Il critico
Ribaltati i luoghi comuni
Trent’anni fa la scrittrice Catherine Clément,
allieva di Claude Lévi Strauss, pubblicò per i tipi di Grasset un libro di
successo in Francia (e non solo): Opéra ou la défaite des femmes (“L’opera ovvero la disfatta delle donne”).
L’Italia è stato uno dei pochi Paesi dove, che
io sappia, non è giunto in traduzione; eravamo già più emancipati dei nostri
cugini francesi. Il volume è un’interpretazione della librettistica – dalle
origini al Novecento – per dimostrare come nel teatro in musica le donne siano
costantemente vittime: termina con un «elogio del paganesimo» poiché la
determinante sottostante della “disfatta” sarebbe la religione che, declinata
in più maniere, vuole la donna «sottoposta», «sottomessa» e «sconfitta» anche
sulla scena e nel golfo mistico. Per mera coincidenza esce in un libro
collettaneo ( Antinomies of arts and culture,
Duke University Press) un saggio di uno dei maggiori specialisti di arte
cinese, Gao Minglu, ora all’Università di Pittsburg ( Particular
time, specific space, my truth) confuta l’assunto: neanche
in Cina (dove la donne hanno guadagnato l’accesso all’indipendenza economica e
all’istruzione superiore molto più tardi che in Europa e in America) nelle
arti, e in quelle sceniche in particolare, sono mai rimaste indietro: né nella
cultura tradizionale, né nella modernizzazione in corso in varie forme e guise
sin dagli anni Venti. E sono state le religioni a contribuire in misura
determinante alla loro “liberazione”. Senza scomodare le analisi di Gao Minglu,
basta andare alla Scala domenica per ascoltare e vedere uno spettacolo, il
Fidelio di Beethoven, che smentisce apertamente la
Clément, le cui congetture hanno una loro validità ascoltando e vedendo le
ultime opere delle stagioni 2013-14 del San Carlo ( Salome di Strauss) e del Comunale di Bologna ( Lady Macbeth del
Distretto di Mcensk di Šostakovic. La prima (di cui
abbiamo parlato su queste colonne lo scorso 25 novembre) è una giovanissima
femme fatale divenuta tale a ragione di
Erode e degli erodiani che la incitano al delitto e, poi, la uccidono. La
seconda (ancora in scena nella città felsinea) diventa una serial killer e
viene infine gettata nel fiume ghiacciato a ragione delle violenze inflittale
da suocero, marito ed amante. Non per nulla ambedue i titoli sono stati
proposti in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della
violenza contro le donne. Totalmente differente Leonora, la protagonista di
Fidelio o dell’amore coniugale di
Beethoven.
Ricorre all’astuzia (travestendosi da ragazzo,
per l’appunto Fidelio) e al coraggio (scendendo nei bassifondi delle prigioni e
tirando la pistola fuori dalla fondina al momento per giusto) per liberare (in
un esaltante sol maggiore) il proprio marito e i prigionieri politici di un
tirannello di provincia. Non è un caso che la versione definitiva dell’opera
sia molto più energica della precedente (intitolata Leonore e vista ed ascolta a Bologna alcuni anni fa) e venga rappresentata
alla Scala nel venticinquesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino.
Un muro, però, che esiste ancora contro le donne in varie parti del mondo, come
ci ricordano Salome e
Lady Macbeth del Distretto di Mcensk.
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Leonore con astuzia e coraggio libera il
proprio marito dal tiranno E smentisce la francese Clément sulla “disfatta”
delle donne nella musica, “sottomesse” per colpa della religione A confutare
l’assunto è anche uno dei maggiori specialisti di arte cinese, Gao Minglu: la
fede le ha liberate
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