Fed, i tassi Usa salgono ma resteranno bassi. Ecco perché
I listini americani chiudono positivi con aumenti superiori all’1%, nonostante il calo del petrolio, sceso a 35,52 dollari al barile con l’aumento piu’ forte del previsto delle scorte petrolifere americane. Le piazze finanziarie europee sono gia’ chiuse quando la Fed annuncia la stretta. La seduta è stata fiacca nel Vecchio Continente. Quasi tutti i listini hanno chiuso in rialzo, fatta eccezione per Milano. Piazza Affari chiude in calo dello 0,29%.
L’aumento ”moderato” dei tassi ”riconosce i progressi dell’economia”, afferma Janet Yellen, sottolineando che la mossa mette fine a una ”fase straordinaria” della politica monetaria. Una fase iniziata nel 2008, l’ultima volta che i tassi sono stati toccati: allora alla guida della banca centrale c’era Ben Bernanke che, il 16 dicembre 2008, esattamente sette anni fa, aveva portato il costo del denaro ai minimi storici, a zero. Proprio Bernanke è stato l’ultimo a decidere un aumento dei tassi, nel giugno del 2006.
Comunque, i tassi resteranno bassi se non ci sarà un’impennata d’inflazione, ora non prevista, negli Stati Uniti. Lo dice la storia economica americana. Se prendiamo come indicatore i titoli di Stato decennali, dal 1876 al 1919 e dal 1924 al 1958 hanno avuto tassi inferiori al 4% l’anno. Ed in quegli anni l’inflazione è rimasta bassa, anche durante la Seconda Guerra Mondiale (a ragione dell’alto tasso di capacità produttiva inutilizzata durante la Grande Recessione). Il tasso medio del 7,3% tra il 1970 ed il 2007 viene giudicato ‘un’aberrazione’ dal Capo Economista del Global Financial Data Byron Taylor; a mio avviso, lo si spiega con il crollo del regime di Bretton Woods e le crisi petrolifere che incisero in maniera significata sul tasso di inflazione, e provocarono notevole incertezza. Ciò vuol dire che l’economia americana è in una fase simile a quella della fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento caratterizzata da crescita reale sostenuta ma bassa inflazione e leggere fasi di deflazione, a ragione dell’aumento di fattori di produzione (principalmente il lavoro a ragione dell’immigrazione) e dell’innovazione tecnologia. Oppure, agli Anni Cinquanta quando l’economia cresceva ma l’inflazione restava bassa a ragione di politiche fisco-monetarie restrittive, allentate durante la Guerra in Vietnam. Richard Sylla della New York University, noto anche in Italia per il suo monumentale lavoro A History of Interest Rates, sostiene che bassa inflazione e bassi tassi d’interesse devono essere considerati ‘normali’ nel contesto Usa. Tuttavia, molto dipende non tanto da quello che l’autorità monetaria fa (opera principalmente sui tassi a breve) ma da come la percepiscono operatori e risparmiatori. Se la Federal Reserve porta al 5% gli interessi a breve, nessuno bloccherà le proprie risorse finanziarie in titoli a dieci anni con un interesse al 2,2%.
Negli ultimi anni la Federal Reserve e le sue maggiori controparti, la Banca centrale europea e la Bank Japan, hanno messo in atto tutti gli strumenti possibili (anche politiche monetarie ‘non convenzionali’ come il Quantitative Easing) per portare il tasso d’inflazione al 2% del Pil, senza grande successo né nel breve né nel lungo periodo. Gli attuali tassi dì interesse americani sembrano ipotizzare un tasso d’inflazione dell’1,7% per i prossimi tre decenni. Non solo, documenti e ricerche della Federal Reserve sostengono che anche se i tassi di riferimento americani aumenteranno di un quarto di punto percentuale ogni trimestre nel 2016, non si tornerà ai tassi del periodo precedente la crisi iniziata nel 2007. Gli esperti della Federal Reserve ed i ‘money managers’ sui mercati dei capitali possono sbagliarsi: nel 2007 nessuno prevedeva il tracollo dei tassi (e dell’inflazione) che si è effettivamente verificato. Tuttavia, se tra qualche anno, tassi ed inflazione saranno significativamente più elevati di quanto non lo sono a fine 2016 dipende non tanto dall’azione della Federal Reserve di oggi quanto da determinanti molto più complesse quali i comportamenti di consumatori e produttori in una fase come l’attuale densa di incertezza economica, politica e sociale. Determinanti difficili da afferrare ed ancora più ardue da prevedere.
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