CINQUE ANNI DI CRISI
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Roma - Il Ferragosto 2012 verrà
ricordato da numerosi lettori di quotidiani come quello in cui la stampa
sciorina paginate di dati deprimenti sui cinque anni di crisi dei Paesi industrializzati
ad economia di mercato e in particolare dell’Europa (con un accento speciale
sui PIIGS- Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna). La crisi è
convenzionalmente iniziata nel luglio-agosto 2007 quando è scoppiata la bolla
dei mutui subprime negli Stati Uniti, seguita, circa 20 mesi più tardi,
dall’esplosione del debito sovrano nell’ancora balbettante eurozona. Dato che
lo stanno facendo tanti altri, non sta a Il Velino pubblicare serie storiche
statistiche e cronologie. Ormai le conoscono anche i gatti. E perdendosi tra le
cifre non si colgono i punti essenziali. Per l’Italia, bastano tre dati: il Pil
si è contratto del 13 per cento circa, il tasso di disoccupazione è aumentato
del 50 per cento e la partecipazione della produzione manifatturiera alla
formazione del prodotto nazionale è passata dal 22 per cento a meno del 15 per
cento. Nella loro crudezza dicono molto. Non dicono tutto, però, sulle
determinanti della crisi e su come uscirne. Forse, in queste ultime settimane,
uno dei saggi migliori in materia è stato pubblicato in The World Economy
(pp.869-885) da due economisti greci poco noti: Angelo Kotios, professore
emerito (quindi non giovane) di economia politica alla facoltà di Ingegneria
dell’Università della Tessaglia, e George Galanos, giovane docente di economia
internazionale all’Università della Tracia. Il loro saggio sostiene che la
crisi dell’economia dei Paesi Ocse (gran parte degli altri sono stati appena
sfiorati) è solo un aspetto di una più ampia crisi delle discipline economiche
che per comprendere ciò che avviene nel lungo, medio e breve periodo devono
coniugarsi con altre scienze.
A mio avviso, è difficile comprendere le determinanti di lungo periodo della crisi se non si fa ricorso alla storia. Sino al 1830 il 95 per cento della popolazione mondiale era a meri livelli di sussistenza e il 43 per cento del Pil mondiale veniva da India e Cina semplicemente a ragione del peso specifico della loro popolazione sul totale del mondo intero. Da allora un piccolo gruppo di Paesi si sono sganciati dal resto del convoglio perché hanno avuto il monopolio del progresso tecnologico. Lo hanno perso verso la seconda metà degli Anni Novanta e da allora è in corso un complesso, e complicato, processo di riassetto della produzione, dei consumi e dei redditi a livello mondiale : la crisi dei mutui subprime e del debito sovrano nell’eurozona sono epifenomeni di questo più profondo di riassetto. È la prima volta che la politica economica è alle prese con un cambiamento così radicale; quindi, balbetta nel cercare risposte. È impensabile tornare al monopolio del progresso in mano a un numero limitato di Paesi. È doloroso perderlo (per chi lo ha avuto) anche se, a livello mondiale, ciò ha comportato l’uscita di oltre un miliardo di persone dalla povertà assoluta. Forse, guardando al lungo periodo, si dovrebbe mirare a coniugare economia con storia e diplomazia per cercare, nell’ambito del G20, un modo su come ripartire i costi e i benefici della transizione.
Sotto il profilo del breve periodo l’economia, e soprattutto la finanza, dovrebbero coniugarsi con le scienze sperimentali e la psicologia. Il filone della neuro-economia e della neuro-finanza forniscono spiegazioni plausibili alle fluttuazioni degli spread e anche indicazioni in merito ai comportamenti per contenerle e non accentuarle. Tutto ciò comporta anche nuovi orientamenti per i giornalisti economici: neuro-economia e neuro-finanza spiegano da anni come i lettori intercettano e percepiscono le news, spesso nel senso opposto a quello inteso da chi le scrive. (ilVelino/AGV)
(Giuseppe Pennisi) 09 Agosto 2012 08:00
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