Ecco come e perché la ripresa
rachitica ha influenzato il voto alle comunali
AddThis
Sharing Buttons
Share to WhatsAppShare to TwitterShare to FacebookShare to Google+Share to
LinkedInShare to E-mail
Il commento
dell'economista Giuseppe Pennisi
Nella lunga
notte televisiva di commenti elettorali, prima agli exit polls poi ai dati che
venivano piuttosto lentamente dal Viminale, le analisi e le opinioni hanno
riguardato essenzialmente i rapporti tra le forze politiche nei mesi che
precedono il referendum e nel resto della legislatura. Nelle prime pagine dei
giornali questa mattina il consenso sembra da questo turno elettorale sia il
Partito Democratico (PD) una delle forze politiche ad uscire perdente. Poco si
è riflettuto, invece, sia sulle determinanti della sconfitta sia soprattutto
sulle sue implicazioni.
Il PD ha un
leader nella doppia carica di segretario del partito e di presidente del
Consiglio, giovane (relativa alla tradizione italiana dell’ultimo quarto di
secolo), pieno di energia, dotato di indubbie qualità comunicative e mediatiche
e intenzionato a riformare il Paese (anche se numerosi riformatori non
concordano né sulla agenda né sui contenuti da lui proposti e predisposti).
Tutte caratteristiche che dovrebbero assicurare successi elettorali. Sono
dunque solo specifiche situazioni locali che hanno fatto voltare le spalle agli
elettori?
A mio
avviso, la determinante principale è l’andamento dell’economia, in una fase in
cui la politica economica è diretta essenzialmente da Palazzo Chigi. Dopo due
anni di annunci di “svolte” e di “riprese” dietro l’angolo o “a portata di
mano”, i dati asettici somministrati periodicamente da Eurostat, Istat, Ocse,
Fondo monetario ci dicono che in termini di crescita siamo i penultimi in
Europa (peggio di noi c’è solo la Grecia), che negli ultimi dieci anni abbiamo
distrutto un quarto della nostra capacità manifatturiera, che la disoccupazione
è scesa debolmente ed unicamente in relazione ad incentivi alle assunzioni
disponibili per circa un anno, che l’emigrazione di tecnici e scienziati
aumenta mentre si è inondati da immigrazioni su cui non abbiamo un chiaro
indirizzo, che il tasso di disoccupazione giovanile è tra i più altri in
Europa, che le differenze dei redditi e della ricchezza diventano più
gravi, che il ceto medio basso scivola verso la povertà, che il debito aumenta,
che il sistema bancario mostra crepe troppo a lungo celate con rapide
verniciature. E via discorrendo.
I cittadini
percepiscono che il governo, alle prese con alchimie costituzionali ed
elettorali di cui si comprende unicamente l’intenzione di avere un esecutivo
forte e stabile, che Palazzo Chigi quasi tratti con insofferenza e sufficienza
i dati sciorinati da fonti statistiche asettiche, molte delle quali distinte e
distanti dai problemi della vita quotidiana degli italiani. Su tutte incombe la
previsione del Fondo Monetario secondo cui se il contesto internazionale torna
ad essere favorevole e se le politiche del governo verranno attuate come
annunciate, solo nel 2027 il reddito nazionale tornerà ai livelli del
2007. Nei libri di storia, Renzi rischia di essere ricordato come il
“Presidente del Consiglio del ventennio perduto”. Il risultato della tornata
elettorale di 5 giugno è un avvertimento. Forse può ancora effettuare la vera
svolta: dare più attenzione (invece di un benign neglect) all’economia e
meno alle alleanze politiche e ai ritocchi istituzionali.
Ciò vuol
dire non ulteriori richieste di flessibilità alle autorità europee, ma,
all’interno, una forte politica di liberalizzazioni e privatizzazioni, una vera
revisione della spesa pubblica, una ristrutturazione del debito pubblico, ed un
rilancio delle infrastrutture con rendimenti certi e documentati. Il compito
più difficile è sul fronte dell’eurozona. Nel novembre 1989, abbiamo commesso
un grave errore entrando nella “fascia stretta” degli accordi europei sui cambi
con una parità sopravvalutata. Da allora (circa trent’anni) un Dutch disease
all’italiana spolpa il nostro sistema produttivo, in particolare
l’industria manifatturiera ed ha effetti perversi sul nostro debito. E’ giunto
il momento di porre francamente il problema in seno all’UE e di esaminare
possibili soluzioni.
Nessun commento:
Posta un commento