martedì 23 dicembre 2014

Perché Puccini indossò la camicia nera . . in La Nuova Antologia ott dic 2014

anno 149°
Nuova Antologia
Rivista di lettere, scienze ed arti
Serie trimestrale fondata da
Giovanni Spadolini
Ottobre-Dicembre 2014
Vol. 613° - Fasc. 2272
Le Monnier – Firenze
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del P residente della Repubblica, Sandro P ertini, il 23 luglio 1980, erede universale di Giovanni
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S O M M A R IO
Il Direttore, Verso il 150° anno di «Nuova Antologia» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .     5
Gli elzeviri del giovane Spadolini (II), a cura di Gabriele P aolini. . . . . . . . . . . . . . . .     8
Federico Mazzei, Cattolicesimo e democrazia nel Luigi Sturzo di Mario Ferrara. 33
Enrico Ghidetti, Genio e follia: di alcune circostanze del caso Campana. . . . . .     52
Enzo Scotto Lavina, Paolo Valmarana, trent’anni dopo. . . . . . . . . . . . . . . . . . .     82
Cosimo Risi, Sulla questione ebraica. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .     87
Scienza e politica, p. 90; Shoah come tratto fondante, p. 91; La via della pace, p. 92.
Antonio Zanfarino, La cultura liberale e democratica di Spadolini . . . . . . . . . .     94
1. V alori e mediazioni, p. 94; 2. I ntellettualismo e ragione storica, p. 96; 3. E tica del Risorgimento,
p. 98; 4. Libertà e riforme, p. 100; 5. Laicità e religiosità, p. 103.
Alfredo Barberis, Ricordo di Dino Buzzati. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .     106
Umberto Cecchi, Torna la morte come spettacolo e imperversa
su TV e Internet . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .     111
Sandro Rogari, Questione romana, questione nazionale e questione militare
nel trasferimento della capitale a Firenze. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .     125
Paolo Bagnoli, Mario Delle Piane e il Partito d’Azione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .     140
Ermanno Paccagnini, Rivisitazioni e reincontri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .     153
Maurizio Sessa, Un’amicizia indivisibile: Franco Calamandrei scrive
a Giorgio Baccetti. Due diverse occasioni di vivere . . . . . . . . . . . . . . . . . .     171
Stefano Folli, Diario politico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .     209
Annarita Briganti, Non chiedermi come sei nata,
intervista a cura di Caterina Ceccuti. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .     227
Giuseppe Pennisi, Perché Puccini indossò la camicia nera . . . . . . . . . . . . . . . .     238
Premessa, p. 238; Gli esordi, p. 240; Manon Lescaut, p. 243; La Bohème e La fanciulla del
West, p. 246; Tosca e Madama Butterfly: il rifiuto della democrazia liberale ed il razzismo,
p. 248; La Rondine e Il Trittico – Fuga dalla Grande Guerra, p. 251; Turandot – L ’approdo,
p. 253.
Teresa Megale, Per una drammaturgia nazionale delle maschere:
Eduardo De Filippo e il teatro di e con Pulcinella. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .     255
1. Palummella zompa e vola (1954), p. 257; 2. I l Pulcinella eduardiano da N apoli a Milano
a P arigi, p. 261; 3. D a Sabato, domenica e lunedì a Il figlio di Pulcinella, p. 263.
Giorgio Giovannetti, Giuseppe De Rita, il sociologo delle cose . . . . . . . . . . . . .     267
Alberto Signorini, Divenire e forma nel pensiero di Friedrich Nietzsche. . . . . . .     275
Arturo Colombo, Emilo Visconti Venosta. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 285
Paolo Bonetti, Liberalismi in conflitto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .     290
Il liberalismo fra etica, ideologia e politica, p. 290; Gli apostoli del liberismo, p. 297;
Liberalismo senza teoria, p. 300.
Gian Luigi Rondi, Italiani a Venezia altri dovunque . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .     303
Maurizio Naldini, Mari, maree, tsunami . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .     311
Angelo Varni, Lo storico dell’Italia contemporanea. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .     320
Ferruccio De Bortoli, Il direttore del «Corriere della Sera». . . . . . . . . . . . . . . . .     327
Maria Clara Avalle, Alessandro Galante Garrone maestro e amico . . . . . . . . . .     331
Rosa Maria Galleni Pellegrini, Le Poesie satiriche del «deputato operaio»
Antonio Maffi, imitatore di Parini. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .     339
Giancarlo Elia Valori, Salute e demografia. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 351
Mauro Ruggiero, Massoneria e letteratura italiana tra Ottocento
e Novecento. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 358
Rassegne . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .     373
Giuseppe Brescia, Il senso del celeste: Galilei e Margherita Hack, p. 373; A rturo Colombo,
Torna Ernesto Rossi, p. 375.
Recensioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .     377
B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale. Teoria e storia, nota
al testo ed apparato critico a cura di Felicita A udisio, di Fulvio Janovitz, p. 377; G. Millevolte,
Settant’anni di libri per l’educazione – Catalogo storico delle edizioni Carabba per
la scuola e la gioventù (1879-1950). La scomposizione del centrodestra e la crisi del bipolarismo,
di Renzo Ricchi, p. 379; R. D workin, Religione senza Dio, di Claudio Giulio
Anta, p. 384; G. Russo, Nella Terra Estrema. Reportage sulla Calabria, di Filippo Senatore,
p. 386; G. D ossetti – D . Barsotti, La necessità urgente di parlare, di Francesco P istoia, p. 387.
L’avvisatore librario, di Aglaia Paoletti Langé . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .     392
Indice dell’annata. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .     396
Premessa
Molto è stato scritto, anche su «Nuova Antologia», sulla partecipazione
di Giuseppe Verdi in politica e sul suo pensiero relativamente alle istituzioni
ed ai soggetti politici. Su Gioacchino Rossini le opere e l’epistolario rivelano
aspetti interessanti della sua partecipazione «a distanza» all’evoluzione
politica in Italia, specialmente nei lunghi anni in cui la osservava
dalla sua residenza a Parigi. La pubblicistica ha, invece, trattato molto poco
del pensiero politico e del ruolo di Giacomo Puccini, anche se la sua
esistenza (1858-1924) si è estesa in un periodo cruciale dell’Unità d’Italia:
il passaggio dai governi della Destra Storica a quelli della Sinistra, al Trasformismo,
alla Grande Guerra, ai moti ad essa successivi, all’avvento ed
all’affermarsi del fascismo. Una serie di eventi, anzi una vera e propria
evoluzione fondante dell’unificazione della nazione, a cui è difficile pensare
che il compositore restasse insensibile e non prendesse posizioni, per
quanto avesse deciso di vivere nella piccola Torre del Lago ed avesse un’ottica
internazionale (il palcoscenico dei suoi maggiori successi era il Metropolitan
di New York, unitamente al Colón di Buenos Aires).
Una dozzina di anni fa, Stefano Biguzzi, un violinista che esercita anche
la professione di storico della musica, ha dedicato un libro ai rapporti tra
musicisti e fascismo 1, ed, in questo contesto un capitolo all’interazione
(necessariamente breve dato che Puccini morì due anni dopo la formazione
del governo Mussolini) tra il compositore ed il Partito nazionale fascista
(PNF). Si apprende che Puccini aveva la tessera n. 2 del PNF di Viareggio,
1 S. Biguzzi, L’Orchestra del Duce – Mussolini, la Musica ed il mito del Capo, UTET, Torino, 2013.
Musica e politica
Perché puccini indossò
la camicia nera
Perché Puccini indossò la camicia nera 239
che fu uno dei primi musicisti ad avere nel 1923 udienza a Palazzo Venezia
non per mera cortesia ma per esporre un progetto di maggiore diffusione
all’estero del teatro lirico italiano; il programma, composto da due distinti
progetti, era uno schema grandioso a cui Mussolini rispose sottolineando
che l’Italia, almeno al momento, non aveva le risorse. Tuttavia, su iniziativa
del Capo del Governo, Puccini venne nominato senatore del Regno il 18
settembre 1924, solo poche settimane prima della morte a Bruxelles il 29
novembre 1924. Alla scomparsa di Puccini, Mussolini, sempre molto abile
nell’utilizzazione della comunicazione e dei media, esaltò, in discorsi, come
il compositore «volle compiere questo gesto di adesione (la tessera del PNF)
a un movimento, che è discusso, e discutibile, ma che è anche l’unica cosa
viva che ci sia oggi in Italia».
Al di là dell’utilizzazione, o meglio strumentalizzazione, che Mussolini
fece di un Puccini morto troppo presto per un’effettiva partecipazione alla
politica (anche solo musicale) del fascismo, il libro di Biguzzi ricorda come
in una lettera ad un caro amico, sin dal 1898 (vivo il ricordo degli scandali
finanziari innescati dalle vicende della Banca Romana e fresco quello della
sconfitta ad Adua), in risposta alla richiesta di supporto elettorale per un
comune amico, Puccini rispose che non sarebbe andato alle urne: «Io abolirei
Camera e Deputati tanto mi sono uggiosi questi eterni fabbricanti di
chiacchiere». Ancora più chiaro il suo epistolario che, alla fine del periodo
giolittiano, esplicitava qualche dubbio: «Qui i fascisti, come tu saprai, vogliono
il potere; vedremo se riusciranno a rimettere questo nostro e grande Paese
in ordine ma lo temo». Solo pochi mesi più tardi, subito dopo la marcia
su Roma, era improntato al maggior ottimismo: «E Mussolini? Sia quello che
ci vuole! Ben venga se svecchierà e darà un po’ di calma al nostro Paese».
Ed ancora, poche settimane prima di morire: «Io sono per lo Stato
forte. A me sono sempre andati a genio uomini come Depretis, Crispi e
Giolitti perché comandavano e non si facevano comandare. Ora c’è Mussolini
che ha salvato l’Italia dallo sfacelo. La Germania era lo Stato meglio
governato, che avrebbe dovuto servire da modello agli altri. Non credo alla
democrazia perché non credo alla possibilità di educare le masse. È lo stesso
che cavar l’acqua con un cesto. Se non c’è un Governo forte con a capo
un uomo dal pugno di ferro come Bismarck, una volta in Germania, come
Mussolini adesso in Italia, c’è sempre il pericolo che il popolo, il quale non
sa intendere la libertà se non sotto forma di licenza, rompa la disciplina e
travolga tutto. Ecco perché sono Fascista. Ecco perché spero che il fascismo
realizzi in Italia, per il bene del Paese, il modello germanico d’anteguerra».
Non sapremo mai se Puccini avrebbe aderito al Manifesto degli Intellettuali
Fascisti stilato da Giovanni Gentile nel 1925, quindi dopo la morte del
240 Giuseppe Pennisi
compositore. Forse non lo avrebbe fatto perché Gentile paragonava il fascismo
ad una «fede religiosa», mentre ricerche recenti indicano che, contrariamente
alla vulgata corrente secondo cui il compositore sarebbe sempre stato
agnostico, egli fu un cattolico credente anche se poco praticante 2. Sembra
difficile, però, una sua possibile adesione al Manifesto degli Intellettuali Antifascisti
redatto da Benedetto Croce proprio perché articolato sulla «sollecitazione
della libertà, forza e garanzia di ogni avanzamento». «Libertà», il cui
concetto stesso pare lasciasse Puccini perplesso poiché, come accennato,
pensava si coniugasse con «licenza», ove non fosse un suo sinonimo.
I maggiori studiosi di Puccini 3 non hanno trattato questo tema principalmente
perché interessati al contributo del compositore alla storia della
musica ma anche, forse, per lasciare questo aspetto in ombra in decenni in
cui essere stato fascista aveva una forte connotazione negativa. Lo stesso
Biguzzi spiega l’infatuazione del compositore per il fascismo e per il suo
leader come frutto di una natura borghese, essenzialmente qualunquista ma
soprattutto amante dell’ordine, essenziale per il suo meticoloso e lento lavoro.
All’ammirazione per la Germania anteguerra avrebbero anche contribuito
i ricchi introiti derivanti dalla rappresentazione delle sue opere nei
teatri tedeschi – introiti cessati, o almeno interrotti, con lo scoppio del
Primo conflitto mondiale.
In questo articolo mi propongo di esaminare il lungo viaggio di Puccini
verso il fascismo (a cui senza dubbio approdò non per ragioni opportunistiche
come fecero altri musicisti alla corte del duce) non tramite documenti
inediti d’archivio – sono stati esplorati a fondo da Biguzzi – ma attraverso
le sue opere, dalla scelta dei libretti alla musica. L’articolo si sofferma
specialmente su Manon Lescaut poiché contiene tutti i principali elementi
dell’evoluzione politica futura del compositore.
Gli esordi
Mentre negli esordi di altri compositori dell’Ottocento, anche e soprattutto
del tardo Ottocento, le tematiche politico-sociali hanno rilievo (si
pensi a Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni, peraltro compagno di
studi di Puccini), nella comparativamente lunga iniziazione di Puccini ver-
2 O. De Ranieri, La religiosità in Puccini, Zecchini Editore, Varese, 2013.
3 M. Bortolotto, La Signora Pinkerton una e due, in La consacrazione della casa, Adelphi, Milano,
1982; J. Budden, Puccini, Carocci, Roma, 2005; A. Cantù, L’universo di Puccini: da Le Villi a Turandot,
Zecchini Editore, Varese, 2008; M. Girard i, Giacomo Puccini: l’arte internazionale di un musicista
italiano, Marsilio, Venezia, 1995; G. Musco, Musica e teatro in Puccini, Calosci, Cortona, 1989; E. Siciliano,
Puccini, Rizzoli, Milano, 1976.
Perché Puccini indossò la camicia nera 241
so i primi veri successi, la politica italiana ed europea e gli argomenti sociali
sono lontani. Per l’«agnostico» lucchese il primo lavoro di un certo peso
è una Messa a quattro voci che gli valse l’ammissione al Conservatorio di
Milano dove avrà come docente, dopo un primo periodo sotto la guida di
altri, quell’Amilcare Ponchielli, autore dell’unica opera del grand opéra
padano ancora in repertorio (La Gioconda). Il saggio di fine corso, Capriccio
Sinfonico, fu molto apprezzato e ne parlò anche la stampa come di un
lavoro di eccezionale maturità per un giovane 4. In effetti per il giovane
lucchese, il quale, trasferitosi a Milano e lontano dalla famiglia, per la prima
volta era alle prese con vere ristrettezze economiche, le preoccupazioni
principali erano inserirsi nel mondo musicale della principale città del Nord
Italia ed iniziare una carriera.
Erano gli anni in cui si considerava superato – oggi si direbbe, in tono
molto meno elegante, «rottamato» – il melodramma verdiano, nonostante
il Maestro con pochi ma ben assestati colpi di coda (Otello e Falstaff) avrebbe
dimostrato di essere ancora il più moderno di tutti, e si era alla ricerca
di una nuova strada. C'era chi, come Arrigo Boito, cercava una trasposizione
italiana degli stilemi wagneriani. Chi, invece, come la più parte dei
compositori che ruotavano su Milano, abbracciava forme di grand opéra,
dimenticando quasi che il caposcuola Meyerbeer era morto nel 1864 e le
sue sei principali opere venivano raramente rappresentate perché richiedevano
risorse di cui i teatri italiani non disponevano, con il risultato che le
produzioni, in traduzione ritmica, contenevano forti tagli.
In cosa consisteva il genere (che ebbe notevole successo per oltre tre
lustri)? Si era in uno dei rari periodi in cui la «musa bizzarra ed altera»
(ossia la lirica) era, in Italia, puramente commerciale, con guerre tra editori
(e tra teatri) alla ricerca di nuovi talenti e di nuove strade che attirassero
un pubblico sempre più borghese.
Nella Padania (ossia tra Torino e Bologna avendo come punto di riferimento
La Scala ed il Dal Verme di Milano) nacque un genere che mutuava
elementi dal grand opéra francese (allora ormai superato) e dal wagnerismo,
che, dopo la prima italiana del Lohengrin, influiva anche sui compositori
che si opponevano alle teorie del sassone sulla «musica dell’avvenire».
Il grand opéra padano aveva alcune sue caratteristiche: intrecci complicati
in terre lontane (vediamo alcuni titoli: I Lituani di Ponchielli, Guarany di
Gomes, Ruy Blas di Marchetti, I Goti di Gobatti) che consentivano di coniugare
ballo con canto e davano la stura a «effetti speciali» (incendi, battaglie,
crolli di castelli e palazzi); si completava il superamento nei «nume-
4 W. Weaver, Puccini, the Man and his Music, Metropolitan Opera Guild, New York, 1977.
242 Giuseppe Pennisi
ri chiusi» privilegiando tableau con sinfonismo continuo. A questi due
elementi – il primo d’origine francese, il secondo d’ispirazione wagneriana
– si aggiungeva il perbenismo di un’Italia in via di diventare umbertina ed
in cui la borghesia padana aveva la consapevolezza di responsabilità e doveri
speciali nell’amalgamare le culture degli staterelli su cui si costruivano
le ambizioni di un nuovo Stato proteso ad entrare nel novero delle Grandi
Potenze (per utilizzare il lessico dell’epoca) 5.
Mentre La Gioconda di Ponchielli è il solo titolo ancora in repertorio,
alcuni anni fa si è tentato di riproporre Il Domino Nero e Cleopatra di
Lauro Rossi rispettivamente a Jesi ed a Macerata. Lauro Rossi, marchigiano
e direttore del Conservatorio di Napoli è stato, con Ponchielli, uno dei caposcuola
e le aveva concepite per i vasti spazi del Regio di Torino e del San
Carlo. In teatri rispettivamente di 600 e 400 posti (Jesi e Macerata), non si
potevano presentare che edizioni molto meno grandiose di questa concezione
originale. Dubito che il tentativo verrà ripreso.
Si è rievocato il grand opéra padano, intrattenimento drammatico molto
distante dalle tematiche politiche, sia perché Puccini cresceva in questo
contesto sia perché furono Amilcare Ponchielli ed Arrigo Boito a lanciarlo
nel mondo musicale milanese ed anche in quanto, da Manon Lescaut in poi,
la poetica musicale di Puccini diventò, forse anche per reazione, l’antitesi
al grand opéra padano, che, pur tuttavia, non sarebbe sopravvissuto alla
sua stessa ragione storica in quanto particolarmente apprezzato da una
delle «scuole» musicali che contornavano il duce, nonché da Mussolini in
prima persona: nel 1935 Nerone di Pietro Mascagni (al cui libretto avrebbe
messo mani il Capo del Governo in persona) deve considerarsi come uno
degli ultimi frutti del genere.
In questo clima di ricerca di innovazione rispetto al melodramma verdiano,
Puccini partecipò, con un’opera in un atto (come richiesto) – Le
Willis, successivamente ribattezzata Le Villi – al concorso annuale dell’editore
Sonzogno nel 1883, lo stesso concorso che alcuni anni più tardi avrebbe
rivelato Pietro Mascagni con Cavalleria Rusticana. Scritta e composta
frettolosamente non ottenne neanche quella «menzione» che, accompagnata
da un sigaro toscano, si usava dare a tutti gli autori che hanno i requisiti
minimi. Tuttavia, la giuria era presieduta da Ponchielli che organizzò una
serata musicale dove Puccini eseguì, al pianoforte, alcuni brani dell’operaballo
(questo era il genere indicato nel frontespizio). Boito, presente tra gli
ospiti, ne restò incantato ed organizzò una sottoscrizione perché il lavoro
5 G. Salvetti, Il Secondo Ottocento, in G. Barbato – A. Basso (a cura di) Storia dell’Opera, Vol. I ,
Tomo II, UTET, Torino, 1977.
Perché Puccini indossò la camicia nera 243
venisse messo in scena. Raccolse una somma sufficiente e convinse l’editore
Ricordi a stampare libretto e partitura. L’opera-ballo andò in scena al
Dal Verme il 30 maggio 1884 ed ebbe un successo enorme, che comportò
anche un contratto, con un minimo stipendio mensile con Ricordi, nonché
allestimenti all’estero (a Manchester).
Le Villi è un opera fantastica ambientata nel Medioevo tedesco – quindi
con una punta di grand opéra padano. Le Villi è di repertorio in Germania
ed anche nel Nord America. In Italia, è stata ripresa di recente, oltre che
al Festival Pucciniano a Torre del Lago, a Trieste, Lucca, a Martina Franca,
a Fermo ed anche al Festival di Villa Adriana nei pressi di Roma. È lavoro
piacevole, con eccellente preludio e arie e duetti di buona fattura. Privo
però di ogni riferimento alle tematiche di una Milano dove cresceva il malessere
sociale, sorgevano le prime organizzazioni anarchiche e socialiste e
in cui, dopo qualche anno, avrebbero tuonato i cannoni di Bava Beccaris.
Di lunga gestione (come sarebbero state anche le opere seguenti), fu il
secondo lavoro per il teatro in musica di Puccini, Edgar, truce vicenda trecentesca.
Lanciata alla Scala nel 1889 dall’editore Ricordi con un cast
stellare, ebbe modesto successo, riproposta a Lucca, Torino, Brescia ed
anche a Madrid e a Buenos Aires (ne esistono ben quattro versioni), si è
rivista nel 2008 a Torino e a Torre del Lago. I tentativi di rilanciare il lavoro
non sono stati salutati da successo. Julian Budden rileva come molte sue
parti appartengano al genere del grand opéra padano 6. Molto di più, direi,
de Le Villi. Opera a tinte fosche ma essenzialmente di evasione per una
borghesia che o ne era distante o voleva dimenticare, a teatro, le tensioni
dell’epoca, quali l’età giolittiana dopo la fine del periodo crispino.
Manon Lescaut
Il debutto assoluto di Manon Lescaut il primo febbraio 1893, al Teatro
Regio di Torino, fu non solo il vero grandissimo successo di Puccini – l’opera
venne rapidamente ripresa in tutti i maggiori teatri italiani e stranieri – ma
anche un lavoro che rispecchiava l’ambiente e le tensioni dell’epoca in cui
venne concepito, dopo un lungo travaglio nella stesura del libretto prima
ancora che nella composizione.
Occorre fare una breve digressione. Il romanzo L’Histoire du Chevalier
Des Grieux et de Manon Lescaut dell’abate Antoine François Prévost ap-
6 J. Budden, Puccini, Carocci, Roma, 2005.
244 Giuseppe Pennisi
partiene al filone di letteratura libertina del Settecento francese 7. Il buon
abate aveva forse intenti moralistici nel descrivere il peccato, ma i due
protagonisti sono un gaglioffo, baro, ladro ed assassino (pronto anche a
«imprestare» la propria donna al Governatore della Louisiana) ed una escort
– si direbbe adesso – assetata di sesso e di denaro (nonché di gioielli). Le
loro avventure lussuriose si estendono in due continenti. E terminano male,
nel deserto della Louisiana. Manon è il prototipo della femme fatale che fa
diventare chi si innamora di lei un fuorilegge ed un criminale, alla stregua
di Carmen, Lulu, Nanà. Des Grieux è un biscazziere pronto a tutto. Il terzo
protagonista è Lescaut, fratello di Manon, ufficiale di carriera, ma essenzialmente
un mercante la cui merce migliore è la propria sorella sotto le
lenzuola. Un quadro desolante della società francese negli anni precedenti
la Rivoluzione. Il romanzo, di ottima fattura, ebbe una buona diffusione
all’epoca della sua pubblicazione (1779) ed ha ispirato almeno quattro
musicisti, ciascuno dei quali lo ha calato nel proprio tempo. Dimenticando,
quasi, la crudezza dell’originale e spesso trasformandolo in una cronaca di
poveri amanti sventurati.
Ad esempio, Manon Lescaut di Daniel Auber su libretto di Eugène
Scribe è un opéra-comique in cui parti parlate si alternano con numeri musicali.
Presentata nel febbraio 1856 con un discreto successo, è tipico prodotto
del Secondo Impero, vagamente moralista ma non priva di accenni
piccanti. La vicenda si distanzia molto dal romanzo di cui sostanzialmente
resta la parte finale in Louisiana. Ripresa in Italia, anni fa, a Macerata (in
un festival in cui venivano presentate le tre più note opere basate sul romanzo
di Antoine François Prévost) ebbe poco più di un successo di stima.
Pure Manon di Jules Massenet, piuttosto fedele al romanzo anche se il
finale è a Le Havre non in Louisiana, è una opéra-comique, ma nell’uso
corrente viene presentata con recitativi musicati dallo stesso Massenet per
una maggiore diffusione all’estero (dove il genere francese di opéra-comique
non ebbe grande presa). La prima nel 1884 venne seguita da ottanta repliche.
È una delle opere francesi più rappresentate al mondo. L’adattamento
del romanzo rispecchia chiaramente gli stilemi e le tematiche di una Terza
Repubblica in cui al demi-monde di Manon si giustapponeva l’aristocrazia
provinciale terriera di Des Grieux e della sua famiglia, da un lato, e, dall’altro,
la nuova borghesia straripante in feste sontuose (il Cours de la Reine)
e gioco d’azzardo (l’Hotel de Transylvanie). La corruzione imperversa anche
nelle forze dell’ordine, ma vengono eliminate le parti più scabrose del romanzo
e Lescaut da fratello diventa cugino della protagonista.
7 Abbé Prévost, Manon Lescaut, Librairie Générale Française, Paris, 1972.
Perché Puccini indossò la camicia nera 245
Prima di venire alla pucciniana Manon Lescaut, essenziale un cenno a
Boulevard Solitude di Hans Werner Henze del 1952. L’azione è spostata dal
Settecento alla Parigi dell’immediato dopoguerra: droga, sesso, borsa nera.
La «prima» rappresentazione a Roma (Henze ha risieduto gran parte della
sua vita nei pressi della capitale italiana) scatenò un putiferio: il pubblico
venne fisicamente alle mani. È per certi aspetti l’adattamento musicale più
fedele al romanzo settecentesco perché il centro dell’azione non è Manon
ma il suo amante Armand, tossicomane e ladro. La partitura combina elementi
tradizionali di Novecento storico con jazz e dodecafonia. Molto
rappresentata all’estero, in Italia credo non si veda dal 2002 quando è stata
messa in scena a Genova, una produzione che ha avuto notevole successo
a Barcellona ed a Londra e di cui esiste un pregevole Dvd.
La digressione è importante per vedere come, dopo una lunga battaglia
con Ricordi (che temeva l’eccessiva vicinanza con l’opera di Massenet, allora
molto rappresentata in Italia in traduzione ritmica), il compositore
inserì l’opera nel proprio tempo, ossia in quel fin de siècle postunitario
caratterizzato da facili arricchimenti, speculazioni edilizie, crisi finanziarie
(che esplosero con quella della Banca Romana), velleità coloniali finite
male (Dogali) e Trasformismo traboccante. Alla stesura del libretto diedero
un apporto numerose mani (Adami, Praga, lo stesso Ricordi, nonché Puccini
in prima persona).
In primo luogo, a differenza di Massenet, Puccini riprese parti considerate
scioccanti del romanzo. Lescaut è di nuovo fratello della femme
fatale. Des Grieux, suo amico e sodale, per lei da giovane studente «sciupa
femmine» nel primo atto, diventa un delinquente nel secondo, si affida
ad altri malfattori nel terzo. E finisce nel deserto della Louisiana nel breve
quarto atto.
In secondo luogo, sempre a differenza di Massenet, introdusse un intermezzo
sinfonico, in parte derivante dalle visite a Bayreuth fatte per
conto di Casa Ricordi, e soprattutto utilizzò Leitmotiv non mnemonici (già
presenti in Rossini, Donizetti, Verdi e tutto il melodramma) ma collegati a
situazioni e personaggi, come in Wagner.
In terzo luogo, Puccini riportò l’eros nel teatro in musica italiano. Era
sparito da Le Comte Ory di Rossini (se si eccettua il duetto carnale ma non
erotico del verdiano Un ballo in maschera) mentre era centrale nell’opera
romantica soprattutto tedesca: basti dire che il duetto erotico tra Brünnhilde
e Siegfried nel terzo atto di Siegfried dura 45 minuti, mentre in Rigoletto
in circa dieci minuti il Duca di Mantova seduce Maddalena, fa sesso con
lei, si riposa, si riveste e fresco come una rosa intona La donna è mobile.
L’eros esplode nel secondo atto di Manon Lescaut nel duetto Tu, tu, amore?
246 Giuseppe Pennisi
Tu?, ma ne abbiamo la premessa nel primo atto in Donna non vidi mai,
l’aria del tenore che dovrebbe essere poco più di un ragazzo. Non è un tenore
lirico donizettiano o un tenore spinto verdiano, ma un baritenore
possente che utilizza al massimo il registro di centro, proprio per rendere
al meglio la tensione erotica.
In quarto luogo, Geronte appare chiaramente come un frutto della
«nuova classe» arricchita: il suo O gentil cavaliere, O vaga signorina quando
coglie i due amanti sul fatto (e mentre lo derubano). «Con un ghigno tra
il compassionevole e l’ironico», indica la disposizione scenica scritta da
Puccini di proprio pugno.
Quindi, tramite i personaggi (e la vicenda settecentesca), un quadro
desolante della società e dell’epoca, non il Settecento ma l’anticamera del
Novecento in un’aspirante Grande Potenza. Non manca la «raccomandazione
» con cui il padre di Des Grieux tira fuori dai guai il proprio rampollo.
E la «bustarella» con cui Lescaut e Des Grieux, in quella che è nota
come «la scena delle puttane», corrompono militari per tentare di salvare
Manon dalla deportazione oltreoceano.
Renata Scotto, che ha interpretato Manon Lescaut per decenni, dice di
preferire l’opera di Puccini a quella di Massenet perché la protagonista
della prima è «più passionale». Una ragione forse ancora più valida è come,
nell’opera, attraverso la figura del «borghese piccolo piccolo», Giacomo
Puccini critica la propria epoca. E la politica che la plasma.
Forse solo Luchino Visconti, con Thomas Schippers sul podio, con le
scene di Lia de Nobili ed Emilio Carcano ed i costumi di Piero Tosi, in una
memorabile edizione del 1973 a Spoleto (ripresa a Roma da Alberto Fassini
alla fine degli anni Ottanta) è riuscito a cogliere questi aspetti. Non
mostrano, però, che la denuncia di una società putrida, in cui solo l’eros
pare avere il profumo dell’innocenza, rappresenta una tappa importante del
«lungo viaggio verso il fascismo» di Giacomo Puccini.
La Bohème e La fanciulla del West
Cosa fa accostare due opere così differenti? Oltre tutto tra il 1896,
debutto de La Bohème a Torino, ed il 1910, debutto de La fanciulla del
West a New York, Puccini aveva pressoché cambiato quasi radicalmente il
modo di comporre. Tra le maggiori opere del compositore sono le uniche
due che rappresentano, in momenti differenti, una pausa nel «lungo viaggio».
Non ci sono riferimenti, anche indiretti, alla società in cui vive ed alla politica
che ad essa da corpo. Tratte rispettivamente da un romanzo francese
Perché Puccini indossò la camicia nera 247
e da un dramma americano, vengono in effetti collocate in ambienti del
tutto immaginari. Anche Manon Lescaut aveva avuto come base un romanzo
francese, ma tanto nell’opera di Puccini quanto in Boulevard Solitude di
Hans Werner Henze se ne tocca con mano l’attualità politica e sociale. In
La Bohème, invece, siamo in una Parigi trasfigurata, immaginaria, con riferimenti
forse alla Milano dove Puccini aveva compiuto i primi passi ed
ancor più alla Torino dove aveva avuto il suo primo, ed immenso, successo.
In La fanciulla del West siamo in uno «spaghetti Western» di pregio, come
in quelli di Sergio Leone. Lontanissima la prima dall’Italia di Crispi e Giolitti
e la seconda da quella di Sonnino e di San Giuliano.
Spieghiamo perché. La gestazione de La Bohème fu lunga e travagliata.
Il romanzo di Henri Murger aveva avuto un successo di stima, e gli
elogi di Gérard de Nerval. La fortuna del soggetto fu la pièce scritta da
Murger insieme a Théodore Barrière ed andata per la prima volta in scena
al Théâtre de Variétés nel 1849, in pieno Secondo Impero. Circa mezzo
secolo dopo interessò due compositori, ambedue italiani, Puccini e Ruggero
Leoncavallo (che ne trassero due opere molto differenti). Un Puccini
interessato a the politics del lavoro di Murger e Barrière (commedia popolare
intramezzata da canzoni più che da veri numeri musicali) ne avrebbe
potuto trarre un quadro feroce del Secondo Impero e delle sue diseguaglianze.
Ma Puccini, sulla soglia dei quarant’anni, aveva un altro obiettivo:
un’elegia a quella che un personaggio di Murger-Barrière chiama «l’unica
stagione che non torna più», la giovinezza – nell’originale la jeunesse n’a
qu’un temps 8. E situarla in una Parigi irreale.
La «stagione che non ritorna più» era tema corrente in un’Italia in cui le
università crescevano ed accoglievano studenti della borghesia «di provincia»,
nasceva la goliardia ed amori tra giovani le cui famiglie avevano già preso le
decisioni pertinenti al matrimonio. Si pensi al successo della commedia Addio
Giovinezza di Nino Oxilia e Sandro Camasio (che tra il 1913 ed il 1940 ebbe
ben quattro versioni cinematografiche di cui una con la regia dello stesso
Oxilia). Puccini, con i suoi librettisti Giuseppe Giacosa e Luigi Illica, trasferiva
nella Parigi dei «cieli bigi» e del Quartiere Latino la freschezza e l’esuberanza
giovanile che Oxilia e Camasio portavano nella Torino di via Po,
dove, più che a Milano o altrove, affluivano studenti di provincia, se non
altro perché, non più capitale del Regno, era diventata la capitale della cultura
dove pullulavano le case editrici e nascevano cinema e alta moda.
Non che La Bohème trasferisca a Parigi la giovinezza scapigliata di
Torino. Puccini (più che i librettisti) crea una Parigi immaginaria ed eterna
8 F. D’Amico, La jeunesse n’a qu’un temps, Teatro dell’Opera, Roma, 1992.
248 Giuseppe Pennisi
(che nulla ha a che fare con il Secondo Impero). Lo ha colto meglio di ogni
altro Franco Zeffirelli con la sua regia che debuttò alla Scala (dove si programma
ancora) cinquantacinque anni fa, che è stata vista in tutti i maggiori
teatri del mondo e che nell’aprile 2014 il Metropolitan ha portato in
alta definizione ed in diretta in oltre 2.000 sale cinematografiche. Una Parigi,
si direbbe in inglese, greater than life, una Parigi più parigina della
stessa Parigi, e che per questo motivo coglie così bene lo spirito dell’opera.
Unico parallelo, nella storia delle regie operistiche, l’allestimento di Der
Rosenkavalie di Richard Strauss da parte di Otto Schenk che dal 1968 si
vede a Vienna ed a Monaco (oltre che in un meraviglioso Dvd con Kleiber
sul podio). La Bohème è densa di innovazioni musicali: una tecnica narrativa
molto libera (rispetto alla struttura sinfonica di Manon Lescaut, l’impiego
di declamato senza accompagnamento, anche lo Sprechensang).
Di innovazioni musicali straripa La fanciulla del West, opera amatissima
da Webern e dallo stesso Schönberg, i padri della dodecafonia, un’orchestrazione
che aveva recepito le lezioni di Richard Strauss (che Puccini
aveva più volte ascoltato) ma che per la sua frammentazione e continua
ricomposizione precorre Janácˇek, un’unica voce femminile (quasi wagneriana
– non per nulla ne è stata grande interprete Birgit Nilsson), un tenore
realmente pucciniano (ruolo scritto per Enrico Caruso), impiego modernissimo
di dissonanze risolte in ritardo o non risolte affatto, un unico arioso,
grande impiego del declamato. Nessun cenno alla società italiana che si
preparava alla Grande Guerra. Una California immaginaria e dilatata come
ben mostrato nelle regie di Giancarlo Del Monaco e Lorenzo Mariani.
Tosca e Madama Butterfly: il rifiuto della democrazia liberale ed il razzismo
Tosca del 1900 e Madama Butterfly del 1904 (quasi mai messa in
scena; l’edizione «di riferimento» rappresentata di solito è quella del
1906 approntata per Parigi) sono le tappe fondamentali del «viaggio».
Con la prima – è doveroso ricordare – il 14 gennaio al Teatro Costanzi
di Roma inizia il teatro in musica italiano del Novecento. Con la seconda,
presentata inizialmente, con Toscanini sul podio, alla Scala dove
restò un'unica sera, si giunse solo dopo molti rimaneggiamenti alla «tragedia
giapponese» che è tra le opere più rappresentate al mondo. Ambedue
mostrano aspetti di Puccini che spiegano la sua pronta adesione al
PNF alcuni anni più tardi.
Veniamo alla Tosca. Il lungo dramma di Sardou in cinque atti, con
numerosi episodi minori ed estese narrazioni della vita dei tre principali
Perché Puccini indossò la camicia nera 249
protagonisti, prima che si aprisse il sipario era stato generalmente giudicato
del tutto inadatto come base per un’opera lirica. Ma Puccini se ne era
innamorato sin dai tempi di Manon Lescaut e considerava La Bohème
come interruzione del lavoro a quella che sarebbe stata la «sua» vera opera
«moderna». Luigi Illica, ingaggiato per scrivere il libretto, non riuscì a cavare
un ragno dal buco. Quando venne affiancato da Giuseppe Giocosa (il
vero drammaturgo della Tosca), il testo iniziale venne drasticamente espurgato
e ne nacque l’azione stringata nella giornata della battaglia di Marengo
(14 giugno 1800) dove, date le comunicazioni dell’epoca, arrivò a Roma
la mattina la notizia della vittoria delle truppe della coalizione su quelle
napoleoniche, mentre a notte alta si seppe che il risultato era stato l’esatto
contrario e Bonaparte si apprestava a conquistare l’Italia.
Nel gennaio 1900 la situazione del Regno d’Italia era pesante. Alla prima
assoluta della Tosca, nel palco reale arrivarono durante l’intervallo tra il
primo ed il secondo atto, la regina Margherita (grande appassionata d’opera)
ed il presidente del Consiglio gen. Luigi Pelloux, che aveva attuato una politica
repressiva (soprattutto nel Mezzogiorno) e proposto leggi eccezionali
(specialmente contro socialisti ed anarchici). L’atmosfera era tesa: si temeva
una bomba in teatro ed a Villa Savoia si era fatto di tutto per scoraggiare la
Regina dal partecipare all’evento. Durante il primo atto l’opera venne interrotta
(e Lepoldo Mugnone sul podio suonò la Marcia Reale) perché un
brusio in sala (in effetti mere proteste contro i ritardatari) indusse a pensare
al peggio. Ci furono molte chiamate alla ribalta (e tre per Puccini) ma non
il trionfo che il compositore si attendeva. Tuttavia, il vigore creativo e la
forza drammatica fecero sì che, prima della fine dell’anno, Tosca fosse già
stata data con crescente successo non solo nei maggiori teatri italiani ma
anche a Londra, Buenos Aires e New York. Senza che Puccini dovesse fare
ritocchi. Un raro esempio nella storia musicale del compositore.
Si sono ricordate le tensioni la sera del debutto della Tosca. Mentre
l’Italia di Manon Lescaut era quella sviscerata nel romanzo incompleto di
De Roberto 9, in cui dominava il Trasformismo, quello della Tosca è il Paese
delle lotte contadine e delle bombe degli anarchici, nonché del regicidio
a Monza. I deuteragonisti sono Floria Tosca e Vitellio Scarpia. Puccini affida
due buone arie (e due duetti con Tosca) a Cavaradossi, ma non sembra
avere grande simpatia per il pittore che, secondo Sardou, è un libertario un
po’ confusionario, figlio di padre romano e madre francese, venuto a Roma
per sistemare l’eredità e restatoci per amore di Tosca. Ancora meno ne ha
per Angelotti, imprigionato su istigazione di Lady Hamilton che aveva
9 F. De Roberto, L’Imperio, Mondadori, Milano, 2009.
250 Giuseppe Pennisi
«protetto» quando quest’ultima faceva la prostituta nei Vauxhall Gardens.
Tutto sommato, Scarpia sarebbe un personaggio quasi positivo, se non
fosse un sadico satiro sessuomane: deve imprigionare di nuovo Angelotti
(che sa troppe cose su Lady Hamilton), pena la propria morte. Floria Tosca,
contadinella veronese scoperta da Cimarosa e diventata cantante di successo,
è l’unico personaggio positivo, anche se omicida per legittima difesa;
resta ingenua, piena di devozione religiosa e coinvolta in una causa troppo
grande per lei e che per lei non significa nulla.
In breve, un quadro negativo dell’Italia dell’epoca: l’unico personaggio
positivo è costretto al suicidio. Un quadro che si legittima e si salva grazie
ad una partitura che è un vero caleidoscopio di motivi, di tinte, di colori.
Come rispondere politicamente a questo quadro? Verosimilmente, in cuor
suo, Puccini pensava che la risposta appropriata fosse quella del Gen. Pelloux,
in palco reale la sera del debutto.
Lo è ancora più chiaro nella prima versione di Madama Butterfly, ritirata
dopo il fiasco alla Scala del 17 febbraio 1904. Non è questa la sede per
ricostruire il travagliato percorso dall’atto unico di Belasco alle varie versioni
dell’opera (sino a quella definitiva del 1906); un saggio di Mario
Bortolotto 10 (non certo un pucciniano) lo fa con ricchezza di dettagli e riporta
ampi stralci della versione del 1904, ora difficilmente reperibile.
Ne esce fuori un Pinkerton che, ai nostri occhi, sembra non solo un
gaglioffo ma anche un razzista. Nonostante le autorità nipponiche, tramite
la loro ambasciata, abbiano fatto arrivare il loro assenso alla «tragedia» (ci
si era rivolti a loro essenzialmente per dettagli tecnici su rituali e simili), le
battute «comiche» escogitate per alleggerire «la tragedia» sono di questo
tono: «Nomi di scherzo o scherno. Io li chiamerei muso primo, secondo e
terzo […] Capisco un Bonzo è un gonzo […] qua i tre musi. Servite / ragni
e mosche candite / nidi al giulebbe e quale / è licor più indigesto / e più
nauseabonda liccornia della Nipponeria». Si potrebbe continuare, Pinkerton,
e Sharpless, che non lo ferma in questa ondata di battute di gusto cattivo e
razzista, si sentono chiaramente superiori agli asiatici (i parenti di Cio-Cio-
San si buttano letteralmente sul banchetto). E la protagonista? È una prostituta
bambina: sa che per lei Pinkerton ha pagato l’elevata cifra di 100
yen; quindi, deve fargli davvero piacere.
Siamo anche temporalmente vicini all’Italia di Tripoli, bel suol d’amore!
Ma Pinkerton non ha una missione di civilizzazione (come credevano parte
di coloro che navigavano verso la quarta sponda) e al suicidio della «sposa
10 M. Bortolotto, La Signora Pinkerton una e due, in La consacrazione della casa, Adelphi, Milano,
1982.
Perché Puccini indossò la camicia nera 251
giapponese» ed alla presa in affido del bambino non prova nessun rimorso.
L’aria Addio, fiorito asil venne aggiunta per la successiva edizione di Brescia.
La Rondine e Il Trittico – Fuga dalla Grande Guerra
Le vicende che portarono a La Rondine (prima assoluta a Montecarlo
il 27 marzo 1917) ed a Il Trittico (Metropolitan di New York, 14 dicembre
1918) forniscono una chiave di lettura importante per comprendere come,
appena terminata la Grande Guerra, Puccini si avvicinò al fascismo.
Mentre Mussolini era socialista e divenne quasi improvvisamente interventista,
Puccini non aveva alcuna simpatia per il socialismo e si tenne il
più lontano possibile da un conflitto che per lui rappresentava un forte
nocumento finanziario personale: il tracollo delle rappresentazioni delle sue
opere (ed ergo dei pertinenti diritti d’autore) negli Imperi Centrali, dove era
molto gettonato. Inoltre, poco prima dell’inizio delle ostilità, lasciato il suo
editore abituale (Ricordi) aveva concluso (con Sonzogno) un contratto per
il Karltheater di Vienna per un genere nuovo di teatro in musica, a metà tra
opera leggera ed operetta, La Rondine. Un lavoro nella cui ispirazione non
mancavano riferimenti, nello stesso intreccio, al Richard Strauss del Der
Rosenkavalier ed al Johann Strauss di Die Fledermaus. Allo scoppio della
guerra, non solo il progetto parve naufragare, ma Puccini fu l’unico intellettuale
di rango che, accampando una scusa, non partecipò al King’s Albert
Book promosso da un noto romanziere britannico per dare un tributo al Re
del Belgio costretto a lasciare la capitale in quanto, nonostante la neutralità,
il Paese era stato invaso dai tedeschi. Al libro contribuirono tutti i maggiori
musicisti dell’epoca, anche italiani, oltre che intellettuali di altre discipline.
Analogamente non partecipò alla lettera della Società Internazionale
degli Artisti per stigmatizzare il bombardamento di Reims. Dopo l’ingresso
dell’Italia in guerra, per evitare il minacciato boicottaggio in Francia, dedicò
l’incasso di alcune recite parigine della Tosca.
Nel frattempo, si era trovato dove far debuttare La Rondine: il piccolo
ma decoratissimo teatro del Casinò di Montecarlo, che poteva vantare prime
assolute di due opere di Massenet e di una di Berlioz, formalmente in un
Principato neutrale ma sostanzialmente in un ambiente di cultura francese.
Occorre precisare che nel 1920 una seconda versione andò in scena a Palermo
e che Puccini lavorò ad una terza versione la cui partitura è stata in gran parte
perduta nei bombardamenti di Milano del 1945 (se ne è visto ed ascoltato
un adattamento a Bologna nel 1987). Le tematiche de La Rondine (l’amore
tra un giovanotto di provincia ed una prostituta d’alto bordo) e la partitura
252 Giuseppe Pennisi
(al segno di creatività melodica molto vitale) sono quanto di più distante si
possa immaginare da un lavoro in tempo di guerra, mentre si combatteva la
battaglia dell’Isonzo e solo pochi mesi dopo Caporetto. Come si è visto nel
vol. 612, fascicolo 2270 di aprile-giugno 2014 di questa rivista, la Grande
Guerra fu elemento fondante di numerosi compositori di quel periodo.
Eppure, in casa Puccini il conflitto mondiale si intercalava con quello
famigliare. Il compositore, con il supporto principalmente di Giovacchino
Forzano (scrittore, poeta, drammaturgo, regista anche cinematografico) e
di Tito Ricordi (nella cui scuderia era tornato) aveva completato Il Trittico
a cui lavorava dal 1913 proprio poche settimane prima di Caporetto e l’epidemia
di febbre gialla. Il figlio Tonio, militare di leva, tornato a casa, tentò
il suicidio (anche per questioni sentimentali). Sua sorella Tomaide morì per
l’epidemia. Sua moglie Elvira intercettò la lettera del console svizzero che,
data la situazione, gli ritirava il visto di accesso a Lugano dove andava periodicamente
(e frequentemente) dalla propria amante, Sybil Seligman; la
tresca, quindi, era svelata all’irritatissima Elvira. Con l’Italia nel caos era
difficile trovare un teatro per mettere in scena Il Trittico, in effetti tre opere
distinte la cui produzione richiede circa trenta solisti ed un organico
orchestrale mahleriano. Il debutto ebbe luogo il 14 dicembre 1918 a New
York (senza la presenza di Puccini – i mari non erano sicuri a ragione delle
mine lasciate dai tedeschi) con buon successo. Seguì una trionfale prima
italiana a Roma l’11 gennaio 1919, una londinese il 18 giugno 1920 (alla
presenza di re Giorgio), una viennese nell’ottobre 1920 ed una ripresa a
Bologna nel 1921. Ogni volta Puccini ritoccò la partitura che ebbe il suo
assetto definitivo alla prima alla Scala il 29 gennaio 1922, dove venne introdotta,
in Suor Angelica, «l’aria dei fiori», la sperimentazione armonica
audace, atonale ed al confine quasi con la dodecafonia.
Mentre La Rondine è chiaramente un’evasione dalla Grande Guerra,
resta il dubbio che, in qualche modo, pur se non presenti né sulla scena né
nella partitura, il conflitto entri nel background de Il Trittico. I tre atti unici,
complementari, per contrasto hanno come filo conduttore la morte, vista
in termini sanguigni anzi brutali ne Il Tabarro, in modo religioso in Suor
Angelica ed in maniera tra il grottesco ed il sarcastico in Gianni Schicchi.
Come se il Puccini, con simpatie per gli Imperi Centrali anche dopo la loro
sconfitta (basti pensare alla cura per la prima viennese, in tedesco, del 1920),
non rimuovesse del tutto l’inutile strage e non ne restasse insensibile. Che
io sappia nessuno ha, sino ad ora, risolto il problema.
È, invece, palese, principalmente nel finale di Gianni Schicchi, e quindi
nell’intero Trittico, la lode alla «gente nova» un sentimento di adesione
a un ordine nuovo che in Italia si sarebbe concretato ben presto. Secondo
Perché Puccini indossò la camicia nera 253
lo stesso Dizionario Enciclopedico degli Italiani, Forzano (1884-1970) fu
uno degli autori e registi più apprezzati nel periodo tra le due guerre mondiali
e fece fede della sua adesione al regime anche in libri di memorie
degli anni Cinquanta 11.
Turandot – L’approdo
Mussolini, che si piccava di essere un musicista (e che era contornato
da due schiere di compositori: i tradizionalisti guidati da Mascagni e gli
innovatori capeggiati invece da Casella e da Malipiero), non solo finanziò
il Teatro dell’Opera di Roma in modo che non fosse secondo a nessuno,
lanciò il Festival di musica contemporanea di Venezia per contrapporsi a
Salisburgo, ma desiderò ardentemente che venisse creata un'«opera fascista».
Tentò di farlo unendo il genio del Premio Nobel Pirandello e del suo innovatore
preferito, Malipiero. Non gli andò bene: La Favola del Figlio Cambiato
ebbe una unica rappresentazione nel marzo 1934 per decisione del
Capo del Governo in persona che trovò disdicevole che un atto avesse luogo
in una casa di tolleranza.
Eppure, l'«opera fascista», in quanto a ambientazione, clima, messaggio,
esisteva già: l’incompiuta Turandot di Giacomo Puccini. Così come, alla
fine dell’Ottocento, il teatro in musica voleva trovare nuove strade dopo il
melodramma verdiano andando verso il grand opéra padano, all’inizio del
Novecento compositori e librettisti erano alla ricerca di nuovi percorsi in
un genere che non aveva mai avuto successo in Italia negli ultimi due secoli
(dopo avere trionfato in epoca barocca): la Zauberoper o «opera fantastica
». Era l’opposto del verismo che aveva contraddistinto la scena italiana
dalla fine dell’Ottocento. Si prestava a sperimentazione musicale. In questo
contesto, tra gli autori del passato venne riscoperto Carlo Gozzi con le sue
«fiabe teatrali» che si giustapponevano alla commedia borghese di Goldoni.
Gozzi, peraltro, era stato, con la Donna Serpente (successivamente riproposta
da Casella), fonte d’ispirazione della prima opera di Wagner, Die
Feen che in Italia è stata messa in scena solamente nel 1998 a Cagliari.
Dopo avere esaminato varie possibilità, Puccini (ed il suo librettista
Giuseppe Adami) misero gli occhi su Turandotte, che si svolge «a Pechino
ai tempi delle fiabe» ma che è l’unico lavoro di Gozzi in cui non si fa ricorso
alla magia. Un altro compositore italiano (ma residente in Germania),
11 G. Forzano, Mussolini autore drammatico, Barbèra, Firenze, 1954; G. Forzano, Come li ho conosciuti,
ERI, Torino, 1957.
254 Giuseppe Pennisi
Ferruccio Busoni, aveva lavorato sullo stesso testo; l’opera di Busoni, che
aveva debuttato a Zurigo nel 1917, viene raramente rappresentata in Italia.
Ebbi la fortuna di vederla al Filarmonico di Verona nell’aprile 1980. Esiste
una terza Turandot, un grand opéra padano di Antonio Bazzini che debuttò
alla Scala nel 1876 e venne presto dimenticata.
Il raffronto tra Turandot di Busoni e l’opera di Puccini permette più di
ogni altra cosa di cogliere la differenza di quadro politico. Busoni segue
abbastanza da presso Gozzi, affidando un ruolo importante all’Imperatore
(che in Puccini è poco più di un comprimario) e mantenendo le maschere
della commedia dell’arte (Brighella, Tartaglia e Truffaldino che in Puccini
diventano Ping, Pong e Pang). Busoni lavora circa sedici anni ad un lavoro
in due atti altamente stilizzato e colmo di ironia, ambientato in un mondo
artificiale popolato da personaggi o grotteschi o fiabeschi in cui si prende
in giro qualsiasi forma di potere; l’accostamento più vicino è forse Le Grand
Macabre di György Ligeti del 1977 (rivista nel 1996). In Busoni, la Principessa
è solo una ragazzina capricciosa. Ben differente il trattamento di
Puccini. In primo luogo, un grande organico orchestrale ed un vasto impiego
del coro, echi di Debussy ed anche di musica cinese si fondono in quella
che è essenzialmente una scrittura tardoromantica alla Korngold o alla
Schrekrer. Il totalitarismo che regna a Pechino (nelle mani della Principessa)
è accettato, ove non visto con benevolenza anche dagli oppositori (peraltro
sconfitti e che sarebbero considerati «inferiori» ove non ci fosse il
sacrificio di Liù o la disfida e vittoria finale di Calaf). Il totalitarismo è essenziale
perché in esso «il popolo di Pechino» ha la propria libertà nei
confronti dei tartari. È, poi, un totalitarismo «benevolo» perché nel finale,
che Puccini non riuscì mai a musicare, la durezza di Turandot (frutto di
un’offesa fatta alla sua «ava» ed alla sua Nazione «or son mille anni e mille»)
«si scioglie» in gioia per tutti. Non manca uno sguardo severo a burocrazia
e borghesia, impersonate per l’appunto da Ping, Pong e Pang.
Non sapremo mai perché Puccini non giunse a musicare «il disgelo»
della Principessa; pare che fosse stato turbato dall’ascoltare il ventenne
Korngold eseguire al piano Die tote Stadt in anteprima acquisendo la consapevolezza
che alla sua età, e con la sua malattia, non sarebbe mai stato
in grado di raggiungere l’innovazione, che, pur in una partitura tardoromantica,
aveva colto il giovane collega. Tuttavia, il disegno socio-politico
complessivo era chiaro e si riassumeva nel Vincerò!
Giuseppe Pennisi

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