giovedì 16 agosto 2012

L’EUROPA E LA SINDROME GIAPPONESE in Charta luglio-settembre


L’EUROPA E LA SINDROME GIAPPONESE
Giuseppe Pennisi

Tutti parlano da mesi della necessità e dell’urgenza di mettere in atto politiche, programmi e misure per rilanciare la crescita in un’Europa , in particolare, l’eurozona ormai considerata il “grande malato” dell’economia mondiale.
Diciamo le cose come stanno.Alcune  settimane fa, il socioeconomista (e demografo) americano Nick Eberstadt ha citato un romanzo di fantascienza del 1992 – The Children of Men di P.D. James – per ammonire che la «sindrome giapponese » è un spettro all’orizzonte di un’eurozona che potrebbe «socializzare» il debito sovrano degli Stati, ma chiudersi al resto del mondo: invecchiamento, denalità, per ogni bambino che nasce un uomo od una donna compie cento anni.
L’attuale recessione  è infatti differente rispetto a quelle di cui abbiamo avuto esperienza nel secondo dopoguerra. Non è stata determinata da un rallentamento, prima, e da un crollo, poi, della produzione. Oppure da un’improvvisa contrazione dei consumi.  Nell’eurozona (e negli Stati Uniti) si è alle prese con quella che Richard C. Koo - un economista nippo-americano che guida da anni il servizio studi del Nomura Research Institute ed insegna in una delle maggiori università di Tokyo  - chiama acutamente una balance sheets recession, ovvero una recessione dei conti profitti e perdite. Ciò si verifica quando alcuni asset perdono drasticamente di valore, causando crisi debitorie più o meno gravi, e gli obiettivi d’investimento di individui, famiglie e imprese mutano drasticamente: dalla “massimizzazione del profitto” si passa alla “minimizzazione dell’indebitamento” (per timore di nuove crisi debitorie). Per questo motivo la crisi è tanto grave e la stagnazione, accompagnata da momenti di recessione, minaccia di essere duratura.
- Specialmente in Europa: lo ha scritto in aprile l’“International Herald Tribune” in un magnifico editoriale in cui si criticava il Fiscal Compact che molti Stati europei, dopo averlo firmato o senza rendersi conto dei contenuti oppure nella convinzione di aggirarlo, si apprestano a ratificare. L’“International Herald Tribune” non citava né Koo né il suo libro più noto (The Holy Grail of Macroeconomics: Lessons from Japan’ Great Recession, John Wiley and Sons, Singapore 2008). Ma i concetti di base sono quelli della balance sheets recession e delle difficoltà che essa comporta. L’Italia, occorre dirlo, non è, per il momento, in una balance sheets recession particolarmente acuta a ragione della prudenza e del proprio sistema bancario e delle famiglie. Ma è contornata da Paesi in balance sheets recession (Francia, Spagna, Grecia, Portogallo, anche parte della Germania). È un vaso di coccio tra vasi di ferro. Dato il forte grado d’integrazione europea, viene trascinata dagli altri: la nostra recessione tradizionale dipende in gran misura dalle balance sheets recessions altrui.

La balance sheets recession più grave e più nota è la Grande Depressione del 1929: furono necessari 30 anni e una guerra mondiale perché la struttura dei tassi d’interesse degli Stati Uniti tornasse ad essere “normale”. Il Giappone è in una balance sheets recession da 15 anni: politiche monetarie e di bilancio espansioniste non hanno avuto effetti di rilievo a ragione della fortissima avversione al rischio (e all’indebitamento) di famiglie e imprese. Pochi sanno come uscire da una balance sheets recession. Tuttavia, se chi ha approfondito questo tema ha ragione, politiche fiscali e di bilancio restrittive non hanno altro effetto che quello di aggravare la recessione. In Italia, l’aumento della pressione fiscale rischia di trasformare in depressione la recessione.

Guardiamo in maggior dettaglio il Sol Levante. N el 2011, in Giappone il rapporto tra stock di debito e Pil ha toccato il 228%. Per il 2012 le stime affermano che arriverà tra il 233 ed il 242% .I dettagli contano poco. È una massa di debito pubblico  in rapporto al reddito nazionale pari a tre volte quella della Francia  e della Spagna (pur se nella Repubblica Iberica il debito nazionale il 360% del Pil a ragione del forte indebitamento dell’industria edile e manifatturiera e del settore dei servizi finanziari). Eppure, sul debito nipponico spira un venticello leggero che non fa presagire tempeste. Perché? In primo luogo, meno del 5% dei titoli giapponesi sono collocati all’estero. Di con­seguenza, il Tesoro giapponese non deve convincere risparmiatori e operatori stranieri ad acquistare le proprie obbligazioni offrendo interessi tali di tener conto di eventuali perdite di valorizzazione per il rischio di insolvenza. In secondo luogo, nonostante la marcata riduzione accusata negli ultimi 15 anni, il tasso di risparmio delle famiglie giapponesi è ancora sul 7% del reddito disponibile: un saggio pubblicato da Charles Yuji Horioka e Wako Watanabe nell’ultimo fascicolo dell’Economic Journal, sottolinea, sulla base di un’estesa ricerca empirica, che i giapponesi risparmiano principalmente per «ragioni precauzionali ». In terzo luogo, il mercato finanziario è formalmente «aperto », ma sostanzialmente molto chiuso e, quindi, mancano le opportunità d’investimento. Tutto bene? Niente affatto. Il Giappone è da oltre 15 anni in bilico tra stagnazione e recessione nonostante una politica monetaria espansionista e di­savanzi di bilancio iper-keynesiani e, di tanto in tanto, ritocchi al tasso di cambio. Richard Koo ha documentato come ormai l’obiettivo dei sempre più anziani giapponesi non sia quello di «massimizzare l’utile», ma di «minimizzare il proprio indebitamento ». Le grandi imprese sono sulla stessa strada. Il Giappone fucina di innovazione degli Anni Cinquanta e Settanta è ormai un pallido ricordo. Il 'caso giapponese' è stato lo stimolo agli studi di Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff sul debito come freno alla crescita. Soprattutto, si è entrati in un circolo vizioso da cui nessuno sa come uscirne.
Al’inizio di maggio è stato presentato da un panel di eccezione (Victor Massiah, Salvatore Carruba, Mario Deaglio, Daniel Gros, Yes Meny e Stefano Silvestri) e di fronte a un parterre de rois il Sedicesimo Rapporto sull’economia globale e l’Italia del Centro di Ricerca e Documentazione Luigi Einaudi. Quest’anno il documento è stato intitolato “La Crisi che non Passa”. Titolo quanto mai appropriato ma il dibattito non ha toccato uno dei punti essenziali; quello della balance sheet recession.

All’indomani delle elezioni in Francia e in Grecia (e della tornata, pur se parziale, in Italia), si è tenuto un vertice straordinario dei capi di Stato e di governo dell’Unione Europea in modo da individuare modi e maniere per rilanciare la crescita. Ottima intenzione ma di difficilissima attuazione. Le conclusioni sono state mediocri.
“Un’agenda sviluppista orientata principalmente a contenere i programmi di austerità di finanza pubblica - afferma, , Josè Winne, direttore della strategia valutaria per il Nord America della sede della Barclay’s a New York - poiché i mercati mettono in questione la solvibilità tanto degli Stati quanto degli intermediari finanziari”. Le intenzioni del nuovo capo di Stato francese non convincono perché “la Francia ha un margine di manovra molto stretto ed in effetti si deve impegnare a consolidare il proprio bilancio e la propria finanza pubblica, aggiunge Nicolas Véron del centro di ricerche Bruegel aggiungendo che numerosi risparmiatori vorrebbero tornare a titoli francesi ad alto tasso di interesse (rispetto al resto d’Europa) - come è avvenuto in Italia e Spagna con l’aumento dello spread. Dennis Snower , l’economista di Oxford e Princeton che guida l’Institute for World Economics a Kiel, in Germania, aggiunge: “Le politiche keynesiane e neo-keynesiane non funzionano in una recessione di questo tipo”
In effetti, il nodo di fondo è politico: in Germania i tassi d’interesse sono bassi e il tasso di crescita è sull’1,5-2 per cento a ragione delle riforme di struttura effettuate nel passato, del risanamento della finanza pubblica e della costituzionalizazione dei vincoli di bilancio, nonché di un sistema politico che evita gli estremi. Mentre in Francia, Grecia e Italia un terzo circa dell’elettorato non vota contro o a favore di questo o quello schieramento ma si esprime contro il sistema. Se non si trova il modo di rimettere la politica su “un binario normale” con regole e istituzioni accettate da tutti i cittadini, sarà difficile riportare in un alveo anch’esso “normale” l’avversione al rischio e trovare il cammino della crescita.
Tornare ad un “binario normale” non basta: Occorre anche, a livello italiano, tagliare drasticamente i costi politici ed amministrativi di transazione che soffocano l’economia e, a livello europeo, di ammettere che l’unione monetaria così come concepita a Maastricht ha fallito i propri obiettivi anche e soprattutto perché a) contraria ai teoremi di base della teoria economica e b) basata sull’assunto che individui, famiglie, imprese, pubblica amministrazione e ceto politico avrebbero cambiato comportamenti basati su secoli di tradizione. Prima la si riforma drasticamente meglio è. Per tutti.
Giuseppe Pennisi è consigliere del Cnel e docente all’Università Europea di Roma.

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