Opera.
A Palermo il “Sigfried” di Vick si perde
il trascendente wagneriano
PALERMO
Centrale alla tematica di Wagner è il contrasto
nel mondo germanico nella fase di trapasso dal politeismo nordico (di origine
scandinava) al cristianesimo. È argomento di fondo non solo del monumentale
L’anello dei Nibelunghi ( Ring des Nibelungen), ma anche di Tannhäuser, Lohengrin e
Parsifal, nonché di L’agape
degli Apostoli ( Das Liebesmahl der Apostel), oratorio raramente eseguito in Italia.
Nel Siegfried (
Sigfrido), terza opera del Ring in scena a Palermo sino al 29 dicembre, il re degli dèi germanici è
ridotto ad un anziano viandante alla ricerca di chi potrà salvare lui ed il
politeismo, ma il giovane eroe che incontra nella foresta gli spezza l’ultimo
simbolo del potere (la lancia) preparando il Crepuscolo degli dèi, quarta ed ultima opera della tetralogia.
È quindi uno snodo cruciale dell’intero lavoro.
Sotto il profilo musicale, tra la prima e la seconda scena del terzo atto
Wagner, convinto di che non sarebbe mai riuscito a completare il progetto,
interruppe per dodici anni di lavorarci e compose nel frattempo
Tristano e Isotta e I maestri
cantori di Norimberga. I 45 minuti del finale di
Siegfried non solo metabolizzano questi due capolavori, ma
anticipano di diversi decenni il cromatismo, le dissonanze ed altri aspetti
della Seconda scuola di Vienna dell’inizio del Novecento, con uno stacco netto
rispetto al resto dell’opera.
Bene ha fatto il Teatro Massimo di Palermo ad
affidare la direzione musicale a Stefan Anton Reck, assistente di Claudio
Abbado dal 1997 al 2000 e oggi riconosciuto tra i massimi conoscitori della
musica di Mahler e della Seconda scuola di Vienna, nonché ottimo direttore di
precedenti Ring (in Italia a Catania ed a Bari).
L’opera è letta con uno sguardo contemporaneo a
ragione della regia di Graham Vick che, come nelle altre due opere del ciclo (
L’oro del Reno e La Valchiria, già messe in scena a Palermo), attualizza il testo ai nostri
giorni. Vick, però, non è interessato alla dimensione trascendente del lavoro
ma a rappresentare una élite decrepita nel cui ambito il giovane Sigfrido
matura da adolescente inquieto (non sa, ad esempio, chi sono i suoi genitori e
non ha mai visto una donna) a uomo che fa di Brunilde la sua “ heilige
braut” (“sacra sposa”). La regia eccede in certi punti del
primo atto (per dargli una teatralità che manca al libretto) ma scorre in modo
avvincente e con trovate originali e ben centrate nel secondo e nel terzo atto.
L’orchestra risponde bene agli stimoli di Reck.
Il cast vocale è della buona qualità media che ci si aspetta in teatro tedesco
di repertorio. Ma ineguale. Ottimi, sia come attori sia come cantanti, Peter
Bronder (Mine) e Thomas Gazheli ( Wotan). Di buon livello Sergej Leiferkus
(Alberich). Deliziosa Deborah Leonetti (Uccello del bosco). Il protagonista ha
un ruolo impervio (tre ore e mezza sempre in scena) e la regia lo fa cantare
tra esercizi ginnici e capriole: alla prima Christian Voigt era forse
indisposto ma è stato un Sigfrido pallido con poco volume ed un’insoddisfacente
intonazione. Meagen Miller (Brunilde) ha un’unica lunga scena con il futuro
sposo: la ha sviluppata bene, ma probabilmente avrebbe reso meglio con un
partner più in forma.
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Il contrasto tra il politeismo nordico e il
cristianesimo, argomento di fondo del “Ring”, si dissolve nella regia
attualizzante che ha debuttato venerdì al Teatro Massimo Delude il tenore Voigt
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