Banca Marche e Banca Etruria, che succede tra Renzi e Padoan?
Il commento (e qualche indiscrezione) dell'economista Giuseppe Pennisi
Il “pasticciaccio brutto” attorno a
quattro piccole banche, che sembrano avere fatto carne di porco con i risparmi
loro affidati, richiede un ragionamento più articolato di quanto appaia nelle
cronache giornalistiche.
In primo luogo, spesso le vicende
delle banche segnano quelle dei governi, ove non di stagioni politiche. Lo
scandalo della Banca Romana alla fine del diciannovesimo secolo segnò la fine
della “sinistra storica” e l’arresto della carriera politica di Giovanni
Giolitti. Negli anni Trenta del ventesimo secolo, fu l’antifascista Alberto
Beneduce a togliere la castagne dal fuoco a Benito Mussolini con la
creazione dell’Iri e dell’Imi e la legge bancaria del 1936. In tempi più
recenti, le crisi del Banco di Sicilia e del Banco di Napoli, risolte
tempestivamente prima che entrasse in vigore il Trattato di Maastricht,
aprirono la strada alla fine del pentapartito e di quella fase politica che
viene chiamata la Prima Repubblica. Si possono indicare numerosissimi casi
analoghi all’estero (si pensi all’affaire Stavisky nella Francia del
1934).
In secondo luogo, è difficile
congetturare un nesso tra la crisi delle quattro banchette e il futuro
dell’incipiente “regime renziano”. E’ però chiaro che lo scambio di accuse tra
Roma e Bruxelles toglie qualsiasi illusione (a chi l’ha nutrita) sulla supposta
“luna di miele” tra il Napoléon Le Petit italiano e le autorità
comunitarie che esamineranno, con il rigore del caso, i nostri conti pubblici.
E’ anche evidente che i rapporti tra Palazzo Chigi e Via Venti Settembre, ove
fossero mai stati buoni, non potranno essere quali sarebbero necessari per una
politica economica efficace in cui il Presidente del Consiglio si limita a
coordinare e ciascun Ministro opera nel campo delle proprie competenze con la
necessaria autonomia.
A Roma è vox populi che Via
Venti Settembre (che dispone di una Direzione Generale all’uopo) avrebbe agito più
tempestivamente (ossia prima dell’entrata in vigore direttiva europea sul bail
in di detentori di obbligazioni subordinate) e seguendo una strada
differente da quella voluta dal dipartimento economico di Palazzo Chigi. Da
quando Giovanni Spadolini, nel 1980, tentò di dare a Palazzo Chigi un
ufficio economico (il tentativo più ambizioso fu quello di Massimo D’Alema),
tali strutture (spesso composte da malcapitati mal assortiti) non hanno mai
funzionato bene ed hanno spesso ingenerato confusione. Lo posso dire per
esperienza personale dato che ho fatto parte di una di esse.
In terzo luogo, le regole europee
erano note da tempo. Non è piacevole citare se stessi ma ho scritto un capitolo
del libro collettaneo Towards the European Banking Union curato da Emilio
Barucci e da Marcello Messori e pubblicato da Passigli Editore nel
2014 e un saggio più ampio uscito su una rivista internazionale lo scorso
giugno. Allora mancava la co-approvazione da parte del Parlamento
Europeo, ma il quadro era chiarissimo. Né a livello tecnico né a livello
politico nessun rappresentante dell’Italia ha presentato contro-proposte
(alcune alternative sono nei due lavori citati). Soprattutto i componenti
italiani del Parlamento Europeo non hanno presentato nessun emendamento.
Quindi, sarebbe stato opportuno (come avrebbero voluto fare Via Venti Settembre
e Via Nazionale) affrontare e risolvere il problema prima della loro entrata in
vigore (in Italia) lo scorso settembre. Non si sarebbe dato adito a pensare che
si è voluto dare tempo a qualche “uom possente” (Verdi-Boito Simon
Boccanegra, atto primo quadro secondo) di mettere se stesso (e capitali?)
al riparo.
Certo c’è stato molto
pressappochismo e molta cialtroneria ed una buona dose di dabbenaggine.
Tuttavia, non è illogico pensare che ci siano aspetti che debbano interessare
la giustizia penale. Le cui indagini potrebbero segnare il fato di un regime.
13/12/2015
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