mercoledì 16 dicembre 2015

I timori per le società immobiliari e quelli per i Paesi emergenti suggeriscono di andarci piano in Avvenire 16 dicembre



I timori per le società immobiliari e quelli per i Paesi emergenti suggeriscono di andarci piano
Oggi i tassi Usa cambieranno rotta: dopo anni di discesariprenderanno a salire, verosimilmente dello 0,25%. Aumenteranno – si dice nei corridoi di Constitution Ave di Washington (dove alloggiano le autorità monetarie americane) – per «inerzia e stanchezza». Sono sei mesi, infatti, che la loro presidente Janet Jellen annuncia un cambiamento di rotta, peraltro già messo in conto dai mercati (e privo quindi di conseguenze immediate). Non far seguire alle parole i fatti, causerebbe loro una 'perdita di credibilità' e potrebbe provocare perdite finanziare a chi ha creduto alle loro indicazioni.
La motivazione principale è il basso tasso di disoccupazione (la quota dei senza lavoro è oggi 5%) e il timore che esso possa innescare inflazione. Se dalle date indicate per la svolta della politica monetaria americana si passa ai dati sorgono perplessità. In primo luogo, il tasso di disoccupazione è fermo da mesi al 5% (mentre il numero degli occupati aumenta): ciò vuol dire che c’è ancora capacità di lavoro inutilizzata, perché coloro che si erano scoraggiati negli anni di crisi stanno tornando alla ricerca di impieghi. In secondo luogo, il tasso d’inflazione è solo allo 0,2%, in gran misura a ragione del crollo dei prezzi delle materie prime, o all’1,3%, se dal computo si tolgono i prezzi dell’energia e dei generi alimentari, entrambe voci particolarmente volatili. Insomma, si è ancora lontani dall’obiettivo di un tasso d’inflazione del 2% l’anno. Dunque si potrebbe attendere. Anzi il New York Times il 14 dicembre ha aperto con una lunga inchiesta sui timori che l’ormai scontato aumento dei tassi causa negli Stati del MidWest, preoccupati da un crollo dell’edilizia, molto sensibile ai tassi.
Comunque, come detto, i mercati finanziari hanno già 'scontato' gli effetti del rialzo e, nel breve periodo, non dovrebbero avere implicazioni. Da valutare con cura, invece, il documento tecnico di Janet Yllen, su cui alcuni componenti del Federal Open Market Committee hanno già espresso riserve, secondo il quale l’aumento di oggi sarebbe solo l’antipasto: nel 2016 ogni tre mesi il costo del denaro negli Stati Uniti crescere dello 0,25%. Non solo occorrerà valutare con attenzione i dati su occupazione e prezzi negli Usa, ma bisognerà anche riflettere sugli effetti internazionali.
Una politica monetaria restrittiva negli Usa, potrebbe comportare un deprezzamento del dollaro con conseguenze limitate sui mercati asiatici (troppo avviluppati nei loro problemi attorno) e sull’unione monetaria europea. Non solo per il deprezzamento del dollaro rispetto all’euro, che frenerebbe l’export di Paesi dell’eurozona che su esso contano per uscire dalla crisi, ma anche perché per i grandi flussi dei capitali il mercato atlantico è abbastanza integrato e politiche monetarie asimmetriche potrebbero essere gravide di conseguenze. Spostando investimenti oltre-Atlantico.

Nessun commento: