Brexit vista dai Paesi dell’Est: non
preoccupa l’irreversibilità ma le ricadute economiche
C’è una differenza fondamentale da come la eventuale uscita
della Gran Bretagna dall’Unione Europea è vista dai Paesi dell’Europa
occidentale (lo 'zoccolo duro' dei fondatori nonché Grecia, Spagna e
Portogallo) e da come è percepita dai Paesi neocomunitari dell’Europa Centrale
ed Orientale.
I primi si sono , in varia misura, impegnati in un progetto
che nel lungo termine avrebbe dovuto portare a una federazione quale quella
delineata nel Manifesto di Ventotene scritto negli anni quaranta da Altiero
Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni durante il loro confino nell’isola.
La stessa 'strategia Monnet' era impernia su unioni tecniche, quale la Ceca,
l’Euratom, la Comunità economica europea che avrebbero reso graduale ma con
passi 'irreversibili' il cammino verso l’unione politica.
La cosiddetta 'ever closer union' del Trattato di Lisbona
entrato in vigore il primo dicembre 2009, e considerato come la Costituzione
dell’UE, viene vista, in Europa occidentale, come un percorso verso obiettivi
federali o confederali. Profondamente diversa la visione dei neocomunitari
dell’Europa centrale e occidentale. Sotto il profilo politico, essere ammessi
all’Unione europea era essenzialmente un certificato di buona condotta e di
robusta costituzione fisica, dopo cinque decenni di regimi comunisti (con le
più varie sfumature). Sotto quello economico, voleva dire apertura al più ricco
mercato occidentale, investimenti di imprese dell’Ovest che trovavano
conveniente operare da impianti localizzati nell’Est, libertà di circolazione
(ed anche di emigrazione). Alle loro leadership e ai loro intellettuali, la
'ever closer union' interessava molto poco sia perché uscivano da un’Unione
(quella delle repubbliche socialiste sovietiche e del Patto di Varsavia) già
molto chiusa (in tutti i sensi) sia perché i più anziani avevano ancora vivo il
ricordo della fine di unioni multinazionali il cui requiem è stato intonato nel
1919 ma che erano defunte da tempo.
Di fronte alla Brexit, le preoccupazione principali sono a
carattere economico commerciale, nella consapevolezza però che si
verificherebbe unicamente se l’uscita della Gran Bretagna dalla Ue provocasse
un graduale ma progressivo sgretolamento dell’Unione (ipotesi davvero estrema).
Alcuni Paesi neocomunitari vagheggiano poi la possibilità di 'trattamenti
speciali' come quelli ottenuti dal governo Cameron per indurre gli elettori
britannici a rispondere 'remain' al referendum; per la Polonia ,ad esempio, ciò
vorrebbe dire una rimodulazione della politica agricola comune (a suo favore ed
a danno dei francesi e degli olandesi); per l’Ungheria non solo blocco
all’immigrazione, ma anche un’accentuazione delle caratteristiche nazionali magiare
(con qualche limitazione all’import). Anche in caso di vittoria dei britannici
europeisti, richieste di compensazioni non tarderanno a venire dai
neocomunitari dell’Europa centrale e orientale, perché serpeggia il sentimento
di essere stati discriminati quando nel 2004 sono entrati nella grande casa
europea. E dopo aver visto o sentito dai loro genitori e nonni la fine di
federazioni o confederazioni multi-nazionali non hanno mai pensato che si
stesse costruendo un’ever closer union.
Giuseppe Pennisi
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