I timori per le società immobiliari e
quelli per i Paesi emergenti suggeriscono di andarci piano
Oggi i tassi Usa cambieranno rotta: dopo anni
di discesariprenderanno a salire, verosimilmente dello 0,25%. Aumenteranno – si
dice nei corridoi di Constitution Ave di Washington (dove alloggiano le
autorità monetarie americane) – per «inerzia e stanchezza». Sono sei mesi,
infatti, che la loro presidente Janet Jellen annuncia un cambiamento di rotta,
peraltro già messo in conto dai mercati (e privo quindi di conseguenze
immediate). Non far seguire alle parole i fatti, causerebbe loro una 'perdita
di credibilità' e potrebbe provocare perdite finanziare a chi ha creduto alle
loro indicazioni.
La motivazione principale è il basso tasso di
disoccupazione (la quota dei senza lavoro è oggi 5%) e il timore che esso possa
innescare inflazione. Se dalle date indicate per la svolta della politica
monetaria americana si passa ai dati sorgono perplessità. In primo luogo, il tasso
di disoccupazione è fermo da mesi al 5% (mentre il numero degli occupati
aumenta): ciò vuol dire che c’è ancora capacità di lavoro inutilizzata, perché
coloro che si erano scoraggiati negli anni di crisi stanno tornando alla
ricerca di impieghi. In secondo luogo, il tasso d’inflazione è solo allo 0,2%,
in gran misura a ragione del crollo dei prezzi delle materie prime, o all’1,3%,
se dal computo si tolgono i prezzi dell’energia e dei generi alimentari,
entrambe voci particolarmente volatili. Insomma, si è ancora lontani
dall’obiettivo di un tasso d’inflazione del 2% l’anno. Dunque si potrebbe
attendere. Anzi il New York Times il 14 dicembre
ha aperto con una lunga inchiesta sui timori che l’ormai scontato aumento dei
tassi causa negli Stati del MidWest, preoccupati da un crollo dell’edilizia,
molto sensibile ai tassi.
Comunque, come detto, i mercati finanziari
hanno già 'scontato' gli effetti del rialzo e, nel breve periodo, non
dovrebbero avere implicazioni. Da valutare con cura, invece, il documento tecnico
di Janet Yllen, su cui alcuni componenti del Federal Open Market Committee
hanno già espresso riserve, secondo il quale l’aumento di oggi sarebbe solo
l’antipasto: nel 2016 ogni tre mesi il costo del denaro negli Stati Uniti
crescere dello 0,25%. Non solo occorrerà valutare con attenzione i dati su
occupazione e prezzi negli Usa, ma bisognerà anche riflettere sugli effetti
internazionali.
Una politica monetaria restrittiva negli Usa,
potrebbe comportare un deprezzamento del dollaro con conseguenze limitate sui
mercati asiatici (troppo avviluppati nei loro problemi attorno) e sull’unione
monetaria europea. Non solo per il deprezzamento del dollaro rispetto all’euro,
che frenerebbe l’export di Paesi dell’eurozona che su esso contano per uscire
dalla crisi, ma anche perché per i grandi flussi dei capitali il mercato
atlantico è abbastanza integrato e politiche monetarie asimmetriche potrebbero
essere gravide di conseguenze. Spostando investimenti oltre-Atlantico.
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