Gli effetti collaterali del piano di
acquisti sulle disuguaglianze
AFrancoforte, in attesa della riunione del
Consiglio della Banca centrale europea del 3 gennaio, l’aria si può tagliare a
fette. È in effetti l’ultima riunione del 2015 'dedicata alla politica
monetaria' e i temi principali su cui si confronteranno i membri del Consiglio
sono essenzialmente due: il futuro delle politiche monetarie 'non
convenzionali' (essenzialmente il Quantitative Easing) e come riportare il tasso d’inflazione a circa il 2% l’anno.
Sul secondo argomento non c’è una proposta
specifica ma un dibattito a livello internazionale. Economisti di varie scuole
e tendenze non hanno una ricetta per rilanciare domanda aggregata e, di
conseguenza, salari e prezzi; tanto più che, sottolinea uno studio appena
diffuso
online di Tito Boeri, attuale
presidente dell’Inps, e Juan F. Jimeno del Banco di España, le divergenze tra
tassi di disoccupazione e prassi di funzionamento dei mercati del lavoro nella
zona euro sono forti e si stanno approfondendo ancora di più. L’unica medicina
consisterebbe in un forte deprezzamento dell’euro. Ma ciò è anatema per
numerosi governi dell’area.
Sul primo punto il management della Bce propone di ampliare le dimensioni quantitative del QE.
(acquisto di titoli degli Stati membri) e di estenderne la durata. Tuttavia,
sulla proposta non c’è affatto consenso. Alle obiezioni tradizionali di alcuni
Paesi nordici (secondo cui politiche monetarie non convenzionali snaturerebbero
la natura di 'guardiano della stabilità' della Bce), se ne aggiungono altre due
da parte dei 'delusi' dal QE. In primo luogo le misure 'non convenzionali' non
sembra giungano facilmente alle imprese e all’occupazione ma paiono restare
troppo spesso nelle casseforti delle banche. A questa obiezione 'europea' si
può rispondere che nell’eurozona l’esperienza è solo di pochi mesi, quindi non
basta per poterne toccare con mano gli effetti. C’è però un’altra critica:
l’esperienza americana, dove le misure 'non convenzionali' sono iniziate nel
2008 e sono state molto più consistenti di quelle europee, dimostrerebbe che il
QE ha sì contributo al rilancio dell’economia (negli Stati Uniti il tasso di
disoccupazione è sceso al 5% e il Pil cresce al 2,5-3% l’anno) ma al costo di
un aumento delle disuguaglianze. A riguardo c’è una fioritura di documenti
tecnici. Il lavoro più equilibrato (e meno ideologico) pare essere quello di
Juan Antonio Montecino e Gerald Epstein – ambedue della University of
Massachusetts ad Ahmers. La conclusione a cui sono arrivati è che, pur se
leggermente, il QE. ha favorito la finanza ed aggravato le differenze di
reddito e ricchezza tra fasce sociali.
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