Che cosa rischia l’Italia con la Brexit
Il commento dell'economista Giuseppe Pennisi
Dopo un periodo di relativa disattenzione (a ragione delle elezioni
amministrative), gli italiani si sono svegliati e accorti che tra meno
di due settimane in Gran Bretagna si vota se restare o non restare
nell’Unione Europea (Ue). La sveglia la hanno data i mercati,
particolarmente Piazza Affari. Quindi, allarmismi a più non posso. Senza
neanche tenere conto che il tonfo a Palazzo Mezzanotte ha avuto il
timore della Brexit come una delle determinanti cui si cumulano i dati
scoraggianti sull’andamento dell’economia, le tensioni per il
ballottaggio e quelle di una campagna referendaria che minaccia di
durare quattro mesi.
Molti si chiedono se la Brexit convenga o meno ai britannici. Molto più umilmente e molto più modestamente ci chiediamo quali saranno le implicazioni per noi. A mio avviso, comunque vada, chi ci rimette è l’Italia. Perdiamo già da qualche giorno perché le tensioni sui mercati non solo stanno affossando i cenni modesti e traballanti di ripresina ma non stanno facendo nulla di buono al debito pubblico che si prospetta in inesorabile aumento, aggravando il fardello su tutti noi.
Se al referendum vincono i britannici favorevoli a lasciare l’Ue, i primi a rimetterci saranno gli italiani residenti nel Regno Unito (il gruppo Ue più numeroso, dopo i francesi, nella terra di Albione). E’ probabile che dovranno munirsi di permessi di soggiorno e di lavoro; è anche possibile che vengano previste quote (soprattutto se l’Ue fa la voce grossa in materia di accesso di beni, servizi ed imprese britanniche al mercato unico europeo). Le imprese italiane che operano nel Regno Unito direttamente dovranno creare filiali di diritto britannico. E via discorrendo.
In materia di finanza, poi, si porrà il problema della Borsa italiana che da anni è poco più di una filiale del London Stock Exchange. Ci possono essere varie soluzioni (dalla separazione legale, al divorzio, a riprendere i tentativi di nuovi matrimoni “continentali”); tutte complesse e tutte tali da richiedere tempo e da comportare una fase di accresciuta incertezza. Resteremo nelle nebbie per almeno due anni, il tempo indispensabile per un eventuale accordo tra Gran Bretagna e quel-che-resta dell’Ue (poiché altri potrebbero essere tentati di seguire Londra). Ci si può consolare dicendo “mal comune mezzo gaudio”. Sarebbe poco intelligente perché con la nostra fragile finanza pubblica, con il nostro debito, saremmo in ogni caso quelli che subirebbero i danni maggiori. Anche più alti di quelli della Repubblica Ellenica, che è piccola ed è stata presa in carico dalla comunità internazionale.
Saremmo sempre noi a rimetterci se il 23 giugno vincono i britannici che invece vogliono rimanere nell’Ue. Non solo nessuno ci potrà rendere i costi provocati dalla tensioni di queste settimane ma soprattutto la Gran Bretagna divisa (i sondaggi dicono che un’eventuale vittoria del ‘remain’ sarebbe di misura) indebolirebbe il principale alleato a cui ci siamo appoggiati per oltre cinquanta anni per controbilanciare l’asse franco-tedesco in seno all’Ue.
Inoltre, altri Stati vorrebbero ottenere ciò che l’attuale Governo britannico ha avuto per convincere a votare per restare nell’Ue. Nella guerra dei birilli, quelli più deboli sono sempre quelli che soffrono di più e pagano lo scotto più alto. Non è improbabile che in un’Ue a geometria fortemente variabile ci venga dato l’onore, e l’onere, in quanto Stato fondatore, di guidare il Polo Sud (con Spagna, Portogallo, Grecia, Malta e Cipro). Se del caso con un euro-sud fluttuante attorno ad una parità centrale con un euro-aureo degli Stati con finanze solide ed alta produttività. Dalla prima andremmo in seconda classe che verrebbe chiamata, come nei treni eurostar, classe standard.
Molti si chiedono se la Brexit convenga o meno ai britannici. Molto più umilmente e molto più modestamente ci chiediamo quali saranno le implicazioni per noi. A mio avviso, comunque vada, chi ci rimette è l’Italia. Perdiamo già da qualche giorno perché le tensioni sui mercati non solo stanno affossando i cenni modesti e traballanti di ripresina ma non stanno facendo nulla di buono al debito pubblico che si prospetta in inesorabile aumento, aggravando il fardello su tutti noi.
Se al referendum vincono i britannici favorevoli a lasciare l’Ue, i primi a rimetterci saranno gli italiani residenti nel Regno Unito (il gruppo Ue più numeroso, dopo i francesi, nella terra di Albione). E’ probabile che dovranno munirsi di permessi di soggiorno e di lavoro; è anche possibile che vengano previste quote (soprattutto se l’Ue fa la voce grossa in materia di accesso di beni, servizi ed imprese britanniche al mercato unico europeo). Le imprese italiane che operano nel Regno Unito direttamente dovranno creare filiali di diritto britannico. E via discorrendo.
In materia di finanza, poi, si porrà il problema della Borsa italiana che da anni è poco più di una filiale del London Stock Exchange. Ci possono essere varie soluzioni (dalla separazione legale, al divorzio, a riprendere i tentativi di nuovi matrimoni “continentali”); tutte complesse e tutte tali da richiedere tempo e da comportare una fase di accresciuta incertezza. Resteremo nelle nebbie per almeno due anni, il tempo indispensabile per un eventuale accordo tra Gran Bretagna e quel-che-resta dell’Ue (poiché altri potrebbero essere tentati di seguire Londra). Ci si può consolare dicendo “mal comune mezzo gaudio”. Sarebbe poco intelligente perché con la nostra fragile finanza pubblica, con il nostro debito, saremmo in ogni caso quelli che subirebbero i danni maggiori. Anche più alti di quelli della Repubblica Ellenica, che è piccola ed è stata presa in carico dalla comunità internazionale.
Saremmo sempre noi a rimetterci se il 23 giugno vincono i britannici che invece vogliono rimanere nell’Ue. Non solo nessuno ci potrà rendere i costi provocati dalla tensioni di queste settimane ma soprattutto la Gran Bretagna divisa (i sondaggi dicono che un’eventuale vittoria del ‘remain’ sarebbe di misura) indebolirebbe il principale alleato a cui ci siamo appoggiati per oltre cinquanta anni per controbilanciare l’asse franco-tedesco in seno all’Ue.
Inoltre, altri Stati vorrebbero ottenere ciò che l’attuale Governo britannico ha avuto per convincere a votare per restare nell’Ue. Nella guerra dei birilli, quelli più deboli sono sempre quelli che soffrono di più e pagano lo scotto più alto. Non è improbabile che in un’Ue a geometria fortemente variabile ci venga dato l’onore, e l’onere, in quanto Stato fondatore, di guidare il Polo Sud (con Spagna, Portogallo, Grecia, Malta e Cipro). Se del caso con un euro-sud fluttuante attorno ad una parità centrale con un euro-aureo degli Stati con finanze solide ed alta produttività. Dalla prima andremmo in seconda classe che verrebbe chiamata, come nei treni eurostar, classe standard.
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