Marò, che
cosa pensano gli indiani (che non fanno gli indiani)
24 - 12 -
2014Giuseppe Pennisi
Due chiacchiere fra tre prof...
Aman Agarwal è un giovane professore di finanza e vice
presidente dell’Indian Institute of Finance (IIF una delle istituzioni di
maggior prestigio in Asia). Ha avuto cattedre di peso anche in Francia ed ha
lavorato, per un breve periodo, per la Banca Mondiale. Ama passare le vacanze
in Europa dove scambia idee con amici di buona data. Agarwal è un indiano che
non fa l’indiano. Ossia dice pane al pane e vino al vino. Anche Suresh
Munbodh è un indiano che non fa l’indiano. Inoltre è un indiano mauriziano;
i suoi antenati si sono trasferiti alle isole Mauritius a tagliare canna da
zucchero ed ora lui presiede la locale università dopo una lunga carriera al
Ministero dell’Istruzione.
Perché non scambiare con loro, a Roma, due chiacchiere sulla
vicenda marò? L’India – affermano – non poteva fare altro non solo perché la
nave petroliera su cui erano imbarcati ha attraccato in un porto indiano ma
perché le autorità italiane non li hanno immediatamente indagati per omicidio
preterintenzionale o colposo e meglio ancora rinviati a giudizio secondo le
regole del diritto militare. In tal caso, sarebbero rimasti in cella, come
misura cautelativa, pure durante l’attracco. L’India e le famiglie dei
pescatori si sarebbero costituite come parti civili in un processo italiano. E’
un po’ la tesi espressa da Sergio Romano su ‘Il Corriere della Sera’ alcuni
giorni fa.
Invece – afferma uno dei due – è stato mostrato “disprezzo” nei confronti
dell’India e delle sue istituzioni. Il “disprezzo” è stato aggravato quando la
vicenda è stata affidata all’ex Console Onorario del Regno di Svezia a Capri,
noto “Re della Piazzetta” caprese e frequentatore di night club nell’area di
Piazza Navona a Roma. Gli indiani sottolineato che l’”innominato” (a loro
parere è quasi un intoccabile) in 36 anni di carriera alle Nazioni Unite è
stato promosso a veri ruoli dirigenziali solo dopo essere stato naturalizzato
italiano (data la penuria di cittadini italiani nei piani alti
dell’Organizzazione). Per gli indiani, che da secoli seguono un sistema di
caste, resta un borghese “piccolo piccolo2, mezzo dalmata e mezzo svedese, con
una verniciatura italiana, simpatico viveur e bon vivant, ma non tale da avere
accesso a chi conta. La stessa “nota verbale” con il Ministro Kurshid
(che fece infuriare la Farnesina e portò alla sua uscita dalla vicenda) sarebbe
stata una trappola, di cui tra uno sling e l’altro non si sarebbe accorto.
Ma – aggiunge uno dei due – di minimis è inutile parlare. Se
l’Italia non si muove con una rapida incriminazione dei marò e non chiede la
loro estradizione perché si difendono di fronte alla giustizia militari, sarà
l’India a tradurli in giudizio.
Anche e soprattutto perché l’India è indipendente, precisano. E l’Italia?
Non proprio. Nessuno Stato indipendente avrebbe incorporato parte del diritto
tributario di uno Stato straniero (soprattutto se si regge su basi concettuali
differenti) ed in aggiunta posto propria amministrazione tributaria in
posizione ancillare, anzi servente, quella di uno Stato straniero. Quanto è
stato fatto con il FACTA. Roba da colonia!
Ora in India (dato che il personaggio è lo stesso, pur se in vesti
differenti) ci si aspetta che parte del diritto federale indiano venga
incorporato nella normativa dell’Unione Europea.
Ne vedremo di belle nel 2015. Per i cinesi è l’anno della capra. Da noi
capre e caproni imperversano.
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