L’EUROPA E LA SINDROME GIAPPONESE
Giuseppe Pennisi
Tutti parlano da mesi della necessità e dell’urgenza di mettere in atto
politiche, programmi e misure per rilanciare la crescita in un’Europa , in
particolare, l’eurozona ormai considerata il “grande malato” dell’economia
mondiale.
Diciamo le cose come stanno.Alcune settimane fa, il socioeconomista (e demografo)
americano Nick Eberstadt ha citato un romanzo di fantascienza del 1992 – The
Children of Men di P.D. James – per ammonire che la «sindrome giapponese »
è un spettro all’orizzonte di un’eurozona che potrebbe «socializzare» il debito
sovrano degli Stati, ma chiudersi al resto del mondo: invecchiamento, denalità,
per ogni bambino che nasce un uomo od una donna compie cento anni.
L’attuale recessione è infatti
differente rispetto a quelle di cui abbiamo avuto esperienza nel secondo
dopoguerra. Non è stata determinata da un rallentamento, prima, e da un crollo,
poi, della produzione. Oppure da un’improvvisa contrazione dei consumi. Nell’eurozona (e negli Stati Uniti) si è alle
prese con quella che Richard C. Koo - un economista nippo-americano che guida
da anni il servizio studi del Nomura Research Institute ed insegna in una delle
maggiori università di Tokyo - chiama
acutamente una balance sheets recession,
ovvero una recessione dei conti profitti e perdite. Ciò si verifica quando
alcuni asset perdono drasticamente di valore, causando crisi debitorie più o
meno gravi, e gli obiettivi d’investimento di individui, famiglie e imprese
mutano drasticamente: dalla “massimizzazione del profitto” si passa alla
“minimizzazione dell’indebitamento” (per timore di nuove crisi debitorie). Per
questo motivo la crisi è tanto grave e la stagnazione, accompagnata da momenti
di recessione, minaccia di essere duratura.
- Specialmente in Europa: lo ha scritto in aprile l’“International Herald Tribune” in un magnifico editoriale in cui si
criticava il Fiscal Compact che molti
Stati europei, dopo averlo firmato o senza rendersi conto dei contenuti oppure
nella convinzione di aggirarlo, si apprestano a ratificare. L’“International Herald Tribune”
non citava né Koo né il suo libro più noto (The
Holy Grail of Macroeconomics: Lessons from Japan’ Great Recession, John
Wiley and Sons, Singapore 2008). Ma i concetti di base sono quelli della balance sheets recession e delle difficoltà che essa
comporta. L’Italia, occorre dirlo, non è, per il momento, in una balance sheets recession particolarmente
acuta a ragione della prudenza e del proprio sistema bancario e delle famiglie.
Ma è contornata da Paesi in balance
sheets recession (Francia, Spagna, Grecia, Portogallo, anche parte della
Germania). È un vaso di coccio tra vasi di ferro. Dato il forte grado d’integrazione
europea, viene trascinata dagli altri: la nostra recessione tradizionale
dipende in gran misura dalle balance
sheets recessions altrui.
La balance sheets recession più
grave e più nota è la Grande Depressione del 1929: furono necessari 30 anni e
una guerra mondiale perché la struttura dei tassi d’interesse degli Stati Uniti
tornasse ad essere “normale”. Il Giappone è in una balance sheets recession da 15 anni: politiche monetarie e di
bilancio espansioniste non hanno avuto effetti di rilievo a ragione della
fortissima avversione al rischio (e all’indebitamento) di famiglie e imprese.
Pochi sanno come uscire da una balance
sheets recession. Tuttavia, se chi ha approfondito questo tema ha ragione,
politiche fiscali e di bilancio restrittive non hanno altro effetto che quello
di aggravare la recessione. In Italia, l’aumento della pressione fiscale
rischia di trasformare in depressione la recessione.
Guardiamo in maggior dettaglio il Sol Levante. N el 2011, in Giappone il
rapporto tra stock di debito e Pil ha toccato il 228%. Per il 2012 le stime
affermano che arriverà tra il 233 ed il 242% .I dettagli contano poco. È una
massa di debito pubblico in rapporto al
reddito nazionale pari a tre volte quella della Francia e della Spagna (pur se nella Repubblica
Iberica il debito nazionale il 360% del Pil a ragione del forte indebitamento
dell’industria edile e manifatturiera e del settore dei servizi finanziari).
Eppure, sul debito nipponico spira un venticello leggero che non fa presagire
tempeste. Perché? In primo luogo, meno del 5% dei titoli giapponesi sono
collocati all’estero. Di conseguenza, il Tesoro giapponese non deve convincere
risparmiatori e operatori stranieri ad acquistare le proprie obbligazioni
offrendo interessi tali di tener conto di eventuali perdite di valorizzazione
per il rischio di insolvenza. In secondo luogo, nonostante la marcata riduzione
accusata negli ultimi 15 anni, il tasso di risparmio delle famiglie giapponesi
è ancora sul 7% del reddito disponibile: un saggio pubblicato da Charles Yuji
Horioka e Wako Watanabe nell’ultimo fascicolo dell’Economic Journal,
sottolinea, sulla base di un’estesa ricerca empirica, che i giapponesi
risparmiano principalmente per «ragioni precauzionali ». In terzo luogo, il
mercato finanziario è formalmente «aperto », ma sostanzialmente molto chiuso e,
quindi, mancano le opportunità d’investimento. Tutto bene? Niente affatto. Il
Giappone è da oltre 15 anni in bilico tra stagnazione e recessione nonostante
una politica monetaria espansionista e disavanzi di bilancio iper-keynesiani
e, di tanto in tanto, ritocchi al tasso di cambio. Richard Koo ha documentato
come ormai l’obiettivo dei sempre più anziani giapponesi non sia quello di
«massimizzare l’utile», ma di «minimizzare il proprio indebitamento ». Le
grandi imprese sono sulla stessa strada. Il Giappone fucina di innovazione
degli Anni Cinquanta e Settanta è ormai un pallido ricordo. Il 'caso
giapponese' è stato lo stimolo agli studi di Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff
sul debito come freno alla crescita. Soprattutto, si è entrati in un circolo
vizioso da cui nessuno sa come uscirne.
Al’inizio di maggio è stato
presentato da un panel di eccezione (Victor Massiah, Salvatore Carruba, Mario
Deaglio, Daniel Gros, Yes Meny e Stefano Silvestri) e di fronte a un parterre
de rois il Sedicesimo Rapporto sull’economia globale e l’Italia del Centro di
Ricerca e Documentazione Luigi Einaudi. Quest’anno il documento è stato
intitolato “La Crisi che non Passa”.
Titolo quanto mai appropriato ma il dibattito non ha toccato uno dei punti
essenziali; quello della balance sheet
recession.
All’indomani delle elezioni in
Francia e in Grecia (e della tornata, pur se parziale, in Italia), si è tenuto un
vertice straordinario dei capi di Stato e di governo dell’Unione Europea in
modo da individuare modi e maniere per rilanciare la crescita. Ottima
intenzione ma di difficilissima attuazione. Le conclusioni sono state mediocri.
“Un’agenda sviluppista orientata
principalmente a contenere i programmi di austerità di finanza pubblica -
afferma, , Josè Winne, direttore della strategia valutaria per il Nord America
della sede della Barclay’s a New York - poiché i mercati mettono in questione
la solvibilità tanto degli Stati quanto degli intermediari finanziari”. Le
intenzioni del nuovo capo di Stato francese non convincono perché “la Francia
ha un margine di manovra molto stretto ed in effetti si deve impegnare a
consolidare il proprio bilancio e la propria finanza pubblica, aggiunge Nicolas
Véron del centro di ricerche Bruegel aggiungendo che numerosi risparmiatori
vorrebbero tornare a titoli francesi ad alto tasso di interesse (rispetto al
resto d’Europa) - come è avvenuto in Italia e Spagna con l’aumento dello
spread. Dennis Snower , l’economista di Oxford e Princeton che guida
l’Institute for World Economics a Kiel, in Germania, aggiunge: “Le politiche
keynesiane e neo-keynesiane non funzionano in una recessione di questo tipo”
In effetti, il nodo di fondo è politico:
in Germania i tassi d’interesse sono bassi e il tasso di crescita è sull’1,5-2
per cento a ragione delle riforme di struttura effettuate nel passato, del
risanamento della finanza pubblica e della costituzionalizazione dei vincoli di
bilancio, nonché di un sistema politico che evita gli estremi. Mentre in
Francia, Grecia e Italia un terzo circa dell’elettorato non vota contro o a
favore di questo o quello schieramento ma si esprime contro il sistema. Se non
si trova il modo di rimettere la politica su “un binario normale” con regole e
istituzioni accettate da tutti i cittadini, sarà difficile riportare in un
alveo anch’esso “normale” l’avversione al rischio e trovare il cammino della
crescita.
Tornare ad un “binario normale” non
basta: Occorre anche, a livello italiano, tagliare drasticamente i costi
politici ed amministrativi di transazione che soffocano l’economia e, a livello
europeo, di ammettere che l’unione monetaria così come concepita a Maastricht
ha fallito i propri obiettivi anche e soprattutto perché a) contraria ai
teoremi di base della teoria economica e b) basata sull’assunto che individui,
famiglie, imprese, pubblica amministrazione e ceto politico avrebbero cambiato
comportamenti basati su secoli di tradizione. Prima la si riforma drasticamente
meglio è. Per tutti.
Giuseppe Pennisi è consigliere del Cnel e docente
all’Università Europea di Roma.
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