FINANZA E POLITICA/ La "trappola" pronta per l'Italia
Pubblicazione: lunedì 7 dicembre 2015
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Il 4 dicembre, per puro caso, si
sono tenute due presentazioni di documenti, rispettivamente a Villa Manin nel
Friuli, e nei locali del Cnel a Roma, in cui ricercatori che hanno lavorato
indipendentemente e senza neanche conoscersi e sapere che stavano trattando
temi analoghi, giungevano alle medesime conclusioni: per non parlare più di
decimali e assaporare l’inizio di una vera ripresa.
Si trattava di due documenti molto
differenti. A Villa Manin veniva presentati un pamphlet, curato da una
quindicina di autori, che rappresenta il “manifesto” del Centro Studi Impresa
Lavoro per una drastica revisione della politica tributaria e una vigorosa
riduzione della pressione ed oppressione fiscale. Al Cnel, si presentava il
quarantanovesimo Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese. Il Censis
è nato nel 1964. Il Centro Studi Impresa Lavoro solo diciotto mesi fa. Contano,
quindi, su tradizioni e risorse molto differenti. Il pamphlet di Impresa Lavoro
non raggiunge le 90 paginette. Il Rapporto Censis intende essere un documento
di consultazione e riferimento e, come sempre, è strutturato in otto corposi
capitoli per diverse centinaia di pagine.
Il messaggio, però, è simile: la
pressione e l’oppressione fiscale bloccano qualsiasi ripresa. Nel documento
Censis c’è un interessante dato sociologico: il 63% delle famiglie italiane
nella fascia di reddito netto tra i 2.500 e i 3.000 euro (quindi, piccola
borghesia) è favorevole a una riduzione delle tasse e delle imposte anche ove
ciò comporti una riduzione dei servizi pubblici. Servizi, per di più giudicati
in decadimento, specialmente in uno dei settori più vitali - quello della
sanità.
Non solo il rapporto Censis
testimonia di un’Italia in un “limbo”: ad esempio, le famiglie italiane
dispongono di una considerevole ricchezza finanziaria e immobiliare (anche
nelle fasce medio di basse di reddito), ma non investono in quanto cadute in
quella che si può chiamare “la trappola dell’incertezza”. Non solo negli ultimi
due anni hanno perso quel che era rimasto della certezza delle regole (dato che
leggi di stabilità approvate da un ramo del Parlamento vengono modificate, o ne
se ordina la modifica, con un tweet), ma istituti a tutti cari (come la
previdenza) sono diventati mira di bombe al plastico, lanciate da un piccolo
gruppo di paranoici monomaniaci, incidendo negativamente sulle poche certezze dei
pensionati attuali (e di quelli futuri che temono di avere riservato un
trattamento analogo in futuro). Quindi, la forte preferenza per la liquidità,
documentata del rapporto Censis e la stagnazione di quegli investimenti a lungo
termine che rappresentano la via obbligata per la ripresa, in quanto, nel breve
periodo agiscono sul tasso di utilizzazione della capacità attiva (e
dell’occupazione) e nel medio e lungo sulla produttività.
Il ministro dell’Economia e delle
Finanze conosce certamente i lavori sulla “flat tax”, esemplare quello di otto
anni fa dell’Università di Colonia (Iza Discussion Paper N. 3142) in cui si
dimostra come il successo della “flat tax” (un’aliquota unica, piuttosto bassa,
sgomberando il campo da agevolazioni, incentivi e tutti) nei Paesi
neo-comunitari dell’Europa centrale e orientale metta a repentaglio i
complicati (e pesanti) sistemi in altri Paesi Ue (come quello dell’Italia).
L’analisi indica che se introdotta in Germania, la “flat tax” potrebbe
aumentare le disuguaglianze di reddito (ove non accompagnata da una revisione
del welfare). Conclusioni analoghe si ricavano da simulazioni effettuate in
Olanda (Cesifo Working Paper N. 1890).
orgono tre interrogativi: a) sono i
sistemi tributari degli Stati della “vecchia” Ue a 15 a essere più o meno
efficienti, sotto il profilo economico e sociale oppure lo sono l’estensione e
le modalità di intervento pubblico in essi radicatosi?; b) gli Stati
neocomunatari a “flat tax” e poco welfare non finiranno per fare le scarpe agli
altri?; c) l’arma vincente non consiste nell’”affamare la bestia”, ossia
ridurre aliquote e gettito per imporre una marcia indietro della mano pubblica?
Alla prima domanda risponde uno
studio del ministero dell’Economia danese e dell’Università di Copenaghen
(Cesifo Working Paper n. 1859): ci piaccia o non ci piaccia, nell’Ue, un
coordinamento delle politiche tributarie è inevitabile e tale da comportare
vincitori e vinti . Alla seconda, un saggio del pensatoio liberale svedese
Timbro dimostra che proprio nell’Europa occidentale i Paesi con la mano
pubblica più tentacolare sono anche quelli dove l’esclusione sociale sta
crescendo più rapidamente. Questa ipotesi viene rafforzata da un lavoro della
Commissione europea ignorato in Italia, le previsioni al 2050 della
produttività del lavoro nell’Ue a 25 (prima che entrassero Bulgaria e Romania):
un rallentamento marcato nell’Ue in generale, ma soprattutto in quelli la cui
popolazione si invecchia, lo stato sociale è esteso e il sistema tributario
pesante. Una prova del 9 si ha, indirettamente, da uno studio dell’Università
Carlo III di Madrid (Cepr Discussion Paper n. 5812): negli Stati Uniti (dove il
welfare è leggero e la Pubblica amministrazione non è - per utilizzare i qualificativi
di Giuliano Amato - “impicciona” e “pasticciona”) i maggiori beneficiari di una
“flat tax” sarebbero proprio i più poveri.
La lezione è chiara: occorre ridurre
l’onere tributario e semplificarne la struttura - questo il significato della
“flat tax” (anche se non si va immediatamente ad aliquota unica ma si viaggia
verso di essa durante una fase di transizione). È fattibile se non si opera
preliminarmente dal lato della spesa, soprattutto di parte corrente. Per anni
si è creduto nella strategia (mai praticata in Italia) di imporre una riduzione
della spesa smettendo di alimentarla con gettito tributario. A raggelare questa
tesi, è venuto un saggio di Christina e David Romer dell’Università della
California a Berkeley (Nber Working Paper N. W 13548) in cui si dimostra (sia
tramite un’analisi econometrica comparat,a sia tramite lo studio di quattro
“episodi” effettivi di politica economica) che l’assunto non tiene: se non si
taglia prima la spesa pubblica meno produttiva, aumentano deficit e disavanzo
e, dopo un paio di esercizi, occorre aumentare di nuovo le tasse. Quindi, urge
chiedere ai Ministri della spesa di mettere le loro casse in ordine e dare
certezze agli italiani. Se non vogliamo entrare nel circolo vizioso: alte
tasse, alto welfare, bassa produttività, accresciuta concorrenza.
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