of inspiration were Monteverdi’s L’Incoronazione di Poppea and Verdi’s Falstaff. In short, even though Le Grand Macabre requires a huge orchestra and ten soloists, Ligéti thought of something light (the duration of the two acts is around 100 minutes) and very ironic. There are quotations from Verdi, Donizetti, Stravinsky, Mozart and, of course, Monteverdi in both the vocal and the orchestral score, which add irony to an otherwise late 20th century musical work (it is influenced by both the German Darmstadt School and the French ICRAM School. Along with numerous rhythmic orchestral passages, “declamation” slides easily into “arioso” and “duets”.
Irony also arises in the text. Based on a Belgian play, it is an allegory. In Bruegeland (a country based on Bruegel’s paintings), an asteroid is about to destroy every living thing on the planet. As the news breaks that death is near, the reaction of the populace is extreme sex (from the adolescent sex of a vigorous couple of teen agers to sadomasochistic sex of the Court’s astrologist and his wife). A few take up drinking, instead. The second part takes place in the corridors of power. As death arrives, intrigue and deception become pointless. Rather, it is better to join all in a crazy dance (a wild 15th century “ciaccona”). Mr. Death is expected to do all the killing and all the destroying, but finds more fun in joining the humanity in extreme sex and wild dancing . Thus, Bruegeland’s last day is postponed, perhaps forever.
In my opinion, La Fura dels Baus uses a very heavy hand in the stage production that clashes with Ligéti’s sophisticated and elegant score. The stage is dominated by a huge statue of woman in progressive decomposition where the characters come out from very private parts of her body. Irony does not seem to be a gift of the Catalan Group, even though, thanks to Ligéti’s music, it is manifest in the second part (especially in the “ciaccona”).
The orchestra responds extremely well to Zoltán Peskó’s conducting. Peskó is a compatriot and long-time friend of Ligéti. He is thus, fully equipped to show all the delicate nuances of the score. Chris Merritt has completed his transition from Bellini and Rossini coloratura belcanto to a high baritone for 20th century works. Brian Asawa is the best countertenor now available world-wide. Sir Willard White is as imposing as ever. Nicholas Isherwood is a master of early British music where it is quoted in the score. Caroline Stein is now a veteran of the double role a sensual Venus and a cynic Gepopo. Ning Liang is a vicious Nescalina. Annie Vavrille and Ilse Eerens are just delightful as the amorous teenagers.
Giuseppe Pennisi
mercoledì 24 giugno 2009
Obama e Geithner toppano e fanno incassare la prima vittoria a Tremonti, L'Occidentale 24 giugno
Per la Casa Bianca, l’avere giocato d’anticipo (anche alle scopo di pregiudicare i risultati del G8 de L’Aquila e del G20 di Pittsburgh) si è rivelato un errore in cui per privilegiare la tattica si è messa a repentaglio la strategia. Robert S. McNamara, a lungo Presidente della Ford, Segretario alla Difesa e successivamente alla guida della Banca Mondiale, amava dire che l’importanza alla tattica rispetto alla strategia è un difetto dei politici con poca esperienza. In sintesi, come sottolineato su L’Occidentale del 18 giugno, la presentazione da parte della Casa Bianca di un programma di riassetto della regolazione e della vigilanza finanziaria Usa, subito dopo la visita a Washington del Presidente del G8 Silvio Berlusconi e quasi alle vigilia della riunione dei Capi di Stato e di Governo dei maggiori Paesi della comunità internazionale in programma a L’Aquila tra circa due settimana, è stata letta come un tentativo di voler cambiare il percorso definito nel “Lecce Framework” per le “global rules”.
Tali “global rules”, e non un atto unilaterale, sono considerate dagli europei come lo strumento essenziale per uscire dalla crisi e, quel che più conta, porre barriere al crearsi di condizioni che conducano a crisi analoghe. Una mossa tattica mirata non solo ad affermare la centralità Usa ma anche a strizzare l’occhio all’Asia (che considera qualsiasi “global rule” come il fumo degli occhi). Un’impostazione strategica avrebbe comportato fare recepire parte delle istanze americane in seno al G8, prima, ed al G20, poi; poter, quindi, contare su approccio multilaterale anche nei confronti della recalcitrante Asia.
Tuttavia, non solamente il piano Obama (ora disponibile in versione integrale su Internet ai siti della Casa Bianca, del Tesoro e del Congresso americano) appare intrinsecamente modesto ma ha avuto un’accoglienza gelida. Tra gli economisti d’oltreoceano solamente Paul Krugman ha spezzato una lancia a favore del documento dell’Esecutivo ma ha puntato su un solo aspetto: le misure dirette a contenere lo “shadow banking” (ossia le forme mascherate d’intermediazione finanziaria costruite in modo da sfuggire alla regolamentazione ed alla vigilanza). Quel simpaticone di Krugman non ha probabilmente letto il “Lecce Franework” dove la stessa materia è trattata in maniera più organica e più rigorosa); altrimenti i suoi elogi per questa parte del piano Obama sarebbero stati più moderati.
In effetti, gran parte degli economisti americani hanno espresso riserve sul punto centrale della proposta – la concentrazione di funzioni e di poteri nella Federal Reserve da sempre molto, molto contigua al mondo bancario, specialmente alla parte che più ha razzolato male.
Più importanti dei “blogs” di economisti (e di saggi di cui presto si potrà dare conto tramite la loro diffusione sul Social Science Research Network, SSRN) è l’accoglienza gelida, anche glaciale, che il documento ha avuto in Congresso a cui spetta tradurlo in provvedimenti normativi. Come anticipato da L’Occidentale del 18 giugno, caduto un tassello dell’abile gioco di equilibrismi per accontentare questa e quella lobby, l’intero piano Obama si sta rivelando una traballante piramide di carte. Particolarmente dura (e netta) l’opposizione di Barney Frank, deputato del partito democratico (lo stesso del Presidente) del Massachussetts. Frank presiede la commissione servizi finanziari della Camera dei Rappresentanti, quella incaricata di redigere le norme, dibatterle, approvarle. Ha detto che il programma ricevuto dalla Casa Bianca non merita neanche di essere posto all’ordine del giorno dei lavori della commissione. In altri termini, una sentenza alla pena capitale.
Non è questa le sede per entrare nei dettagli dalle varie critiche. I siti del Congresso ed in particolari della commissione servizi finanziari sono eloquenti. Quello che è importante sottolineare è come, presumibilmente, dopo tale accoglienza a casa propria Obama ed il Segretario al Tesoro Timothy F. Geithner saranno maggiormente disposti ad ascoltare l’Ue al G8 e a porsi come mediatori tra Ue e Asia al G20.
Senza muovere un dito, Giulio Tremonti ha incassato una vittoria grazie al mossa sbagliata di Obama e di Geithner. Il Cielo – dice un proverbio cinese- aiuta gli audaci.
La URL per il trackback di questo articolo è:
Tali “global rules”, e non un atto unilaterale, sono considerate dagli europei come lo strumento essenziale per uscire dalla crisi e, quel che più conta, porre barriere al crearsi di condizioni che conducano a crisi analoghe. Una mossa tattica mirata non solo ad affermare la centralità Usa ma anche a strizzare l’occhio all’Asia (che considera qualsiasi “global rule” come il fumo degli occhi). Un’impostazione strategica avrebbe comportato fare recepire parte delle istanze americane in seno al G8, prima, ed al G20, poi; poter, quindi, contare su approccio multilaterale anche nei confronti della recalcitrante Asia.
Tuttavia, non solamente il piano Obama (ora disponibile in versione integrale su Internet ai siti della Casa Bianca, del Tesoro e del Congresso americano) appare intrinsecamente modesto ma ha avuto un’accoglienza gelida. Tra gli economisti d’oltreoceano solamente Paul Krugman ha spezzato una lancia a favore del documento dell’Esecutivo ma ha puntato su un solo aspetto: le misure dirette a contenere lo “shadow banking” (ossia le forme mascherate d’intermediazione finanziaria costruite in modo da sfuggire alla regolamentazione ed alla vigilanza). Quel simpaticone di Krugman non ha probabilmente letto il “Lecce Franework” dove la stessa materia è trattata in maniera più organica e più rigorosa); altrimenti i suoi elogi per questa parte del piano Obama sarebbero stati più moderati.
In effetti, gran parte degli economisti americani hanno espresso riserve sul punto centrale della proposta – la concentrazione di funzioni e di poteri nella Federal Reserve da sempre molto, molto contigua al mondo bancario, specialmente alla parte che più ha razzolato male.
Più importanti dei “blogs” di economisti (e di saggi di cui presto si potrà dare conto tramite la loro diffusione sul Social Science Research Network, SSRN) è l’accoglienza gelida, anche glaciale, che il documento ha avuto in Congresso a cui spetta tradurlo in provvedimenti normativi. Come anticipato da L’Occidentale del 18 giugno, caduto un tassello dell’abile gioco di equilibrismi per accontentare questa e quella lobby, l’intero piano Obama si sta rivelando una traballante piramide di carte. Particolarmente dura (e netta) l’opposizione di Barney Frank, deputato del partito democratico (lo stesso del Presidente) del Massachussetts. Frank presiede la commissione servizi finanziari della Camera dei Rappresentanti, quella incaricata di redigere le norme, dibatterle, approvarle. Ha detto che il programma ricevuto dalla Casa Bianca non merita neanche di essere posto all’ordine del giorno dei lavori della commissione. In altri termini, una sentenza alla pena capitale.
Non è questa le sede per entrare nei dettagli dalle varie critiche. I siti del Congresso ed in particolari della commissione servizi finanziari sono eloquenti. Quello che è importante sottolineare è come, presumibilmente, dopo tale accoglienza a casa propria Obama ed il Segretario al Tesoro Timothy F. Geithner saranno maggiormente disposti ad ascoltare l’Ue al G8 e a porsi come mediatori tra Ue e Asia al G20.
Senza muovere un dito, Giulio Tremonti ha incassato una vittoria grazie al mossa sbagliata di Obama e di Geithner. Il Cielo – dice un proverbio cinese- aiuta gli audaci.
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lunedì 22 giugno 2009
LE TRE SFIDE DELLA DISOCCUPAZIONE in Ffwebmagazini del 22 giugnp
I dati pubblicati dall'Istituto nazionale di statistica sulle forze di lavoro il 19 giugno meritano un’analisi più approfondita di quella apparsa sino ad ora sulla stampa poiché forniscono indicazioni sia sulle politiche per uscire dalla crisi sia su quelle da adottare nel dopo-crisi.
Veniamo, in primo luogo statistiche. Nel primo trimestre 2009 l'offerta di lavoro ha registrato, rispetto allo stesso periodo del 2008, un incremento dello 0,1% (17.000 unità). Rispetto al quarto trimestre 2008, al netto dei fattori stagionali, l'offerta di lavoro si riduce dello 0,1 per cento. Nel primo trimestre 2009 il numero di occupati risulta pari a 22.966.000 unità, segnalando un dato negativo (-0,9 %, pari a -204.000 unità su base annua). Il calo sintetizza la discesa di 426.000 unità della componente italiana e la crescita di 222.000 unità di quella straniera. In termini destagionalizzati e in confronto al quarto trimestre 2008, l'occupazione nell'insieme del territorio nazionale registra una flessione pari allo 0,3 %. Il tasso di occupazione della popolazione tra 15 e 64 anni scende di nove decimi di punto percentuale rispetto al primo trimestre 2008, portandosi al 57,4 %. Il numero delle persone in cerca di occupazione registra il quinto aumento tendenziale consecutivo, portandosi a 1.982.000 unità. Il tasso di disoccupazione passa dal 7,1 per cento del primo trimestre 2008 all'attuale 7,9 per cento. Rispetto al quarto trimestre 2008, al netto dei fattori stagionali, il tasso di disoccupazione aumenta di 3 decimi di punto.
In primo luogo, è utile raffrontare l’incremento della disoccupazione (in termini tecnici della percentuale di coloro che hanno fatto negli ultimi mesi ricerca attiva di occupazione sul totale di coloro che possono e vogliono lavorare – le forze di lavoro) in Italia rispetto agli principali Paesi. Il grafico seguente illustra l’andamento del tasso di disoccupazione (in punti percentuali delle forze lavoro) alla fine del primo trimestre 2009 rispetto a 12 mesi prima.
.
Il raffronto è eloquente. L’Italia non è inclusa per due motivi : il dato è stato pubblicato leggermente più tardi (rispetto ad altri Paesi), l’aumento della disoccupazione è stato tutto sommato contenuto , rispetto agli 8 punti percentuali della Spagna , ai 4 della Russai e degli Usa e dei 2 della Gran Bretagna, Canada e molti altri. Il tasso di disoccupazione, quale omogeneizzato secondo la metodologia Eurostat, resta, in Italia, inferiore a quelli segnati nella media dell’area dell’euro (7,9% rispetto 9,2%). Ciò vuol dire che il nostro sistema produttivo, basato su piccole e medie imprese, su imprese-rete, su distretti, su un alto grado d’industria manifatturiera sta “reggendo” bene. E che gli stessi tanto criticati “ammortizzatori” stanno dando buona prova.
Non è, però, tempo di facili compiacimenti. Governo, Parlamento e società italiana in senso lato hanno tre sfide a cui rispondere. Sono sfide destinate a diventare più acute nel tempo a ragione del fenomeno dell’isteresi – ossia del “trascinamento”, tipo di qualsiasi recessione – la ripresa della produzione precede di mesi quella dell’impiego.
La prima riguarda le finanze pubbliche. In vario modo, l’Europa, e l’Italia in particolare, ha accettato mercato di lavoro più flessibili (all’entrata ed all’uscita) sulla base di maggiori tutele in caso di perdita dell’occupazione – “il lato sicurezza del patto” (per utilizzare il lessico di Jakob von Weizsäker l’economista che anima Bruegel, un “think tank” basato a Bruxelles). E’ un “lato” che costa, specialmente a fronte di un calo delle entrare fiscali del 5% nell’area dell’euro nel 2009 (e del 7% circa in Italia). Governi e Parlamenti devono effettuare scelte severe a fronte di settori come il sociale dove le risorse sono sempre più scarse ed altri dove invece da lustri si accumulano residui.
La seconda riguarda la coesione. Tra Paesi ed all’interno dei singoli Paesi, il “lato sicurezza del patto” non è distribuito con equità. In tutta l’area dell’euro, ad esempio, l’industria automobilistica ha ottenuto sostegni all’occupazione ed ammortizzatori maggiori e migliori di altri. Non è questa la sede per analizzare se ed in quale misura tale “preferenza” sia giustificata. E’ doveroso, però, indicare che le diseguaglianze sono fonti di tensioni e che Governi e Parlamenti dovrebbe smussarle non solo per motivazioni di etica sociale ma anche per l’aspetto pratico che le tensioni complicano qualsiasi “exit strategy” (dalla crisi) venga adottato e rendono più difficile il disegno del “dopo-crisi”.
La terza sfida riguarda la tentazione di ripetere quanto fatto tra la fine degli Anni 70 e l’inizio degli Anni 80 ed all’inizio degli Anni 90: favorire la fuoruscita dalla forza di lavoro con prepensionamenti e misure analoghe. Oltre ai costi finanziari (la prima sfida), ciò ha un costo sociale elevatissimo in termini di contrazione del pool di lavoratori europei con esperienza e di perdita di competitività.
Veniamo, in primo luogo statistiche. Nel primo trimestre 2009 l'offerta di lavoro ha registrato, rispetto allo stesso periodo del 2008, un incremento dello 0,1% (17.000 unità). Rispetto al quarto trimestre 2008, al netto dei fattori stagionali, l'offerta di lavoro si riduce dello 0,1 per cento. Nel primo trimestre 2009 il numero di occupati risulta pari a 22.966.000 unità, segnalando un dato negativo (-0,9 %, pari a -204.000 unità su base annua). Il calo sintetizza la discesa di 426.000 unità della componente italiana e la crescita di 222.000 unità di quella straniera. In termini destagionalizzati e in confronto al quarto trimestre 2008, l'occupazione nell'insieme del territorio nazionale registra una flessione pari allo 0,3 %. Il tasso di occupazione della popolazione tra 15 e 64 anni scende di nove decimi di punto percentuale rispetto al primo trimestre 2008, portandosi al 57,4 %. Il numero delle persone in cerca di occupazione registra il quinto aumento tendenziale consecutivo, portandosi a 1.982.000 unità. Il tasso di disoccupazione passa dal 7,1 per cento del primo trimestre 2008 all'attuale 7,9 per cento. Rispetto al quarto trimestre 2008, al netto dei fattori stagionali, il tasso di disoccupazione aumenta di 3 decimi di punto.
In primo luogo, è utile raffrontare l’incremento della disoccupazione (in termini tecnici della percentuale di coloro che hanno fatto negli ultimi mesi ricerca attiva di occupazione sul totale di coloro che possono e vogliono lavorare – le forze di lavoro) in Italia rispetto agli principali Paesi. Il grafico seguente illustra l’andamento del tasso di disoccupazione (in punti percentuali delle forze lavoro) alla fine del primo trimestre 2009 rispetto a 12 mesi prima.
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Il raffronto è eloquente. L’Italia non è inclusa per due motivi : il dato è stato pubblicato leggermente più tardi (rispetto ad altri Paesi), l’aumento della disoccupazione è stato tutto sommato contenuto , rispetto agli 8 punti percentuali della Spagna , ai 4 della Russai e degli Usa e dei 2 della Gran Bretagna, Canada e molti altri. Il tasso di disoccupazione, quale omogeneizzato secondo la metodologia Eurostat, resta, in Italia, inferiore a quelli segnati nella media dell’area dell’euro (7,9% rispetto 9,2%). Ciò vuol dire che il nostro sistema produttivo, basato su piccole e medie imprese, su imprese-rete, su distretti, su un alto grado d’industria manifatturiera sta “reggendo” bene. E che gli stessi tanto criticati “ammortizzatori” stanno dando buona prova.
Non è, però, tempo di facili compiacimenti. Governo, Parlamento e società italiana in senso lato hanno tre sfide a cui rispondere. Sono sfide destinate a diventare più acute nel tempo a ragione del fenomeno dell’isteresi – ossia del “trascinamento”, tipo di qualsiasi recessione – la ripresa della produzione precede di mesi quella dell’impiego.
La prima riguarda le finanze pubbliche. In vario modo, l’Europa, e l’Italia in particolare, ha accettato mercato di lavoro più flessibili (all’entrata ed all’uscita) sulla base di maggiori tutele in caso di perdita dell’occupazione – “il lato sicurezza del patto” (per utilizzare il lessico di Jakob von Weizsäker l’economista che anima Bruegel, un “think tank” basato a Bruxelles). E’ un “lato” che costa, specialmente a fronte di un calo delle entrare fiscali del 5% nell’area dell’euro nel 2009 (e del 7% circa in Italia). Governi e Parlamenti devono effettuare scelte severe a fronte di settori come il sociale dove le risorse sono sempre più scarse ed altri dove invece da lustri si accumulano residui.
La seconda riguarda la coesione. Tra Paesi ed all’interno dei singoli Paesi, il “lato sicurezza del patto” non è distribuito con equità. In tutta l’area dell’euro, ad esempio, l’industria automobilistica ha ottenuto sostegni all’occupazione ed ammortizzatori maggiori e migliori di altri. Non è questa la sede per analizzare se ed in quale misura tale “preferenza” sia giustificata. E’ doveroso, però, indicare che le diseguaglianze sono fonti di tensioni e che Governi e Parlamenti dovrebbe smussarle non solo per motivazioni di etica sociale ma anche per l’aspetto pratico che le tensioni complicano qualsiasi “exit strategy” (dalla crisi) venga adottato e rendono più difficile il disegno del “dopo-crisi”.
La terza sfida riguarda la tentazione di ripetere quanto fatto tra la fine degli Anni 70 e l’inizio degli Anni 80 ed all’inizio degli Anni 90: favorire la fuoruscita dalla forza di lavoro con prepensionamenti e misure analoghe. Oltre ai costi finanziari (la prima sfida), ciò ha un costo sociale elevatissimo in termini di contrazione del pool di lavoratori europei con esperienza e di perdita di competitività.
ORA OGNI MULTA UN RICORSO PER FARSI RIDERE DIETRO Il Tempo 22 giugno
Il vero ingorgo romano non è né sulla tangenziale né sul raccordo anulare. Ma negli uffici giudiziari dove nell’intero distretto di corte d’appello, la nuove cause civili nel 2008 hanno, sino ad ora, subito un balzo dell’8%- ben 222mila che si aggiungono ad uno stock di oltre mezzo milione giacenti in quanto lascito degli anni passati. I nodi sono moltissimi: dalla riforma dei codici all’insufficienza degli organici. Un diplomatico keynota ironizza che le classifiche delle Fondazioni Fraser e Heritage pongono la giustizia civile romana dopo quella della Bielorussia e del Benin in quanto tempo dei procedimenti e certezza della pena.
Non può certo un semplice economista suggerire soluzioni ad un nodo su cui hanno riflettuto e stanno riflettongo decine di commissioni di studio composte di addette-ai-lavori e di cittadini-consumatori del bene pubblico “giustizia”, un bene che pare negato a molti italiani.
Tuttavia, può essere utile riflettere su una delle determinanti dell’ultima ondata dell’ingorgo: ogni giorno sulle scrivanie dei giudici di pace arrivano 400 nuovi ricorsi contro multe, considerate, a torto od a ragione, “pazze”. Sulle gracili scrivanie, spesso in compensato, si sta accumulando un Himalaya di ricorsi che minaccia di farle crollare, dando un immagine anche fisica del tracollo della giustizia civile romana. Quasi tutti questi ricorsi sono nei confronti della Equilitalia Gerit s.p.a., concessionaria del Comune: riguardano multe notificate mediamente dieci giorni prima che passassero i cinque anni dalla supposta infrazione (e, quindi, scattasse la decadenza dei termini). In quasi tutte le notifiche Gerit non è allegata né l’originale della contravvenzione (vi è spesso una fotocopia difficilmente leggibile) e quasi mai l’avviso con lettera raccomandata secondo quanto previsto dal codice civile. E’ altamente probabile, che gran parte delle multe verranno annullate. Nel frattempo, tale modo di gestire ci porta dietro la Bielorussia ed il Benin e impedisce agli italiani di avere una giustizia efficiente ed efficace.
Che fare? Se fosse in vigore la “class action” per cui si batte il Ministro Renato Brunetta, la Gerit sarebbe più attenta ai propri comportamenti poiché i suoi dirigenti rischierebbe risarcimenti miliardari, pignoramento immediato dei propri beni (mentre è in corso il processo) ed in caso di dolo e colpa grave anche il carcere (negli Usa sono stati comminati ergastoli).
Brunetta non è stato ascoltato. Quindi, non resta che appellarsi al Sindaco se i ricorsi si concludono annullando la miriade le cartelli Gerit si operi perché i dirigenti della società vengano invitati a seguire la terapia “Villa Literno” (ossia raccolta di pomodori invece che di multe). Nel frattempo, si può considerare una sanatoria per quanto richiesto dalla Gerit con tanto ritardo, chiedendo, però, alla Gerit medesima di versare al Comune le somme dovute e non incassate a ragione della sua sciatta lentocrazia.
I romani, e gli italiani, comunque, non possono essere vessati ed i tribunali ingorgati da chi, con il gettito tributario, non fa il proprio lavoro o lo fa male.
Non può certo un semplice economista suggerire soluzioni ad un nodo su cui hanno riflettuto e stanno riflettongo decine di commissioni di studio composte di addette-ai-lavori e di cittadini-consumatori del bene pubblico “giustizia”, un bene che pare negato a molti italiani.
Tuttavia, può essere utile riflettere su una delle determinanti dell’ultima ondata dell’ingorgo: ogni giorno sulle scrivanie dei giudici di pace arrivano 400 nuovi ricorsi contro multe, considerate, a torto od a ragione, “pazze”. Sulle gracili scrivanie, spesso in compensato, si sta accumulando un Himalaya di ricorsi che minaccia di farle crollare, dando un immagine anche fisica del tracollo della giustizia civile romana. Quasi tutti questi ricorsi sono nei confronti della Equilitalia Gerit s.p.a., concessionaria del Comune: riguardano multe notificate mediamente dieci giorni prima che passassero i cinque anni dalla supposta infrazione (e, quindi, scattasse la decadenza dei termini). In quasi tutte le notifiche Gerit non è allegata né l’originale della contravvenzione (vi è spesso una fotocopia difficilmente leggibile) e quasi mai l’avviso con lettera raccomandata secondo quanto previsto dal codice civile. E’ altamente probabile, che gran parte delle multe verranno annullate. Nel frattempo, tale modo di gestire ci porta dietro la Bielorussia ed il Benin e impedisce agli italiani di avere una giustizia efficiente ed efficace.
Che fare? Se fosse in vigore la “class action” per cui si batte il Ministro Renato Brunetta, la Gerit sarebbe più attenta ai propri comportamenti poiché i suoi dirigenti rischierebbe risarcimenti miliardari, pignoramento immediato dei propri beni (mentre è in corso il processo) ed in caso di dolo e colpa grave anche il carcere (negli Usa sono stati comminati ergastoli).
Brunetta non è stato ascoltato. Quindi, non resta che appellarsi al Sindaco se i ricorsi si concludono annullando la miriade le cartelli Gerit si operi perché i dirigenti della società vengano invitati a seguire la terapia “Villa Literno” (ossia raccolta di pomodori invece che di multe). Nel frattempo, si può considerare una sanatoria per quanto richiesto dalla Gerit con tanto ritardo, chiedendo, però, alla Gerit medesima di versare al Comune le somme dovute e non incassate a ragione della sua sciatta lentocrazia.
I romani, e gli italiani, comunque, non possono essere vessati ed i tribunali ingorgati da chi, con il gettito tributario, non fa il proprio lavoro o lo fa male.
domenica 21 giugno 2009
Claudio Abbado Introduces the Complete Pergolesi Opera Today June 21
Very little is known about Giovanni Battista Draghi (or Drago, according to certain sources), known as Pergolesi.
Giovanni Battista Pergolesi: Manca la guida al piè (from Li Prodigi della Divina Grazia nella Conversione e Morte di San Guglielmo); Laudate Pueri Dominun; Salve Regina in F minor; Missa in F major.
Veronica Cangemi, Racherl Harnisch, Teresa Romano, Sara Mingardo. Chorus of the Swiss Radio. Orchestra Mozart. Conductor: Claudio Abbado. Jesi - Teatro Pergolesi, June 5 2009.
He was born in Jesi — also the birthplace of Gaspare Spontini — on January 4th 1710 to a poor family (and most likely affected by many hereditary diseases). At a young age he left the small and pleasant little town on the Marche hills near the Adriatic Coast to move to Naples. There he studied at the San Pietro in Majella Conservatory. Upon graduation, he found employment as a musician and composer with a family, the Maddaloni, closely linked to the Austrians and thus not on good terms with the new powers-to-be in Naples (the Spaniards). He died young , at the age of 26, in a Monastery near Pozzuoli, in the suburbs of Naples. In his short life, he composed several opera serias, Church music and intermezzos. He was, it seems, well-known and appreciated in Naples and Rome (where the Maddaloni family went to find shelter when the Spanish Bourbons took over the Government in the Southern State).
He became internationally known several years after his premature death when his intermezzo La Serva Padrona, generally credited as the first opera buffa, precipitated a major artistic controversy (la Guerre des Bouffons) in France as well as elsewhere in Europe in the decades immediately preceding the Revolution. The first performance of La Serva Padrona in Naples in 1733 passed unnoticed; it was performed as a intermeszzo among the three acts of the opera seria Il Prigionier Superbo. La Serva Padrona was produced in Graz in 1739 by an Italian touring company without much notice. Its big splash was in Paris in 1752. Then, it provoked such a tumult of enthusiasm that it can be said to have caused a revolution in French opera; it played to almost full houses for nearly three years. At that time, French opera dominated and domineered European stage. The plot of La Serva Padrona is simple and satiric. Most of the dialogue is written the rapid recitative secco , unknown elsewhere in Europe except for Naples. The real charm of the short two parts intermezzo resides in the set numbers arias and duets where comedy and pathos intermingle. It was a real shock in Paris where the baroque opera was at its sunset and the tragédie lyrique was losing his hold. La Serva Padrona became an opportunity to inveigh against tradition and to promote the new culture of free expression of feelings- in short, to bring enlightenment to the opera stage and to the opera houses. The philosopher Jacques Rousseau became the leader of the movement; he himself composed an opera buffa in the new style, Le Diven du Village.
A scene from La Serva Padrona
Internationally, Pergolesi is mostly known for La Serva Padrona and two of his sacred pieces, Salve Regina and Stabat Mater, but he was a prolific composer in his brief life; at least six operas, mostly opera serias, are attributed to him. For the 300th anniversary of his birth, the Jesi-based Pergolesi Foundation has the ambitious program to stage all of them; the six operas will be staged in Pozzuoli, where, as already mentioned, the composer died.
It is fair to say that only two of the six operas would be new productions. In the last few years, the Foundation has already staged four of them in programs co-produced with the Festival of Radio France in Montpellier and with the Baroque Festival of Beaune as well as with the theaters of Modena, Piacenza, Ravenna, Reggio Emilia and Treviso. The full schedule is available at www.fondazionepergolesispontini.com and summarized at the end of this article.
A scene from L’Olimpiade
A jump start to the festival was, on June 5th, a concert of the Mozart Orchestra with Claudio Abbado conducting a fine group of soloists and the Swiss Radio Chorus. The concert was performed in the lovely Pergolesi Theatre in Jesi, with live and free maxi-screen video on the main square of the town. Only the initial number of the concert came from an opera, the aria Manca la guida al piè from the Neapolitan music drama Li Prodigi della Divina Grazia nella Conversione e Morte di San Guglielmo, a dramatic play Pergolesi composed when he was 21. The play has never been staged in modern time; it is programmed for December 2010 as a part of the performances of Pergolesi’s complete oeuvre. The rest of the concert was devoted to Church music with the Missa in F major taking up the entire second part. Abbado conducted with sublime elegance. All the soloists were of high standard, especially the alto Sara Mingardo. The audience was enthusiastic.
Our readers are most likely more interested in the operatic full immersion in Jesi and Pozzuoli than in a review of concert. I have seen in Jesi all the four productions that will be revived as a part of 2010 program. All of them are of high quality and show a Pergolesi very different than the composer generally known to international audience - mostly through La Serva Padrona, Salve Regina and Stabat Mater. I would recommend especially two of the four operas: La Salustia and L’Olimpiade. The former is one of the early opera seria by Pergolesi: it is passionate, nearly lascivious (also due to the staging by Jean-Paul Scarpitta), and thus very modern as compared to the standard and style of the time. The latter uses the Metastasio libretto previously set to music by Vivaldi, Galuppi and others, but it is unusually powerful in capturing friendship and competition among two young men; the staging of Italo Nunziata is a dramatic masterpiece.
Giuseppe Pennisi
The Opera performances in Jesi:
Il Prigionier Superbo- 11-12 September 2009 La Serva Padrona - 11- 12 September 2009 Il Flaminio - 4-6 June 2010 Adriano in Siria - 10’-12 June 2010 Livetta and Tracollo - 10-12 June 2010 La Fenice sul Rogo - 13 June 2010 Lo Frate ‘Nnamoratu 3-5 September 2010 L’Olimpiade - 10-12 Sempter 2010 Li Prodigi de la Divina Grazia 11September 2010 Il Prigionier Superbo 19-21 November 2010 La Serva Padrona 19-21 September 2010 La Salustia 10- 12 December 2010
Dates of the Opera Performance in Pozzuoli 4-13 September 2010
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Giovanni Battista Pergolesi: Manca la guida al piè (from Li Prodigi della Divina Grazia nella Conversione e Morte di San Guglielmo); Laudate Pueri Dominun; Salve Regina in F minor; Missa in F major.
Veronica Cangemi, Racherl Harnisch, Teresa Romano, Sara Mingardo. Chorus of the Swiss Radio. Orchestra Mozart. Conductor: Claudio Abbado. Jesi - Teatro Pergolesi, June 5 2009.
He was born in Jesi — also the birthplace of Gaspare Spontini — on January 4th 1710 to a poor family (and most likely affected by many hereditary diseases). At a young age he left the small and pleasant little town on the Marche hills near the Adriatic Coast to move to Naples. There he studied at the San Pietro in Majella Conservatory. Upon graduation, he found employment as a musician and composer with a family, the Maddaloni, closely linked to the Austrians and thus not on good terms with the new powers-to-be in Naples (the Spaniards). He died young , at the age of 26, in a Monastery near Pozzuoli, in the suburbs of Naples. In his short life, he composed several opera serias, Church music and intermezzos. He was, it seems, well-known and appreciated in Naples and Rome (where the Maddaloni family went to find shelter when the Spanish Bourbons took over the Government in the Southern State).
He became internationally known several years after his premature death when his intermezzo La Serva Padrona, generally credited as the first opera buffa, precipitated a major artistic controversy (la Guerre des Bouffons) in France as well as elsewhere in Europe in the decades immediately preceding the Revolution. The first performance of La Serva Padrona in Naples in 1733 passed unnoticed; it was performed as a intermeszzo among the three acts of the opera seria Il Prigionier Superbo. La Serva Padrona was produced in Graz in 1739 by an Italian touring company without much notice. Its big splash was in Paris in 1752. Then, it provoked such a tumult of enthusiasm that it can be said to have caused a revolution in French opera; it played to almost full houses for nearly three years. At that time, French opera dominated and domineered European stage. The plot of La Serva Padrona is simple and satiric. Most of the dialogue is written the rapid recitative secco , unknown elsewhere in Europe except for Naples. The real charm of the short two parts intermezzo resides in the set numbers arias and duets where comedy and pathos intermingle. It was a real shock in Paris where the baroque opera was at its sunset and the tragédie lyrique was losing his hold. La Serva Padrona became an opportunity to inveigh against tradition and to promote the new culture of free expression of feelings- in short, to bring enlightenment to the opera stage and to the opera houses. The philosopher Jacques Rousseau became the leader of the movement; he himself composed an opera buffa in the new style, Le Diven du Village.
A scene from La Serva Padrona
Internationally, Pergolesi is mostly known for La Serva Padrona and two of his sacred pieces, Salve Regina and Stabat Mater, but he was a prolific composer in his brief life; at least six operas, mostly opera serias, are attributed to him. For the 300th anniversary of his birth, the Jesi-based Pergolesi Foundation has the ambitious program to stage all of them; the six operas will be staged in Pozzuoli, where, as already mentioned, the composer died.
It is fair to say that only two of the six operas would be new productions. In the last few years, the Foundation has already staged four of them in programs co-produced with the Festival of Radio France in Montpellier and with the Baroque Festival of Beaune as well as with the theaters of Modena, Piacenza, Ravenna, Reggio Emilia and Treviso. The full schedule is available at www.fondazionepergolesispontini.com and summarized at the end of this article.
A scene from L’Olimpiade
A jump start to the festival was, on June 5th, a concert of the Mozart Orchestra with Claudio Abbado conducting a fine group of soloists and the Swiss Radio Chorus. The concert was performed in the lovely Pergolesi Theatre in Jesi, with live and free maxi-screen video on the main square of the town. Only the initial number of the concert came from an opera, the aria Manca la guida al piè from the Neapolitan music drama Li Prodigi della Divina Grazia nella Conversione e Morte di San Guglielmo, a dramatic play Pergolesi composed when he was 21. The play has never been staged in modern time; it is programmed for December 2010 as a part of the performances of Pergolesi’s complete oeuvre. The rest of the concert was devoted to Church music with the Missa in F major taking up the entire second part. Abbado conducted with sublime elegance. All the soloists were of high standard, especially the alto Sara Mingardo. The audience was enthusiastic.
Our readers are most likely more interested in the operatic full immersion in Jesi and Pozzuoli than in a review of concert. I have seen in Jesi all the four productions that will be revived as a part of 2010 program. All of them are of high quality and show a Pergolesi very different than the composer generally known to international audience - mostly through La Serva Padrona, Salve Regina and Stabat Mater. I would recommend especially two of the four operas: La Salustia and L’Olimpiade. The former is one of the early opera seria by Pergolesi: it is passionate, nearly lascivious (also due to the staging by Jean-Paul Scarpitta), and thus very modern as compared to the standard and style of the time. The latter uses the Metastasio libretto previously set to music by Vivaldi, Galuppi and others, but it is unusually powerful in capturing friendship and competition among two young men; the staging of Italo Nunziata is a dramatic masterpiece.
Giuseppe Pennisi
The Opera performances in Jesi:
Il Prigionier Superbo- 11-12 September 2009 La Serva Padrona - 11- 12 September 2009 Il Flaminio - 4-6 June 2010 Adriano in Siria - 10’-12 June 2010 Livetta and Tracollo - 10-12 June 2010 La Fenice sul Rogo - 13 June 2010 Lo Frate ‘Nnamoratu 3-5 September 2010 L’Olimpiade - 10-12 Sempter 2010 Li Prodigi de la Divina Grazia 11September 2010 Il Prigionier Superbo 19-21 November 2010 La Serva Padrona 19-21 September 2010 La Salustia 10- 12 December 2010
Dates of the Opera Performance in Pozzuoli 4-13 September 2010
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Britten’s Midsummer Night’s Dream Charms La Scala Opera Today June 21
Robert Carsen’s production of Benjamin Britten’s A Midsummer Night’s Dream is not new, as the La Scala playbill suggests.
Benjamin Britten: Midsummer Night’s Dream
Oberon: David Daniels; Tytania: Rosemary Joshua; Puck: Emil Wolk; Theseus: Daniel Okulitch; Hippolyta: Natascha Petrinsky; Lysander: Gordon Gietz; Demetrius: David Adam Moore; Hermia: Deanne Meek; Helena: Erin Wall; Bottom: Matthew Rose; Quince: Andrew Shore; Flute: Christopher Gillett; Snug: Graeme Danby; Snout: Adrian Thompson; Starveling: Simon Butteriss; Cobweb: Francesca Mercuriali; Peaseblossom: Elena Caccamo; Mustardseed: Barbara Massaro; Moth: Nicolò De Maestri. Conductor: Sir Andrew Davis. Stage Direction: Robert Carsen. Set and Costumes: Michael Levine. Lighting: Davy Cunningham. Choreography: Matthew Bourne. Orchestra del Teatro alla Scala.
Above: David Daniels as Oberon and Rosemary Joshua as Tytania
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It has a long history; it was a major hit of the 1991 Aix-en-Provence Festival International d’Art Lyrique. The rich and costly staging was then co-produced with the Opéra Nationale de Lyon. In the last 18 years, it has traveled to many countries; in Italy, in the 1990s, it had a few performances at the Ravenna Festival and Ferrara Musica. In both towns the opera house is comparatively small and the stage not much larger that that of Aix-en-Provence. Carsen has reviewed and updated the staging many a time. Further stagings are now programmed all over Europe and, supposedly, in the USA.
The opera itself had been conceived for a specific event: the reconstruction, in 1960, of the Jubilee Hall in Aldelburgh, where Britten and his lifetime partner, the tenor Peter Pears, were living. Even though the reconstruction implied an increase in space, the Hall could accommodate no more than 316 people. It had a simple wooden stage (with no modern machinery or equipment), the pit was designed for a small orchestra (nearly a chamber music ensemble), although the opera required 18 soloists and a children chorus. At that time, Britten was working on a project to reduce the cost of opera productions and to make them transportable from town to town; he thought that this was the only feasible strategy to make opera survive in the post- World War II era. As a part of this strategy, in 1945, he gave a new start to the Glyndebourne Festival in Sussex, and in 1947 he created the English Opera Group - a touring company with limited means to bring opera even to small towns of the UK, Switzerland and the Netherlands. Some of his operas (“The Rape of Lucretia”, “Curlew River”, the Church musical pieces) were composed for this project. Even his attempt at “grand opera,” “Billy Budd,” had also a version with only two pianos and a slightly reduced number of soloists.
Against this backdrop, the Scala “A Midsummer Night’s Dream” is a departure from Britten’s chamber opera yet still far from his two forays into “grand opera” (“Gloriana”, in addition to “Billy Budd”) . Britten’s writing is eclectic; it is rooted in the British tradition since Purcell but it incorporates also Berg’s technique of adopting a theme on which to build each individual musical scene, though Britten does not turn his back on a tonal approach. Another aspect - especially relevant to “A Mid-Summer”- is his capacity to obtain colour from a small orchestral ensemble and the counterpoint of a large number of vocal soloists. Finally, in “Midsummer,” he explores the magic of the night and assigns to the fairies the most “unearthy” vocal register: a coloratura soprano (Tytania) and a counter-tenor (Oberon).
After 18 years, the production is still fresh. Carlsen, then very young, saw “A Midsummer” as an exploration of eroticism - from that of the very young (the two fugitive couples) to that of the adult (Tytania and Oberon) to that of the peasants. The set is wide green with beds (two huge ones in the first act, six “queensize” in the second act, and three, suspended above the stage, in the first part of the third act) until the final scene in a white but dull Athens.
Sir Andrew Davis conducted a chamber music ensemble: two harps, a harpsichord, a small number of violins and cellos, brass and percussion. The small orchestra performance is the best part of the performance, the crystal-clear and transparent texture is a real thrill. A mostly British cast gave excellent acting performances. The Rosemary Joshua sang a sexy “coloratura” Tytania, and quite good also were the two young couples (Gordon Gietz, David Adam Moore, Deanne Meek and Erin Wall). David Daniels is a virtuoso countertenor but his volume is better suited to a small concert house than to the large La Scala auditorium (where the acoustic is less than perfect).
Giuseppe Pennisi
Benjamin Britten: Midsummer Night’s Dream
Oberon: David Daniels; Tytania: Rosemary Joshua; Puck: Emil Wolk; Theseus: Daniel Okulitch; Hippolyta: Natascha Petrinsky; Lysander: Gordon Gietz; Demetrius: David Adam Moore; Hermia: Deanne Meek; Helena: Erin Wall; Bottom: Matthew Rose; Quince: Andrew Shore; Flute: Christopher Gillett; Snug: Graeme Danby; Snout: Adrian Thompson; Starveling: Simon Butteriss; Cobweb: Francesca Mercuriali; Peaseblossom: Elena Caccamo; Mustardseed: Barbara Massaro; Moth: Nicolò De Maestri. Conductor: Sir Andrew Davis. Stage Direction: Robert Carsen. Set and Costumes: Michael Levine. Lighting: Davy Cunningham. Choreography: Matthew Bourne. Orchestra del Teatro alla Scala.
Above: David Daniels as Oberon and Rosemary Joshua as Tytania
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It has a long history; it was a major hit of the 1991 Aix-en-Provence Festival International d’Art Lyrique. The rich and costly staging was then co-produced with the Opéra Nationale de Lyon. In the last 18 years, it has traveled to many countries; in Italy, in the 1990s, it had a few performances at the Ravenna Festival and Ferrara Musica. In both towns the opera house is comparatively small and the stage not much larger that that of Aix-en-Provence. Carsen has reviewed and updated the staging many a time. Further stagings are now programmed all over Europe and, supposedly, in the USA.
The opera itself had been conceived for a specific event: the reconstruction, in 1960, of the Jubilee Hall in Aldelburgh, where Britten and his lifetime partner, the tenor Peter Pears, were living. Even though the reconstruction implied an increase in space, the Hall could accommodate no more than 316 people. It had a simple wooden stage (with no modern machinery or equipment), the pit was designed for a small orchestra (nearly a chamber music ensemble), although the opera required 18 soloists and a children chorus. At that time, Britten was working on a project to reduce the cost of opera productions and to make them transportable from town to town; he thought that this was the only feasible strategy to make opera survive in the post- World War II era. As a part of this strategy, in 1945, he gave a new start to the Glyndebourne Festival in Sussex, and in 1947 he created the English Opera Group - a touring company with limited means to bring opera even to small towns of the UK, Switzerland and the Netherlands. Some of his operas (“The Rape of Lucretia”, “Curlew River”, the Church musical pieces) were composed for this project. Even his attempt at “grand opera,” “Billy Budd,” had also a version with only two pianos and a slightly reduced number of soloists.
Against this backdrop, the Scala “A Midsummer Night’s Dream” is a departure from Britten’s chamber opera yet still far from his two forays into “grand opera” (“Gloriana”, in addition to “Billy Budd”) . Britten’s writing is eclectic; it is rooted in the British tradition since Purcell but it incorporates also Berg’s technique of adopting a theme on which to build each individual musical scene, though Britten does not turn his back on a tonal approach. Another aspect - especially relevant to “A Mid-Summer”- is his capacity to obtain colour from a small orchestral ensemble and the counterpoint of a large number of vocal soloists. Finally, in “Midsummer,” he explores the magic of the night and assigns to the fairies the most “unearthy” vocal register: a coloratura soprano (Tytania) and a counter-tenor (Oberon).
After 18 years, the production is still fresh. Carlsen, then very young, saw “A Midsummer” as an exploration of eroticism - from that of the very young (the two fugitive couples) to that of the adult (Tytania and Oberon) to that of the peasants. The set is wide green with beds (two huge ones in the first act, six “queensize” in the second act, and three, suspended above the stage, in the first part of the third act) until the final scene in a white but dull Athens.
Sir Andrew Davis conducted a chamber music ensemble: two harps, a harpsichord, a small number of violins and cellos, brass and percussion. The small orchestra performance is the best part of the performance, the crystal-clear and transparent texture is a real thrill. A mostly British cast gave excellent acting performances. The Rosemary Joshua sang a sexy “coloratura” Tytania, and quite good also were the two young couples (Gordon Gietz, David Adam Moore, Deanne Meek and Erin Wall). David Daniels is a virtuoso countertenor but his volume is better suited to a small concert house than to the large La Scala auditorium (where the acoustic is less than perfect).
Giuseppe Pennisi
sabato 20 giugno 2009
UN TRACOLLO PREVISTO E ANNUNCIATO Il Tempo 21 giugno
Per noi de Il Tempo, l’andamento dei nuovi pensionamenti d’anzianità è la cronaca di un tracollo annunciato. Da circa dieci anni (ossia da quando il Governo Prodi nel 1996-97 ha ulteriormente peggiorato il meccanismo d'indicizzazione introdotto nel 1993 dal Governo Amato), avvertiamo i lettori che le pensioni , specialmente quelle d'anzianità, comportano, anno dopo anno, un'erosione del reddito reale in termini di parità di potere d'acquisto. L'erosione è molto forte se i trattamenti pensionistici sono raffrontati con i redditi di chi resta al lavoro. In breve secondo i nostri calcoli, se si va a riposo a 58 con un trattamento che, a quel momento, è a livello medio o medio-basso, a 75 anni non si fa più parte della borghesia ma degli indigenti. Gli individui e le famiglie sanno fare di conto. Lo hanno compreso molto prima e molto meglio di certe parti del sindacato che hanno innalzato le pensioni d'anzianità come un vessillo e hanno organizzato proteste tali da fare cadere Governi democraticamente eletti: a queste parti del sindacato interessavano essenzialmente alcuni gruppi d'interesse che usciti dalla porta dell'impiego dipendente (spesso presso il sindacato o in posizione di distacco sindacale), sarebbero rientrati dalla finestra delle collaborazione. Quella generazione - 55nne ai tempi della «riforma Dini» del 1995 - è ormai prossima alla settantina; quindi, come gruppo d'interesse pesa davvero poco. Di fronte al tracollo delle richieste di nuovo pensioni d'anzianità, questi elementi del sindacato non possono che scegliere il silenzio. Alla base del fenomeno, non c'è unicamente la consapevolezza di quanto si perde se si ha lunga vita e l'interrogativo su chi si prenderà cura di noi quando con assegni ormai sottilissimi si ha bisogno di cure. C'è pure il fenomeno della crescita rasoterra del flusso di beni e servizi prodotti dall'economia italiana negli ultimi 15 anni e della vera e propria caduta nel 2009. Se la produzione ed i redditi non crescono, se si è perduta ricchezza a ragione del crollo delle Borse e dei valori immobiliari, se si opera in un'atmosfera d'incertezza, ci si aggrappa il più a lungo possibile al «posto» e si proroga il pensionamento. Ciò è nell'interesse non solamente di individui e famiglie ma della società. Numerosi studi empirici - il più recente dell'Università di Maastricht copre quasi l'intera Ue - provano che i mercati del lavoro degli anziani e dei giovani sono nettamente distinti: i primi non occupano «posti» a cui tendono ad andare i secondi. Ripetute analisi Usa hanno dimostrato che restare più a lungo al lavoro fa bene alla salute; e anche su questa base la Corte Suprema americana ha dichiarato «incostituzionali» le norme sui limiti d'età per restare in impiego (specialmente delle pubbliche amministrazioni). Un'analisi analoga (relativa all'Ue) delle Università di Tilburg e di Amsterdam non ha sino ad ora fornito risultati esaurienti. Di converso, studi dell'Iza (l'Istituto federale di studi sul lavoro tedesco) suggeriscono un nesso tra il calo o la stagnazione della produttività multifattoriale di un Paese ed il pensionamento precoce; per questo motivo, in Germania (dove non esiste l'istituto delle pensioni di anzianità) si sta portando a 67 anni l'età per andare a riposo.
SCHIPPERS E IL MITO DI EROS E THANATOS Il Tempo 20 giugno
Per chi si recherà al prossimo Festival di Spoleto (26 giugno-19 luglio) e per tutti coloro che amano le grandi bacchette della musica classica, il volume di Maurizio Modugno, al tempo stesso musicologo di classe e Parroco di San Roberto Bellarmino (dove è infaticabile organizzatore di concerti), è un “must”. Nella sua breve esistenza (1930-1977) , Thomas Schippers ha innovato profondamente il modo di concertare in generale e di concertare il teatro in musica negli Stati Uniti; aveva assorbito “la cultura europea” di dirigere interpretando le partiture con una passionalità quasi carnale (ma non trascurando le sfumature dei dettagli) più di quanto lo avesse fatto lo stesso Leonard Bernstein. La sua associazione con Gian Carlo Menotti, prima negli Stati Uniti e successivamente come protagonista per diversi anni del Festival dei Due Mondi, ha avuto un’influenza centrale nella sua capacità d’interpretare e rinnovare il Melodramma Verdiano, il Verismo, il Belcanto.
Il saggio di Maurizio Modugno è diviso in tre parti: una biografia costruita in gran misura su materiale inedito, un’analisi tecnica (ma in linguaggio piano c comprensibile ai non specialisti) della parabola artistica, una cronologia completa delle sue apparizioni in teatro ed in sale da concerto, una disanima del repertorio di Schippers ed, infine, una discografia esaustiva. Il tema di fondo del volume è come in Schippers fosse sempre presente la tensione tra Dioniso ed Apollo, tra Eros e Thanatos.
Ci aspetti che possono interessare i frequentatori del Festival umbro, ora in fase di rilancio: ad esempio, come la scelta di Spoleto (rispetto a Todi, inizialmente preferita da Menotti) fu essenzialmente di Schippers , nonché la ricostruzione degli spettacoli dal primo “Macbeth” alle leggendaria “Manon Lescaut”. In breve si respira l’atmosfera del periodo in cui Spoleto fu la Regina dei festival.
Per i musicologi, il libro mette in rilievo il ruolo di Schippers nell’”europeizzare”la direzione d’orchestra americana- un ruolo che oggi ha assunto James Levine, per versalità e per sensualità nell’approccio agli spartiti.
Maurizo Modugno Thomas Schippers- Apollo e Dioniso. Eros e Thanatos
Zecchini Editore, Varese pp.345 € 20
Il saggio di Maurizio Modugno è diviso in tre parti: una biografia costruita in gran misura su materiale inedito, un’analisi tecnica (ma in linguaggio piano c comprensibile ai non specialisti) della parabola artistica, una cronologia completa delle sue apparizioni in teatro ed in sale da concerto, una disanima del repertorio di Schippers ed, infine, una discografia esaustiva. Il tema di fondo del volume è come in Schippers fosse sempre presente la tensione tra Dioniso ed Apollo, tra Eros e Thanatos.
Ci aspetti che possono interessare i frequentatori del Festival umbro, ora in fase di rilancio: ad esempio, come la scelta di Spoleto (rispetto a Todi, inizialmente preferita da Menotti) fu essenzialmente di Schippers , nonché la ricostruzione degli spettacoli dal primo “Macbeth” alle leggendaria “Manon Lescaut”. In breve si respira l’atmosfera del periodo in cui Spoleto fu la Regina dei festival.
Per i musicologi, il libro mette in rilievo il ruolo di Schippers nell’”europeizzare”la direzione d’orchestra americana- un ruolo che oggi ha assunto James Levine, per versalità e per sensualità nell’approccio agli spartiti.
Maurizo Modugno Thomas Schippers- Apollo e Dioniso. Eros e Thanatos
Zecchini Editore, Varese pp.345 € 20
venerdì 19 giugno 2009
UNA FURA DI CATTIVO GUSTO PER IL MACABRE DI LIGETI in Milano Finanza 20 giugno
E’ a Roma sino al 23 giugno lo spettacolo teatrale annunciato come il “più scandaloso” dell’anno: “Le Gran Macabre”, di Györgi Ligéti. Quando l’allestimento debuttò a Bruxelles in gennaio, il “New York Times” parlò di “debauchery” (perversione) in scena. Lo spettacolo andrà a Londra e Barcellona (che lo coproducono) e successivamente in Australia e negli Usa. Il lavoro di Ligéti (la cui prima vvenne nel 1978 a Stoccolma) è un apologo: all’annuncio della fine del mondo, l’umanità si dà ad orge estreme, ma le stessa Morte (a cui è affidato il compito di sterminare uomini, donne e bambini) preferisce darsi a sesso sfrenato piuttosto che fare il proprio lavoro. E la fine del mondo viene rimandata. L’allestimento de la Fura dels Baus si basa su una scena unica dove un’enorme immagine di donna accovacciata (lunga 15 metri ed alta 7) si deteriora, perde pezzi, ospita ed espelle (dai suoi orifizi) i personaggi (una quindicina di solisti, alcuni in più ruoli). Più che trasgressivo (lo spettacolo è suggerito “per un pubblico adulto”) è di gusto discutibile.
Stride con la raffinata partitura di Ligéti, elegantemente concertata da Zoltán Peskó alla guida di un’orchestra in pieno splendore : l’enorme organico scava nella scrittura per fare avvertire le citazioni da Mozart, Donizetti, Stravinskij nonché dall’operetta più nota di Hoffembach (il gran “can can”). Mentre la partitura tratta con ironia l’apologo, la Fura dels Baus lo prende con eccessiva serietà anche per voler sorprendere, ad ogni occasione, gli spettatori. Ottimo il cast vocale (Merritt. White, Asawa, Stein, Vavrille, Isherwood – in breve i grandi nomi internazionali del teatro in musica).
Stride con la raffinata partitura di Ligéti, elegantemente concertata da Zoltán Peskó alla guida di un’orchestra in pieno splendore : l’enorme organico scava nella scrittura per fare avvertire le citazioni da Mozart, Donizetti, Stravinskij nonché dall’operetta più nota di Hoffembach (il gran “can can”). Mentre la partitura tratta con ironia l’apologo, la Fura dels Baus lo prende con eccessiva serietà anche per voler sorprendere, ad ogni occasione, gli spettatori. Ottimo il cast vocale (Merritt. White, Asawa, Stein, Vavrille, Isherwood – in breve i grandi nomi internazionali del teatro in musica).
LIBERALIZZARE , POI PRIVATIZZARE Il Domenicale 20 giugno
Due lavori usciti in queste ultime settimane – il “Settimo rapporto sulla liberalizzazione della società Italiana” di Società Libera e l’”Indice delle liberalizzazioni 2009” dell’Istituto Bruno Leoni, IBL – devono essere letti progettando quello che dovrà essere il mondo (in particolare l’Italia) dopo la crisi finanziaria ed economica internazionale che ci ha investito dal 2007. Negli ultimi 18 mesi, infatti, la mano pubblica è tornata alla grande nel capitale di banche e finanziarie e pure di alcune grandi imprese. In Italia, ciò è avvenuto meno che altrove per ragioni specifiche al nostro Paese – quali l’alto grado di vigilanza sulle attività bancarie e finanziarie e l’esistenza di un settore manifatturiero vasto ma diffuso in “distretti” o in “imprese-rete”. Tuttavia, anche da noi, il processo di denalizionalizzazione, privatizzazione e liberalizzazione ha subito un brutto colpo di arresto. Dei due documenti, quello di Società Libera si sofferma sugli “spiragli” per riprendere il cammino ancora esistenti al 31 dicembre 2008 (si tratta di un annuario) mentre quello dell’IBL è una meticolosa radiografia. Ambedue pongono l’accento sul comparto dove meno si è fatto in termini di privatizzazioni e liberalizzazioni: i servizi pubblici, specialmente quelli locali. Il lavoro dell’IBL fornisce, in particolare una utilissima messe di dati (per comparto) oltre che proposte specifiche.
Quale è il messaggio complessivo che si trae e quali le indicazioni per la XVI legislatura? Dall’inizio della legislatura è appena trascorso poco più di un anno, con la conferma, alle elezioni europee, dell’azione del Governo in carica, nonostante la crisi economica e finanziaria e le sue implicazioni in termini produttivi ed occupazionali. E’, quindi, stata superata la fase di “tooling up” (affinamento degli strumenti); ora occorre entrare in quella più concreta di programmi pluriennali.
La prima lezione che si trae è la necessità di liberalizzare (bene) prima di privatizzare (male)- in breve uno slogan analogo al “Trade not Aid” (“Commercio non Aiuti”) lanciato dai Paesi in via di sviluppo negli anni 60. Esempi quali la privatizzazione di Telecom e di Alitalia (in mancanza di una quadro che necessitasse una forte spinta competitiva) sono eloquenti.
La seconda lezione è che occorre prendere il toro per lo corna ed affrontare il comparto dove si è rilevato più difficile sia liberalizzare sia privatizzare: il “capitalismo municipale”- oltre duecento aziende (a volte con intrecci multinazionali con monopoli ed oligopoli stranieri, grandi e piccoli ) con quasi 230.000 occupati e responsabili per l’1% del pil (ma del 6% in alcune Regioni). E’ il campo in cui i nessi più o meno nobili con la politica (a livello locale) sono, al tempo stesso, più opachi e più stretti: tali che sino ad ora sono stati in grado di bloccare, sul nascere, e liberalizzazioni e privatizzazioni.
Se il Cav vuole restare negli Annali di storia economica italiana ed europea deve mettercela tutta per disboscare il “capitalismo municipale” inserendovi i germi della concorrenza ed arrivando presto a liberalizzazione sostanziali in grado di consentire nazionalizzazioni efficienti ed efficaci.
Quale è il messaggio complessivo che si trae e quali le indicazioni per la XVI legislatura? Dall’inizio della legislatura è appena trascorso poco più di un anno, con la conferma, alle elezioni europee, dell’azione del Governo in carica, nonostante la crisi economica e finanziaria e le sue implicazioni in termini produttivi ed occupazionali. E’, quindi, stata superata la fase di “tooling up” (affinamento degli strumenti); ora occorre entrare in quella più concreta di programmi pluriennali.
La prima lezione che si trae è la necessità di liberalizzare (bene) prima di privatizzare (male)- in breve uno slogan analogo al “Trade not Aid” (“Commercio non Aiuti”) lanciato dai Paesi in via di sviluppo negli anni 60. Esempi quali la privatizzazione di Telecom e di Alitalia (in mancanza di una quadro che necessitasse una forte spinta competitiva) sono eloquenti.
La seconda lezione è che occorre prendere il toro per lo corna ed affrontare il comparto dove si è rilevato più difficile sia liberalizzare sia privatizzare: il “capitalismo municipale”- oltre duecento aziende (a volte con intrecci multinazionali con monopoli ed oligopoli stranieri, grandi e piccoli ) con quasi 230.000 occupati e responsabili per l’1% del pil (ma del 6% in alcune Regioni). E’ il campo in cui i nessi più o meno nobili con la politica (a livello locale) sono, al tempo stesso, più opachi e più stretti: tali che sino ad ora sono stati in grado di bloccare, sul nascere, e liberalizzazioni e privatizzazioni.
Se il Cav vuole restare negli Annali di storia economica italiana ed europea deve mettercela tutta per disboscare il “capitalismo municipale” inserendovi i germi della concorrenza ed arrivando presto a liberalizzazione sostanziali in grado di consentire nazionalizzazioni efficienti ed efficaci.
“Le Grand Macabre” non scandalizza Roma Il Velino 19 giugno
Roma, 19 giu (Velino) - È arrivato a Roma, al Teatro dell’Opera, circondato da un’atmosfera di scandalo, “Le Gran Macabre” di György Ligéti. Addirittura, nei manifesti, viene “consigliato per un pubblico adulto”. Giunge nel quadro di una tournée mondiale iniziata a Bruxelles e che avrà come tappe successive Sidney, Londra, Barcellona e forse gli Stati Uniti. È, senza dubbio, uno dei maggiori impegni produttivi internazionali per il teatro in musica di questi ultimi anni. “Le Gran Macabre” è anche una delle opere contemporanee più rappresentate al mondo nelle due versioni: la prima, con molte parti parlate, che ha avuto la prima a Stoccolma nel 1978; la seconda, piuttosto rimaneggiata, che ha debuttato a Salisburgo nel 1997. In Italia è già stata vista a Bologna nel quadro della normale stagione lirica del 1979-80 e ai Festival di Ferrara e di Ravenna. Si tratta di un apologo morale, tratto da “La Ballade du Grand Macabre” del belga Michel de Ghelderode.
A Brueghelandia (paese immaginario modellato sulla pittura dei Brueghel), un asteroide sta per sterminare il genere umano, il quale, saputo di dover morire, si dà a sesso sfrenato un po’ come in “Mahagonny” di Bertold Brecht e Kurt Weill. Anche la Morte, che avrebbe il compito di mettere in atto l’esecuzione, viene irretita dal gioco. Quindi, non uccide nessuno e, brunettianamente parlando, diventa una fannullona. E l’umanità continua. Il lavoro è diviso in due parti: nella prima, l’accento è sui cittadini di Brueghelandia: da giovani coppie innamorate in voglia di sesso, a partner maturi (l’astrologo e la sua consorte) in giochi sado-maso, a ubriaconi fino alla Morte disorientata da tutto quell’ambiente; nella seconda parte, siamo nel Palazzo del Potere, tra governanti imbelli e consiglieri sicofanti. Sino allo scioglimento in una “ciaccona” finale.
Il testo è fortemente ironico. E tale è la partitura. In un saggio incluso nel ricco programma di sala, Luigi Bellingardi ricorda che Ligéti aveva due modelli in mente: “L’Incoronazione di Poppea” di Monteverdi (satira della scalata al potere tramite il sesso) e “Falsfaff” di Verdi con la fuga “Tutto il mondo è una burla” trasformata nella “ciaccona” finale. Ci sono altre citazioni, da Donizetti, Hoffembach, Mozart e Stravinskij in una scrittura orchestrale (per un organico mahleriano) e vocale (il declamato scivola in ariosi e accattivanti duetti) raffinatissima. Tanto il testo del libretto quanto gli aspetti musicali sono colmi d’ironia. Sotto il profilo drammaturgico, gli allestimenti precedenti di “Le Gran Macabre” hanno avuto enormi difficoltà nel caratterizzare Brueghelandia.
Per la Fura dels Baus, che cura questa produzione, un enorme corpo nudo di donna caduto a terra domina il palcoscenico: ha il viso di una maschera tragica greca, le fattezze delle sculture iperrealiste, è alta sette metri, lunga quindici, larga altrettanto e ruota a 360 gradi. Ma si deteriora, perde pezzi, mostra i visceri, ospita ed espelle dagli orifizi i personaggi in scena. È lei, Claudia, preda di un male oscuro, l’elemento choc della produzione e il centro della corrotta Brueghelandia dove l’angelo della morte Nekrotzar annuncia l’imminente fine del mondo ai suoi edonistici abitanti: l’astrologo di corte Astradamors, l’assatanata Mescalina, il servo Piet, il goloso principe bambino Go-Go, il capo della polizia politica segreta Gepopo. Ne deriva una trama volta a volta grottesca, delirante, orgiastica, farsesca. Il cataclisma che sembra minacciare gli umani si rispecchia nella decomposizione di Claudia e si alimenta della sua angoscia.
Questa chiave interpretativa è, da un lato, elemento visionario di stupore, ma indebolisce l’ironia che domina invece il testo e la partitura. Il difetto, a mio avviso, è soprattutto nella prima parte mentre nella seconda Ligéti e la sua ironia prendono il sopravvento su la Fura dels Baus, gruppo catalano che in molti spettacoli (si pensi al recente “Ring” fiorentino) ha brillato per inventiva ma in nessuno per ironia. Alcuni dicono che la melanconia mediterranea (tipica de la Fura) può ed è spesso graffiante, ma mai ironica. Ideazione e regia sono di Alex Ollé e Valentina Carrasco, le scene di Alfonso Florens, costumi di Lluc Castels, disegno e luci di Peter van Praet, e i 3D di Franc Aleu. Alcuni momenti sono di dubbio gusto. Di altissimo livello la parte musicale. L’orchestra del Teatro dell’Opera, concertata da Zoltán Peskó (che già curò la prima esecuzione italiana nel 1979) fa vere meraviglie nel cogliere le notazioni timbriche e l’ironia delle citazioni ed è lievissima tanto quanto la Fura è spesso eccessivamente pesante.
Complimenti anche al coro guidato da Andrea Giorgi. Voci di primissimo piano: Chris Merritt (Piet) ha ormai transitato da tenore rossiniano di coloratura ad un repertorio novecentesco, Annie Vavrille (Amando) e Ilse Eerens (Amanda) rievocano echi monteverdiani e mozartiani, Sir Willard White è un Nekrotzar di statura, Nicholas Isherwood un Astradamors di classe, Ning Liang una Mescalina sensuale, Caroline Stein nel doppio ruolo di Venere e Gepopo conferma la sua versatilità, Brian Asawa (Go-Go) il maggior controtenore su campo. Bravi tutti gli altri. Probabilmente è stato un errore programmare Le Gran Macabre” a metà giugno, quando i romani preferiscono spettacoli all’aperto e vanno al mare. Sarebbe stata, invece, un’opera appropriata per inaugurare la stagione: è breve, ha un solo intervallo e suscita controversie e dibattiti.
(Hans Sachs) 19 giugno 2009 12:42
A Brueghelandia (paese immaginario modellato sulla pittura dei Brueghel), un asteroide sta per sterminare il genere umano, il quale, saputo di dover morire, si dà a sesso sfrenato un po’ come in “Mahagonny” di Bertold Brecht e Kurt Weill. Anche la Morte, che avrebbe il compito di mettere in atto l’esecuzione, viene irretita dal gioco. Quindi, non uccide nessuno e, brunettianamente parlando, diventa una fannullona. E l’umanità continua. Il lavoro è diviso in due parti: nella prima, l’accento è sui cittadini di Brueghelandia: da giovani coppie innamorate in voglia di sesso, a partner maturi (l’astrologo e la sua consorte) in giochi sado-maso, a ubriaconi fino alla Morte disorientata da tutto quell’ambiente; nella seconda parte, siamo nel Palazzo del Potere, tra governanti imbelli e consiglieri sicofanti. Sino allo scioglimento in una “ciaccona” finale.
Il testo è fortemente ironico. E tale è la partitura. In un saggio incluso nel ricco programma di sala, Luigi Bellingardi ricorda che Ligéti aveva due modelli in mente: “L’Incoronazione di Poppea” di Monteverdi (satira della scalata al potere tramite il sesso) e “Falsfaff” di Verdi con la fuga “Tutto il mondo è una burla” trasformata nella “ciaccona” finale. Ci sono altre citazioni, da Donizetti, Hoffembach, Mozart e Stravinskij in una scrittura orchestrale (per un organico mahleriano) e vocale (il declamato scivola in ariosi e accattivanti duetti) raffinatissima. Tanto il testo del libretto quanto gli aspetti musicali sono colmi d’ironia. Sotto il profilo drammaturgico, gli allestimenti precedenti di “Le Gran Macabre” hanno avuto enormi difficoltà nel caratterizzare Brueghelandia.
Per la Fura dels Baus, che cura questa produzione, un enorme corpo nudo di donna caduto a terra domina il palcoscenico: ha il viso di una maschera tragica greca, le fattezze delle sculture iperrealiste, è alta sette metri, lunga quindici, larga altrettanto e ruota a 360 gradi. Ma si deteriora, perde pezzi, mostra i visceri, ospita ed espelle dagli orifizi i personaggi in scena. È lei, Claudia, preda di un male oscuro, l’elemento choc della produzione e il centro della corrotta Brueghelandia dove l’angelo della morte Nekrotzar annuncia l’imminente fine del mondo ai suoi edonistici abitanti: l’astrologo di corte Astradamors, l’assatanata Mescalina, il servo Piet, il goloso principe bambino Go-Go, il capo della polizia politica segreta Gepopo. Ne deriva una trama volta a volta grottesca, delirante, orgiastica, farsesca. Il cataclisma che sembra minacciare gli umani si rispecchia nella decomposizione di Claudia e si alimenta della sua angoscia.
Questa chiave interpretativa è, da un lato, elemento visionario di stupore, ma indebolisce l’ironia che domina invece il testo e la partitura. Il difetto, a mio avviso, è soprattutto nella prima parte mentre nella seconda Ligéti e la sua ironia prendono il sopravvento su la Fura dels Baus, gruppo catalano che in molti spettacoli (si pensi al recente “Ring” fiorentino) ha brillato per inventiva ma in nessuno per ironia. Alcuni dicono che la melanconia mediterranea (tipica de la Fura) può ed è spesso graffiante, ma mai ironica. Ideazione e regia sono di Alex Ollé e Valentina Carrasco, le scene di Alfonso Florens, costumi di Lluc Castels, disegno e luci di Peter van Praet, e i 3D di Franc Aleu. Alcuni momenti sono di dubbio gusto. Di altissimo livello la parte musicale. L’orchestra del Teatro dell’Opera, concertata da Zoltán Peskó (che già curò la prima esecuzione italiana nel 1979) fa vere meraviglie nel cogliere le notazioni timbriche e l’ironia delle citazioni ed è lievissima tanto quanto la Fura è spesso eccessivamente pesante.
Complimenti anche al coro guidato da Andrea Giorgi. Voci di primissimo piano: Chris Merritt (Piet) ha ormai transitato da tenore rossiniano di coloratura ad un repertorio novecentesco, Annie Vavrille (Amando) e Ilse Eerens (Amanda) rievocano echi monteverdiani e mozartiani, Sir Willard White è un Nekrotzar di statura, Nicholas Isherwood un Astradamors di classe, Ning Liang una Mescalina sensuale, Caroline Stein nel doppio ruolo di Venere e Gepopo conferma la sua versatilità, Brian Asawa (Go-Go) il maggior controtenore su campo. Bravi tutti gli altri. Probabilmente è stato un errore programmare Le Gran Macabre” a metà giugno, quando i romani preferiscono spettacoli all’aperto e vanno al mare. Sarebbe stata, invece, un’opera appropriata per inaugurare la stagione: è breve, ha un solo intervallo e suscita controversie e dibattiti.
(Hans Sachs) 19 giugno 2009 12:42
giovedì 18 giugno 2009
Obama poteva aspettare il G8 per presentare la sua riforma della finanza, L'Occidentale del 18 giugno
La riorganizzazione dell’architettura per la regolazione e finanziaria Usa presentata ieri sera dal Presidente Barack Obama richiede un esame attento e meditato che potrà essere effettuato solamente quando i testi dei provvedimenti saranno stati resi disponibili e si saranno potuti studiare. In queste materie, lo sappiamo, “il diavolo si nasconde nei dettagli”. Si possono, e si devono, però, fare due osservazioni sulla base delle informazioni di stampa. Una riguarda il metodo ed una il merito.
Sotto il profilo del metodo, occorre chiedersi quanto sia saggio presentare un’architettura con chiare scelte di campo (nuove funzioni tanto alle autorità monetarie quanto al Tesoro in tema di vigilanza su intermediari non finanziari, poteri al Tesoro d’intervento immediato per assumere il controllo di istituti affetti da titoli tossici, istituzioni di una pletora di nuove agenzie specializzate) a due settimane circa del G8 ed a tre mesi circa dal G20 che dovrebbero definire nuove regole per la finanza internazionale – le “global rules” ed il “Lecce frame work”. Ciò potrebbe o pregiudicare il lavoro per la messa a punto delle nuove regole oppure considerarlo di poca importanza, enfatizzando l’ipotesi “ciascun a suo modo, per mutuare un termine pirandelliano (ossia che ogni Stato o Unione di Stati faccia come meglio ritiene). E’ questa la tesi favorita dall’Asia e dai BRIC.
Sotto il profilo del merito, il Presidente degli Stati Uniti ed i suoi Ministri (nonché i loro consiglieri) hanno adottato il percorso di fare “contenti tutti” (burocrati, banchieri, controllori, controllati, consumatori, anche titolari di carte di credito, studenti ed automobilisti) tramite una complessa serie di compromessi. Ciò comporta vantaggi di immagine e popolarità politica nel breve periodo ma propone per il medio e lungo termine un’architettura molto complessa, quasi barocca. Difficile dire se tale architettura avrà l’”advise and consent” (il parere favorevole ed il consenso), come recita la Costituzione Usa da parte del Congresso. I compromessi sono così abili proprio per cercare d’ottenere il placet di Capitol Hill ma i tasselli sono tali e tanti che, se ne cade uno solo, può essere messa in discussione l’intera montagna di provvedimenti. Ad una prima lettura dal punto di vista internazionale, il modello si giustappone al “Keep it Simple” . proposto come regola di base per i “global rules” e il “Lecce frame work”.
Andiamo al G8 ed al G20 verso una contrapposizione od uno scontro Usa-Ue? Non è detto. La diplomazia economica e finanziaria farà di tutto per evitarlo e per trarre risultati positivi da una situazione oggettivamente difficile. Tuttavia, questo è un ulteriore segnale che l’Atlantic Community Economic Partnership è consegnata ai libri di storia e che la “Euro-Dollar Diplomacy” non è mai decollata.
Sotto il profilo del metodo, occorre chiedersi quanto sia saggio presentare un’architettura con chiare scelte di campo (nuove funzioni tanto alle autorità monetarie quanto al Tesoro in tema di vigilanza su intermediari non finanziari, poteri al Tesoro d’intervento immediato per assumere il controllo di istituti affetti da titoli tossici, istituzioni di una pletora di nuove agenzie specializzate) a due settimane circa del G8 ed a tre mesi circa dal G20 che dovrebbero definire nuove regole per la finanza internazionale – le “global rules” ed il “Lecce frame work”. Ciò potrebbe o pregiudicare il lavoro per la messa a punto delle nuove regole oppure considerarlo di poca importanza, enfatizzando l’ipotesi “ciascun a suo modo, per mutuare un termine pirandelliano (ossia che ogni Stato o Unione di Stati faccia come meglio ritiene). E’ questa la tesi favorita dall’Asia e dai BRIC.
Sotto il profilo del merito, il Presidente degli Stati Uniti ed i suoi Ministri (nonché i loro consiglieri) hanno adottato il percorso di fare “contenti tutti” (burocrati, banchieri, controllori, controllati, consumatori, anche titolari di carte di credito, studenti ed automobilisti) tramite una complessa serie di compromessi. Ciò comporta vantaggi di immagine e popolarità politica nel breve periodo ma propone per il medio e lungo termine un’architettura molto complessa, quasi barocca. Difficile dire se tale architettura avrà l’”advise and consent” (il parere favorevole ed il consenso), come recita la Costituzione Usa da parte del Congresso. I compromessi sono così abili proprio per cercare d’ottenere il placet di Capitol Hill ma i tasselli sono tali e tanti che, se ne cade uno solo, può essere messa in discussione l’intera montagna di provvedimenti. Ad una prima lettura dal punto di vista internazionale, il modello si giustappone al “Keep it Simple” . proposto come regola di base per i “global rules” e il “Lecce frame work”.
Andiamo al G8 ed al G20 verso una contrapposizione od uno scontro Usa-Ue? Non è detto. La diplomazia economica e finanziaria farà di tutto per evitarlo e per trarre risultati positivi da una situazione oggettivamente difficile. Tuttavia, questo è un ulteriore segnale che l’Atlantic Community Economic Partnership è consegnata ai libri di storia e che la “Euro-Dollar Diplomacy” non è mai decollata.
martedì 16 giugno 2009
IO MORTO GIA’ DUE VOLTE sul Tempo del 17 giugno
Dopo 45 anni di servizio, sono finito come Kim Novak e James Stewart ne “La donna che visse due volte” di Hitchcock. Mi era stato detto che la “messa in pensione” dall’Inpdap assomigliava al “The Rocky Horror Show”: ad un collega si sono smarriti otto anni di contributi di quando era “ordinario” a Bologna, ad un altro cinque a Napoli; vicende strappacuore legate alle reversibilità; tempi biblici per la documentazione per le dichiarazioni dei redditi; prestiti le cui rate non vengono detratte dai compensi; “assegni provvisori” quasi per tutti in attesa che (dopo lustri) si definiscano le pratiche. Avevo avuto un assaggio nel 1990: trasferitomi, nell’autunno 1988, dal Bilancio al Lavoro, il telegramma di routine in cui si affermava che ero “decaduto” a via XX Settembre venne letto, all’Enpas (padre dell’Inpdap) “deceduto”; due anni più tardi, venne versato un assegno di liquidazione a mia moglie (che non sapeva di essere vedova). Scoperto l’errore, ce ne vollero di belle e di buone per restituire la somma (ed ottenere ricevuta); il Ministro del Lavoro dell’epoca (Donat-Cattin) fece “decedere” (figurativamente) alcuni alti dirigenti destinandoli a compiti più consoni.
Mi sono fatto segnalare da un amico influente all’Inpdap. Ho seguito di persona “la pratica”. Non si trovavano le carte relative alla resurrezione dopo il “decesso” . Riconsegnate sia dalla mia Amministrazione di appartenenza sia da me stesso, tutto filò liscio sino alla liquidazione. In una prima simulazione, sparivano circa dieci anni (“il decesso”). In una seconda, tutto pareva in regola. In una terza, assodata l’esistenza in vita, il “decesso” veniva trattato come un prestito su cui caricare circa 20 anni d’interessi; venivano aggiunti 8 anni di riscatto di studi (sic!). Devo riconoscere che il dirigente (tra l’altro un mio ex-allievo) si è adoperato per cercare di risolvere il problema in due settimane (in pensione dal 31 gennaio non ho ancora un calcolo dettagliato della liquidazione).
Nel corso di questo “thrilles”, ho appreso che a) il sistema informatico non è allineato con la documentazione cartacea; b) errori simili “200.000 volte” (non è chiaro se ogni anno o per i 4 milioni di pensionati); c) ciò è considerato fisiologico perché “se si lavora si sbaglia”. Se questo capita a me – noto nel mondo della previdenza (sul tema ho pubblicato libri in Italia, Usa, Francia, Regno Unito e Germania) e per di più “segnalato”- cosa avviene a gran parte dei servitori dello Stato?
Il Presidente-Commissario dovrebbe trarne le conseguenze. Non dovrebbe “decedere” facendo hara-hiri, ma far decedere l’ufficio “decessi” (forse una trovata per ridurre la spesa), portare a 20 i 200.000 errori , rivolgersi all’amico Ministro Renato Brunetta (non amato, pare, da molti inpdapini ma amato da tantissimi italiani) per allineare sistema informatico con sistema informatico. E nel contempo assicurare risposte al telefono. Auspicabilmente, esaurienti.
Mi sono fatto segnalare da un amico influente all’Inpdap. Ho seguito di persona “la pratica”. Non si trovavano le carte relative alla resurrezione dopo il “decesso” . Riconsegnate sia dalla mia Amministrazione di appartenenza sia da me stesso, tutto filò liscio sino alla liquidazione. In una prima simulazione, sparivano circa dieci anni (“il decesso”). In una seconda, tutto pareva in regola. In una terza, assodata l’esistenza in vita, il “decesso” veniva trattato come un prestito su cui caricare circa 20 anni d’interessi; venivano aggiunti 8 anni di riscatto di studi (sic!). Devo riconoscere che il dirigente (tra l’altro un mio ex-allievo) si è adoperato per cercare di risolvere il problema in due settimane (in pensione dal 31 gennaio non ho ancora un calcolo dettagliato della liquidazione).
Nel corso di questo “thrilles”, ho appreso che a) il sistema informatico non è allineato con la documentazione cartacea; b) errori simili “200.000 volte” (non è chiaro se ogni anno o per i 4 milioni di pensionati); c) ciò è considerato fisiologico perché “se si lavora si sbaglia”. Se questo capita a me – noto nel mondo della previdenza (sul tema ho pubblicato libri in Italia, Usa, Francia, Regno Unito e Germania) e per di più “segnalato”- cosa avviene a gran parte dei servitori dello Stato?
Il Presidente-Commissario dovrebbe trarne le conseguenze. Non dovrebbe “decedere” facendo hara-hiri, ma far decedere l’ufficio “decessi” (forse una trovata per ridurre la spesa), portare a 20 i 200.000 errori , rivolgersi all’amico Ministro Renato Brunetta (non amato, pare, da molti inpdapini ma amato da tantissimi italiani) per allineare sistema informatico con sistema informatico. E nel contempo assicurare risposte al telefono. Auspicabilmente, esaurienti.
lunedì 15 giugno 2009
Haydn’s Bicentenary : 20 Capitals Salute “The Creation” With Standing Ovations, Opera Today 15 giugno
The Austrian Ministry of Culture and the Committee for the Celebrations of Haydn’s Bicentenary had a brilliant idea: on May 31st , the day of the composer’s death, 20 symphony orchestras and/or opera houses performed one of his greatest and best known oratorios Die Schöpfung (The Creation) .
F. J. Haydn: Die Schöpfung (The Creation)
Anita Selvaggio, Soprano; Michael Smallwood, Tenor; David Wilson Johnson, Bass; London Symphony Chorus. Joseph Cullen, Chorus Master. Francesco La Vecchia, Conductor.
Because of different time-zones, Die Schöpfung day started in New Zealand and ended in Honolulu. An earnest radio listener could enjoy the different performances over 24 hours and appreciate the difference in conducting as well as in singing. Opera houses were included because in certain countries (e.g. Germany) Die Schöpfung is also staged as a music drama: computer technology and animation are a superb support to show the initial chaos , the creation of the animals, of the flowers, of the lakes, of the rivers and of the mountain as well as the Eden garden with the passionate Adam and Eve duet.
In Rome, the Orchestra Sinfonica - Fondazione Roma (OsFr) was selected for the task. The OsFr is a peculiarity in the Italian musical landscape: it is the only fully private symphony orchestra. It does not receive any State, Regional., Provincial or Municipal support but it is financed by the Fondazione Roma ( a nonprofit foundation) and by a few companies. It has 90 permanent elements (average age: 30), a budget which is less than one-fifth of that of the main symphony orchestra in the Italian capital (l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia) and a low- priced ticket policy to attract young and old people with modest income (season tickets for 30 concerts vary from € 260 to € 90 according to the category). Its music director and permanent conductor is Maestro Francesco La Vecchia, who is also principal guest conductor of the Berliner Symphoniker. La Vecchia has been music director of Opera Houses and symphony orchestras in Central Europe (Budapest), Latin America (Rio de Janeiro) and Portugal (Lisbon). The OsFr started some eight years ago after a EU-supported training program for young graduates from European conservatories. It has gained an important place in the international music scenes also due to its tournée in Germany, Poland and China.
In January, the Accademia di Santa Cecilia had offered a different version of Die Schöpfung — performed by Frieburger Barochester conducted by René Jacobs and with Julia Kleiter, Donat Havar and Johanner Weisser as soloists. The difference, of course, is not in the score (both Jacobs and La Vecchia conducted the full score without cuts or intermission) but in the style: dry, albeit almost religious, Jacobs’; passionate (even in the approach to religion) La Vecchia’s .
Die Schöpfung is well known. Thus, there is no need to provide Opera Today readers with background on its composition, on its Austrian and London premières and on its contents. Its three parts are operatic acts. In the first and in the second, the three archangels Gabriel, Uriel and Raphael observe the Creation by following very closely the biblical text. In the third act, we are no longer witnessing from a distance the works of the Creator. The scene is the Eden Garden. After an introduction of Uriel, the act is long love scene of Adam and Eve that includes a duet supported by a choral background. As Haydn planned, there are five characters but three singers: the bass and the soprano are Raphael and Gabriel in the first and second act but become Adam and Eve in the third act. The roles are taxing both for the duration (nearly two hours of music ) and for the “virtuoso” singing — they imply “coloratura”, “agility”, quite a few high Cs and many Fs.
Maestro La Vecchia recalls that in 1992 he had conducted Die Schöpfung in the Amazonian Forest, at the vey confluence of the Rio Branco with the Rio Petro. Over 10,000 Indios attended the performance thrilled by the Haydn’s score. Most likely, the memory of that performance influenced conducting on May 31st. In the first part, it is noteworthy how conductor, orchestra and singers amplified the transition from the chaos (C minor) to the newly lit world (A major) . In the second act, the emphasis is on the descriptive imagery as in the portrayal of the animals: the cheerful, but rude, trombone blast of the lion, the pouncing tiger, the placing grazing of cattle, the sinuous music for the worm. The third act is less contemplative than normally performed: the love between Adam and Eve is powerful, not merely platonic; their duet is rapturous and timeless, an essential transition to the glorious final chorus.
La Vecchia and the symphony orchestra had three excellent singers to work with. Anita Selvaggio is a “soprano assoluto” better known outside Italy than in her own country. Both as an archangel and as Eve she displayed a a remarkable flexibility in the upper extension and an extraordinary use of messa di voce (a quality that many sopranos seem neither to care for nor to practice enough). Michael Smallwood is an up-and-coming Australian tenor with a delicate sensuous “legato”. David Wilson Johson is the best known of the three soloists. He once again confirmed his talent and versatility.
Giuseppe Pennisi (Based On May 31st Rome Symphony Orchestra Performance)
Orchestra Performance)
F. J. Haydn: Die Schöpfung (The Creation)
Anita Selvaggio, Soprano; Michael Smallwood, Tenor; David Wilson Johnson, Bass; London Symphony Chorus. Joseph Cullen, Chorus Master. Francesco La Vecchia, Conductor.
Because of different time-zones, Die Schöpfung day started in New Zealand and ended in Honolulu. An earnest radio listener could enjoy the different performances over 24 hours and appreciate the difference in conducting as well as in singing. Opera houses were included because in certain countries (e.g. Germany) Die Schöpfung is also staged as a music drama: computer technology and animation are a superb support to show the initial chaos , the creation of the animals, of the flowers, of the lakes, of the rivers and of the mountain as well as the Eden garden with the passionate Adam and Eve duet.
In Rome, the Orchestra Sinfonica - Fondazione Roma (OsFr) was selected for the task. The OsFr is a peculiarity in the Italian musical landscape: it is the only fully private symphony orchestra. It does not receive any State, Regional., Provincial or Municipal support but it is financed by the Fondazione Roma ( a nonprofit foundation) and by a few companies. It has 90 permanent elements (average age: 30), a budget which is less than one-fifth of that of the main symphony orchestra in the Italian capital (l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia) and a low- priced ticket policy to attract young and old people with modest income (season tickets for 30 concerts vary from € 260 to € 90 according to the category). Its music director and permanent conductor is Maestro Francesco La Vecchia, who is also principal guest conductor of the Berliner Symphoniker. La Vecchia has been music director of Opera Houses and symphony orchestras in Central Europe (Budapest), Latin America (Rio de Janeiro) and Portugal (Lisbon). The OsFr started some eight years ago after a EU-supported training program for young graduates from European conservatories. It has gained an important place in the international music scenes also due to its tournée in Germany, Poland and China.
In January, the Accademia di Santa Cecilia had offered a different version of Die Schöpfung — performed by Frieburger Barochester conducted by René Jacobs and with Julia Kleiter, Donat Havar and Johanner Weisser as soloists. The difference, of course, is not in the score (both Jacobs and La Vecchia conducted the full score without cuts or intermission) but in the style: dry, albeit almost religious, Jacobs’; passionate (even in the approach to religion) La Vecchia’s .
Die Schöpfung is well known. Thus, there is no need to provide Opera Today readers with background on its composition, on its Austrian and London premières and on its contents. Its three parts are operatic acts. In the first and in the second, the three archangels Gabriel, Uriel and Raphael observe the Creation by following very closely the biblical text. In the third act, we are no longer witnessing from a distance the works of the Creator. The scene is the Eden Garden. After an introduction of Uriel, the act is long love scene of Adam and Eve that includes a duet supported by a choral background. As Haydn planned, there are five characters but three singers: the bass and the soprano are Raphael and Gabriel in the first and second act but become Adam and Eve in the third act. The roles are taxing both for the duration (nearly two hours of music ) and for the “virtuoso” singing — they imply “coloratura”, “agility”, quite a few high Cs and many Fs.
Maestro La Vecchia recalls that in 1992 he had conducted Die Schöpfung in the Amazonian Forest, at the vey confluence of the Rio Branco with the Rio Petro. Over 10,000 Indios attended the performance thrilled by the Haydn’s score. Most likely, the memory of that performance influenced conducting on May 31st. In the first part, it is noteworthy how conductor, orchestra and singers amplified the transition from the chaos (C minor) to the newly lit world (A major) . In the second act, the emphasis is on the descriptive imagery as in the portrayal of the animals: the cheerful, but rude, trombone blast of the lion, the pouncing tiger, the placing grazing of cattle, the sinuous music for the worm. The third act is less contemplative than normally performed: the love between Adam and Eve is powerful, not merely platonic; their duet is rapturous and timeless, an essential transition to the glorious final chorus.
La Vecchia and the symphony orchestra had three excellent singers to work with. Anita Selvaggio is a “soprano assoluto” better known outside Italy than in her own country. Both as an archangel and as Eve she displayed a a remarkable flexibility in the upper extension and an extraordinary use of messa di voce (a quality that many sopranos seem neither to care for nor to practice enough). Michael Smallwood is an up-and-coming Australian tenor with a delicate sensuous “legato”. David Wilson Johson is the best known of the three soloists. He once again confirmed his talent and versatility.
Giuseppe Pennisi (Based On May 31st Rome Symphony Orchestra Performance)
Orchestra Performance)
Ha ragione Tremonti: il G8 finanziario di Lecce è stato un successo L'Occidentale del 15 giugno
Secondo come viene guardato, dopo il G7/G8 finanziario tenuto il 12-13 giugno a Lecce, il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto – in termini di “global standard” (il nuovo assetto di regole e prassi per la finanza internazionale che dovrebbero sia facilitare l’uscita dalla crisi sia evitare il ripetersi di una ad essa analoga). Il Ministro dell’Economia e delle Finanze Giulio Tremonti ha ragione a parlare di “successo” al di sopra delle aspettative; non solamente al G20 di Londra numerosi partecipanti avevano mostrato un atteggiamento gelido di fronte alla proposta ma nelle ultime settimane le cancellerie di molti Paesi asiatici (non certo comprimari nella trattativa) si sono mosse per fare sapere ai protagonisti del G8 in programma a L’Aquila tra poche settimane la loro opposizione in modo di evitare che nel capoluogo dell’Abruzzo i Capi di Stati e di Governo prendessero posizioni che verrebbero cassate in settembre al G20 in programma a Pittsburgh. Ora l’obiettivo non è più quello di giungere a “standard” (regole) condivise ma ad un “framework” (“quadro regolatorio”) anch’esso condiviso: a Lecce i Ministri hanno approvato un documento (di una settantina di pagine) da trasmettere a L’Aquila.
Due sono gli aspetti fondanti – uno strettamente politico ed uno principalmente tecnico. Il primo riguarda l’incontro di oggi, 15 giugno, alla Casa Bianca tra Obama e Berlusconi: il cerino acceso è nelle dita del Presidente del Consiglio italiano, nella veste di Presidente del G8 per il 2009. Washington ha, in un primo momento, guardato con favore ai “global standard”, se non altro perché la proposta italiana, e ora europea, avrebbe levato più di un castagna dal fuoco a Obama. Ma la crescente attenzione Usa nei confronti dell’Asia la rende riluttante a scendere in campo a favore della proposta Ue. Anche perché negli Usa si lavora ad una proposta alternativa: direttive settoriali di corporate governance per tipologie di imprese e banche. Ciò traspare da un saggio di Luigi Zingales, dell’Università di Chicago appena uscito su Journal of Accounting Research e da un lavoro di due giuristi, Luciana Bebchuk e Assaf Hamdami in uscita sulla University of Pennsylvania Law Review e da altre indicazioni. La proposta alternativa si inserirebbe nei “Lecce Framework” (LF nuova sigla entrata la sera del 13 giugno nella galassia delle abbreviazioni mondiali) a puntino e potrebbe essere un punto essenziale di mediazione con l’Asia. Sta a Berlusconi convincere Obama che i mediatori potrebbero essere proprio loro due.
Sotto il profilo tecnico, è difficile esprimere un giudizio ancorché preliminare su un LF che si sa essere di oltre 70 pagine ma di cui non sono stati divulgati i contenuti. Tuttavia, 70 pagine sembrano troppe per dare vita ad un framework al tempo stesso efficiente ed efficace (non una sovrastruttura che si accavalli su quelle nazionali e regionali- ad esempio delle dell’Ue, dell’Asean, del Nafta) e dotata di una forte “capacità adattiva”, ossia della capacità di adattarsi ai cambiamenti del mondo circostante. In questi 70 anni se ne è avuta una prova raffrontando la “capacità adattiva” del Gruppo della Banca mondiale (basato su scarni “articles of agreement”) e le rigidità di un Fondo monetario internazionale (costruito su statuti barocchi diventati rococò con il passare dei lustri e tali da avviluppare l’istituzione sino a paralizzarla): due libri recenti, nella eccellente collana Routledge Global Institutions) lo mostrano con chiarezza e con ampia documentazione –“The International Monetary Fund” di James Raymond Vreeland e “The World Bank” di Katherine Marshall. Giulio Tremonti dovrebbe inforcare gli occhiali severi del professore nel rileggere la settantina di pagine.
C’è un dato positivo che potrebbe facilitare il negoziato sul LF. Il miglioramento del tasso di risparmio delle famiglie americane: rasoterra, attorno al 2% del reddito disponibile nel primo lustro di questo secolo (rispetto al 12% circa dell’Italia), negativo dal 2005 all’esplosione della crisi, ha toccato il 5,7% lo scorso aprile (il livello più alto degli ultimi 14 anni). Se la tendenza continua si potrebbe tornare al livello record di 14,6% segnato nel maggio 1975 quando gli Usa stavano uscendo da una severa recessione. Un fenomeno analogo, ricordano gli storici dell’economia, si è avuto alla fine della Grande Depressione degli anni trenta. In ambedue le occasioni - la Grande Depressione e gli anni settanta - l’aumento del tasso di risparmio degli americani fu accompagnato da una maggiore selettività sia dei consumi sia degli investimenti, nonché della strumentazione per finanziare gli uni e gli altri. Un risparmio Usa tendenzialmente a livelli europei renderebbe più facile la soluzione degli squilibri finanziari mondiali e in questo contesto un ripensamento organico di istituzioni e regole internazionali. E’ un punto su cui Berlusconi può utilizzare come leva sia alla Casa Bianca sia a L’Aquila.
Due sono gli aspetti fondanti – uno strettamente politico ed uno principalmente tecnico. Il primo riguarda l’incontro di oggi, 15 giugno, alla Casa Bianca tra Obama e Berlusconi: il cerino acceso è nelle dita del Presidente del Consiglio italiano, nella veste di Presidente del G8 per il 2009. Washington ha, in un primo momento, guardato con favore ai “global standard”, se non altro perché la proposta italiana, e ora europea, avrebbe levato più di un castagna dal fuoco a Obama. Ma la crescente attenzione Usa nei confronti dell’Asia la rende riluttante a scendere in campo a favore della proposta Ue. Anche perché negli Usa si lavora ad una proposta alternativa: direttive settoriali di corporate governance per tipologie di imprese e banche. Ciò traspare da un saggio di Luigi Zingales, dell’Università di Chicago appena uscito su Journal of Accounting Research e da un lavoro di due giuristi, Luciana Bebchuk e Assaf Hamdami in uscita sulla University of Pennsylvania Law Review e da altre indicazioni. La proposta alternativa si inserirebbe nei “Lecce Framework” (LF nuova sigla entrata la sera del 13 giugno nella galassia delle abbreviazioni mondiali) a puntino e potrebbe essere un punto essenziale di mediazione con l’Asia. Sta a Berlusconi convincere Obama che i mediatori potrebbero essere proprio loro due.
Sotto il profilo tecnico, è difficile esprimere un giudizio ancorché preliminare su un LF che si sa essere di oltre 70 pagine ma di cui non sono stati divulgati i contenuti. Tuttavia, 70 pagine sembrano troppe per dare vita ad un framework al tempo stesso efficiente ed efficace (non una sovrastruttura che si accavalli su quelle nazionali e regionali- ad esempio delle dell’Ue, dell’Asean, del Nafta) e dotata di una forte “capacità adattiva”, ossia della capacità di adattarsi ai cambiamenti del mondo circostante. In questi 70 anni se ne è avuta una prova raffrontando la “capacità adattiva” del Gruppo della Banca mondiale (basato su scarni “articles of agreement”) e le rigidità di un Fondo monetario internazionale (costruito su statuti barocchi diventati rococò con il passare dei lustri e tali da avviluppare l’istituzione sino a paralizzarla): due libri recenti, nella eccellente collana Routledge Global Institutions) lo mostrano con chiarezza e con ampia documentazione –“The International Monetary Fund” di James Raymond Vreeland e “The World Bank” di Katherine Marshall. Giulio Tremonti dovrebbe inforcare gli occhiali severi del professore nel rileggere la settantina di pagine.
C’è un dato positivo che potrebbe facilitare il negoziato sul LF. Il miglioramento del tasso di risparmio delle famiglie americane: rasoterra, attorno al 2% del reddito disponibile nel primo lustro di questo secolo (rispetto al 12% circa dell’Italia), negativo dal 2005 all’esplosione della crisi, ha toccato il 5,7% lo scorso aprile (il livello più alto degli ultimi 14 anni). Se la tendenza continua si potrebbe tornare al livello record di 14,6% segnato nel maggio 1975 quando gli Usa stavano uscendo da una severa recessione. Un fenomeno analogo, ricordano gli storici dell’economia, si è avuto alla fine della Grande Depressione degli anni trenta. In ambedue le occasioni - la Grande Depressione e gli anni settanta - l’aumento del tasso di risparmio degli americani fu accompagnato da una maggiore selettività sia dei consumi sia degli investimenti, nonché della strumentazione per finanziare gli uni e gli altri. Un risparmio Usa tendenzialmente a livelli europei renderebbe più facile la soluzione degli squilibri finanziari mondiali e in questo contesto un ripensamento organico di istituzioni e regole internazionali. E’ un punto su cui Berlusconi può utilizzare come leva sia alla Casa Bianca sia a L’Aquila.
IL MERCATO DELL’AUTO PIU’ VELOCE DELLA POLITICA in Il Tempo del 15 giugno
Il primo passo della strategia di Marchionne – l’accordo con la Chrysler- si è chiuso positivamente; per giovedì 18 giugno è convocato il tavolo con le parti sociali per studiare le implicazioni della fusione sugli stabilimenti in Italia. Si sta riaprendo un’altra partita, che era parsa chiusa: quella per l’acquisizione o concentrazione con la Opel. In effetti, l’intesa tra la filiale tedesca della GM (la cui casa madre è in procedura fallimentare) e la Magna sembra giunta in alto mare. Se a Berlino si stanno riaprendo i giochi, ciò non vuole dire che gli italiani sono i favoriti o che si sono allontanati i dubbi personali sul Lingotto da parte del Ministro dell’Economia tedesco Karl-Theodor zu Guttenberg. Tanto più che, secondo la Frankfurter Allgemeinen Zeitung, la Germania sta ancora trattando con la Magna se e quali rami dell’azienda verrebbero trasferiti ad Est (in specie nella Federazione Russa).
Mentre l’attenzione della stampa italiana è concentrata sul triangolo Fiat/Chrysler- Opel-Magna, il mondo dell’auto sta cambiando ad una velocità rapida di cui pochi paiono avere contezza. La GM (o meglio quel-che-resta-della GM in liquidazione) sta cedendo la Saab non alla Fiat (come si era pensato in un primo momento) ma a Koenigsegg, un piccolo produttore svedese di auto sportivo; anche investitori norvegesi (forse lo stesso “Fondo sovrano” costituito a Oslo per meglio impiegare i proventi da oli minerali) sarebbero parte dell’accordo (al fine di ripulire la Saab dal debito e d’apportare capitali freschi). In parallelo, il “Fondo sovrano” del Qatar sta trattando l’acquisto del 25% della Porsche; risanati i conti della casa di Stoccarda , gli Emirati (il “Fondo sovrano” di Abu Dhabi è già nella Daimler) potrebbero tentare il boccone più grosso: una partecipazione di rilievo nella Volkswagen.
La novità più interessante riguarda, però, la multinazionale d’origine indiana Tata. Un saggio di Subir Sen nell’ultimo fascicolo del’ “ Icfai University Journal of Business Strategy” analizza come il gruppo, creato nel lontano 1875, è stato drasticamente riorganizzato negli Anni 90 (quando stava per essere smembrato) e nel primo lustro di questo secolo. Ora è pronto ad entrare nell’agone internazionale (non unicamente indiano) per le utilitarie. Merita di essere letto con attenzione in Fiat ed al Ministero dello Sviluppo Economico. Alla Tata sanno che la crescita della domanda di auto in Europa occidentale ed in Nordamerica sarà il 20-25% della domanda mondiale; tuttavia non solo intendono (con i cinesi e pochi altri) catturare il mercato dei Paesi in via di sviluppo, ma anche entrare (alla grande) in quello delle piccole e medie cilindrate dell’Ocse avendo alle spalle un forte radicamento in un Paese di un miliardo di persone.
Ciò merita una risposta politica: da un lato, puntare (in seno all’Omc, l’Organizzazione mondiale per il commercio) all’apertura dei mercati “emergenti”; da un altro, vagliare potenziali accordi con “fondi sovrani” per alleggerire la Fiat dal fardello del debito.
Mentre l’attenzione della stampa italiana è concentrata sul triangolo Fiat/Chrysler- Opel-Magna, il mondo dell’auto sta cambiando ad una velocità rapida di cui pochi paiono avere contezza. La GM (o meglio quel-che-resta-della GM in liquidazione) sta cedendo la Saab non alla Fiat (come si era pensato in un primo momento) ma a Koenigsegg, un piccolo produttore svedese di auto sportivo; anche investitori norvegesi (forse lo stesso “Fondo sovrano” costituito a Oslo per meglio impiegare i proventi da oli minerali) sarebbero parte dell’accordo (al fine di ripulire la Saab dal debito e d’apportare capitali freschi). In parallelo, il “Fondo sovrano” del Qatar sta trattando l’acquisto del 25% della Porsche; risanati i conti della casa di Stoccarda , gli Emirati (il “Fondo sovrano” di Abu Dhabi è già nella Daimler) potrebbero tentare il boccone più grosso: una partecipazione di rilievo nella Volkswagen.
La novità più interessante riguarda, però, la multinazionale d’origine indiana Tata. Un saggio di Subir Sen nell’ultimo fascicolo del’ “ Icfai University Journal of Business Strategy” analizza come il gruppo, creato nel lontano 1875, è stato drasticamente riorganizzato negli Anni 90 (quando stava per essere smembrato) e nel primo lustro di questo secolo. Ora è pronto ad entrare nell’agone internazionale (non unicamente indiano) per le utilitarie. Merita di essere letto con attenzione in Fiat ed al Ministero dello Sviluppo Economico. Alla Tata sanno che la crescita della domanda di auto in Europa occidentale ed in Nordamerica sarà il 20-25% della domanda mondiale; tuttavia non solo intendono (con i cinesi e pochi altri) catturare il mercato dei Paesi in via di sviluppo, ma anche entrare (alla grande) in quello delle piccole e medie cilindrate dell’Ocse avendo alle spalle un forte radicamento in un Paese di un miliardo di persone.
Ciò merita una risposta politica: da un lato, puntare (in seno all’Omc, l’Organizzazione mondiale per il commercio) all’apertura dei mercati “emergenti”; da un altro, vagliare potenziali accordi con “fondi sovrani” per alleggerire la Fiat dal fardello del debito.
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