DA MONACO A BRUXELLES
Giuseppe
Pennisi
E’ senza dubbio difficile commentare l’intesa raggiunta a Bruxelles nelle
prime ore della mattina del 29 giugno avendo come unica fonte il vago
comunicato del Consiglio Europeo. I contenuti, e le forme, sono in gran misura
rimandate alla riunione ministeriale del 9-10 luglio. Dopo le prese di
posizione di Olanda e Finlandia, secondo cui l’intesa del 29 giugno sarebbe
un’inutile burletta, è probabile che il 9-10 luglio non si faccia molta strada.
Quindi, meglio che sull’intesa, è bene concentrarci su cosa resta dell’unione
monetaria europea dopo le recenti tornate negoziali e quali sono le misure
specifiche che possono essere adottate dall’Italia per contenere gli aumenti
dei tassi d’interesse sul proprio debito al rinnovo delle scadenze
In
estrema sintesi, con la frase Peace for Our Times il Premier
britannico Neville Chamberlain commentò, il 30 settembre 1938, l’accordo
appena raggiunto a Monaco, grazie alla mediazione di Benito Mussolini e con
la Germania sui confini del Terzo Reich. L’accordo fu di breve durata. E la
stessa frase con cui il primo ministro britannico aprì il proprio discorso
alla Camera dei Comuni conteneva un punta d’ironia. Peace for Our Times è ciò che si può dire dell’intesa raggiunta la
mattina del 29 giugno al Consiglio Europeo. È un’intesa a cui occorre ancora
dare contenuti puntuali, come le modalità degli interventi dei Fondi
salva-Stati (e forse anche della Banca centrale europea) per calmierare gli
spread , le soglie e i tetti previsti, l’esigenza o meno di politiche di
stabilizzazione e crescita sottostanti gli interventi, il sistema di
monitoraggio. La messa a punto è in corso in questi giorni e la sua
formalizzazione è stata rinviata alla riunione dei ministri dell’Economia e
delle Finanze del 9-10 luglio. Il Diavolo si nasconde nei dettagli. Tanto più
che l’intesa è stata raggiunta in un clima di diffidenza.
Tuttavia, già da adesso è chiaro che ove non si fosse raggiunto un’intesa, l’area dell’euro sarebbe finita nel caos; sarebbe rimasta in esistenza una moneta unica per Germania, Austria, Finlandia, Slovenia , Olanda, Lussemburgo e forse Francia, mentre il resto della zona sarebbe stato travolto da insolvenze e da possibili uscite dall’euro per tornare a svalutazioni competitive. Secondo stime, ancora inedite, di William Cline del Peterson Institute for International Economics, il fabbisogno finanziario complessivo di Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e Italia assomma ora a 1.250 miliardi di euro e avrebbe minacciato di crescere velocemente senza un meccanismo per calmierare gli spread. Nessun fondo Salva Stati sarebbe stato in grado di bloccare l’estendersi e l’approfondirsi della crisi.
Deve, però, essere anche chiaro a tutti che l’eurozona quale definita con il Trattato di Maastricht (firmato in un’atmosfera di reciproca fiducia) è stata così profondamente modificata da non esistere più (in un clima, in aggiunta, improntato a profonda sfiducia). Pochi, pure tra gli esperti, hanno metabolizzato questo punto. Il Trattato di Maastricht e quelli ad esso successivi vietano interventi come quelli alla base dell’intesa del 29 giugno, e non per un capriccio, ma per un’esigenza precisa: una politica unica della moneta (in mano alla Bce) e politiche di bilancio entro i parametri concordati dovrebbero non richiedere interventi di salvataggio o di calmiere se tutti operano lealmente secondo le regole del gioco. Così pare non essere stato.
Il sistema che sta emergendo è analogo a quello detto “di Bretton
Woods” che ha retto per 29 anni. Questo è il precedente più concreto del piano anti-spread
presentato da Italia, Spagna e – pare – Francia ed accettato (sembra) dalla
Germania e dagli altri. Il “regime monetario internazionale
di Bretton Woods”. Si basava su tassi di cambio fissi che poteva essere
soggetti a oscillazioni molto leggere: ad esempio, il tasso lira-dollaro Usa
era 625 (lire per dollaro) e poteva oscillare tra le 620 e le 630 lire. Attenzione:
l’intero sistema dava la priorità alla liberalizzazione del commercio
internazionale (tramite negoziati multilaterali in seno al General Agreement
on Tariffs and Trade) e permetteva il mantenimento (coordinato dal Fondo
monetario) di controlli valutari. Allora lo spread
non si manifestava in differenziali dei tassi d’interesse sui titoli dello
Stato, ma in tendenze dei tassi di cambio effettivi a travalicare le
oscillazioni. Prima di permettere una svalutazione (di solito decisa collegialmente
in seno agli organi di gestione del Fondo monetario con la notevole eccezione
della sterlina nel novembre 1967), si aveva accesso ad una vasta gamma di
facilitazione creditizie da parte del Fondo per mantenere il cambio entro il
margine di oscillazione. Man mano che le facilitazioni superavano un certo
livello diventavano sempre più onerose e richiedevano come “sottostante” un
programma di stabilizzazione da parte dello Stato interessato. Una curiosità:
nel 1964-65 l’Italia era alle prese con una crisi valutaria e aveva urgente
esigenza di supporto creditizio ma, al fine di evitare un programma targato Fondo
(si era nella prima esperienza del centro sinistra), il governo negoziò, con
la Banca mondiale, una linea di credito a rapida erogazione (100 milioni di
dollari, cifra all’epoca importantissima) per la Cassa del Mezzogiorno. Il
sollievo valutario riportò la lira nei margini d’oscillazione.
Con le differenze del caso, la proposta di acquisto di titoli da parte dei fondi SalvaStati e un domani dalla Bce sul mercato secondario ha molte analogie con il meccanismo riassunto: l’iniezione valutaria serve a calmierare il mercato e riguarda Stati e governi “virtuosi” che possono portare come «sottostante» misure adeguate. Ciò spiega perché il governo Monti abbia voluto recarsi a Bruxelles con la riforma del mercato del lavoro approvata dal Parlamento (quali che siano le opinioni sul merito) e con la spending review almeno all’apparenza ben avviata. Come ai tempi del regime di Bretton Woods, senza un “sottostante” di qualità, le iniezioni non curano il malato ma ne alleviano temporaneamente la pena.
Con le differenze del caso, la proposta di acquisto di titoli da parte dei fondi SalvaStati e un domani dalla Bce sul mercato secondario ha molte analogie con il meccanismo riassunto: l’iniezione valutaria serve a calmierare il mercato e riguarda Stati e governi “virtuosi” che possono portare come «sottostante» misure adeguate. Ciò spiega perché il governo Monti abbia voluto recarsi a Bruxelles con la riforma del mercato del lavoro approvata dal Parlamento (quali che siano le opinioni sul merito) e con la spending review almeno all’apparenza ben avviata. Come ai tempi del regime di Bretton Woods, senza un “sottostante” di qualità, le iniezioni non curano il malato ma ne alleviano temporaneamente la pena.
Dunque
, gli spread hanno il ruolo che avevano le oscillazioni 'moderate' dal
Fondo monetario internazionale e gli interventi dei salva-Stati quelli del
Fmi. L’euro-Berlino (l’àncora rispetto ai cui titoli si misurano gli spread e
si cercherà di calmierarli) quello del dollaro Usa. Tuttavia, il regime “di
Bretton Woods” operava in un contesto di
controlli valutari e il consiglio d’amministrazioni del Fmi (che si riunisce
tre volte la settimana) gestiva collegialmente i tassi di cambio decidendo su
svalutazioni e rivalutazioni. All’interno di un’unione monetaria non sono
possibili né controlli valutari né svalutazioni o rivalutazioni. Se, però,
divergono produttività e competitività si verificano 'svalutazioni fiscali' o
'rivalutazioni fiscali' interne dei livelli di potere d’acquisto. Secondo la
Commissione Europea, l’Italia ha subito dal 1999 una 'svalutazione fiscale'
del 30% . L’intesa del 29 giugno, non fa (e non poteva fare) nulla per curarla.
Il problema non dipende interamente da noi, ma , se non lo curiamo, non c’è anti-spread che tenga. Sotto questo
punto di vista, il Financial Times ha
pienamente ragione : la Germania non ha ceduto un bel nulla al tavolo del
negoziato, pur se ci ha concesso di sturare qualche bottiglia di champagne e,
tra ‘semestre bianco’ ed altro, al Governo Monti di restare in carica sino alla
fine della legislatura.
In effetti, il vertice del 28-29 giugno ed i suoi
risultati ricordano la commedia di Pirandello Ciascuno a suo modo, lavoro raramente rappresentato
perché richiede ben 42 personaggi in scena; oltre a prevedere, una volta alzato
il sipario, “teatro nel teatro”, richiede azione davanti al teatro nel prologo
e nel foyer durante gli intervalli. Il succo è che un banale fattaccio di
cronaca - un duello per ragioni di corna - viene interpretato in almeno una
dozzina di modi differenti quando uno dei protagonisti della vicenda decide di
scriverne un play e di metterlo in scena nel teatro più noto della
città. In breve, un Rashomon al cubo con una cinquantina d’anni
d’anticipo.
Ciascuno a suo modo non può non tornare alla mente leggendo i commenti di
numerosi giornalisti economici a proposito dell’intesa sullo scudo
anti-spread raggiunta a Bruxelles all’alba di venerdì. Come in Ciascuno
a suo modo, quale che sia la verità (a proposito delle corna e del duello)
uno solo dei vari personaggi sa trarne vantaggio. Almeno nel breve periodo
delle due ore e mezza della durata della commedia (annessi e connessi
compresi). Costui è il Presidente del Consiglio, Mario Monti, che esce, per il
momento, come il grande mediatore e il grande vincitore della lunga notte di
Bruxelles.
D’accordo con Spagna, Portogallo, Francia e qualche
comprimario (Irlanda e Cipro), ha giocato duro e ottenuto ciò che più voleva:
gli interventi dei fondi europei per calmierare, ove necessario, gli spread. Dato che la Fortuna aiuta gli
audaci, in parallelo, sul campo di calcio, la nazionale dell’Italia batteva
quella della Germania: un’accoppiata perfetta, utilizzando il lessico
dell’ippica.
Lo scudo di Monti - chiamiamolo così - guarda
più al fronte interno che all’avvenire di medio e lungo periodo dell’unione
monetaria. Come si è detto ove non si fosse raggiunta un’intesa, l’area
dell’euro sarebbe finita nel caos Tuttavia, i dividendi principali sono sul
piano interno e per Monti. Se il Presidente del Consiglio , fosse tornato a
casa a mani vuote, o peggio ancora sconfitto, il Governo da lui presieduto
avrebbe avuto pochi giorni di vita, si sarebbe andati a una “ordinaria
amministrazione” (forse guidata dallo stesso Professore) e alla preparazione di
elezioni in autunno. Ora lo scudo di Monti, e l’avvicinarsi del
“semestre bianco”, rendono improbabile questo scenario e molto realistico
invece quello di elezioni in primavera, dell’ascesa del Professore al Colle più
alto e della Presidenza del Consiglio affidata a tecnico-politici come Corrado
Passera e Luca Cordero di Montezemolo, con esecutivi a maggioranze variabili.
Di contenuti dei programmi non se parla. Questo è, però, l’argomento che
interessa meno le cene fredde nelle terrazze e nei roof gardens della
calda estate romana, dove si discetta di posti di Ministro e di Sottosegretario
per un esecutivo da formarsi in aprile-maggio 2013. Da ora ad allora, però,
molta acqua scorrerà sotto i ponti del Tevere, e della Sprea (il fiume di
Berlino).
La stessa intesa del 29 giugno, per quanto si possa comprendere,
è non solo vaga ma anche piena di contraddizioni e trabocchetti. Difficile, ad
esempio, capire perché i PIIGS (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia. Spagna),
specialmente Italia e Spagna, esultino all’aver ottenuto che i prestiti dai
fondi Salva Stati per calmierare gli spread non debbano essere considerati
“privilegiati” come quelli concessi da Fondo monetario, Banca centrale europea,
Banca mondiale e Banche regionali di sviluppo. Questo aspetto dell’intesa
potrebbe essere letto dai mercati come una dichiarazione di impotenza e come un
rischio concreto di insolvenza, facendo quindi aumentare gli spread ogni volta
che scattano interventi per calmierarli. Se ciò avviene, meglio non prendersela
con gli “gnomi di Zurigo”, come usava fare Nixon. Ma con noi stessi, come
Cassio dice a Bruto nel Giulio Cesare di
Shakespeare.
In attesa di poter disporre di un testo completo che si dovrà presentare a Parlamenti e opinioni pubbliche, occorre ribadire l’aspetto importante. Con l’intesa si è scardinato il Trattato di Maastricht. Senza predisporne uno ad esso alternativo. È difficile che l’accordo che ne dovrebbe risultare il 9-10 luglio (o molto più verosimilmente qualche settimana più tardi) possa essere considerato una mera misura amministrativa, una “cooperazione rafforzata”, da non sottomettere a ratifica dei Parlamenti dei 17 Stati dell’eurozona, ed in alcuni di essi a referendum - processo lungo mesi e tale da fare fibrillare i mercati. Un giudice costituzionale tedesco ha già detto che il Parlamento di Berlino dovrà esprimersi con una maggioranza di due terzi. La Cancelleria sulla riva della Sprea, e gli Stati ad essa più vicini, hanno quindi una pistola puntata alla tempia di chi brindava la mattina del 29 giugno.
Cominciano a chiedersi in molti se il gioco vale la candela. La rubrica “Charlemagne” del settimanale “The Economist” della settimana del 29 giugno-5 luglio compara l’eurozona ad un poveraccio sul tavolo delle tortura: il dilemma è se confesserà colpe e complici (per tentare di rimettere in sesto il marchingegno) o se morirà durante le torture. Più elegantemente Hal S. Scott dell’Università di Harvard ha appena pubblicato un dotto saggio giuridico (Harvard Public Law Working Paper n. 12-16) in cui si esamina come Grecia ed Italia possano uscire in modo ordinato dalla moneta unica e recuperare competitività. In parallelo, due economisti polacchi (Ernest Pytlarczyk e Stefan Kawalec) giungono nel CASE Network Research and Analyses N. 441) a conclusioni analoghe: un programma ben modulato per smantellare l’euro, non iniezioni per tentare di prolungare le sofferenze di tutti. Posizioni forse estreme ma su cui vale la pena meditare. Non celarle.
Non facciamoci
illusioni: i marchingegni anti-spread avranno
vita dura e breve se non c’è un nuovo trattato complessivo. Con una legislatura
agli sgoccioli, una ‘svalutazione fiscale almeno del 30%”, richieste di
rattoppi anti-spread , nel negoziare
un nuovo trattato di base per l’unione monetaria, l’Italia di Mario Monti non
ha il ruolo che aveva quella di Andreotti-Carli- De Michelis nella trattative
del 1991-93.
Ci sono però determinanti specifiche, politiche ed
economiche su cui non si sta ponendo sufficiente attenzione. Dalle quali anzi
l’anti-spread ci distrae Ma che i
mercati guardano con preoccupazione, anzi ansia. Ed alle quali il sistema
politico – ed il Governo che lo esprime – dovrebbe dare la massica cura. Sono
il “sottostante” vero dello spread.
In primo luogo, se
si votasse oggi il primo partito sarebbe verosimilmente il Pd (un quarto circa
dei voti), seguito dal Movimento Cinque Stelle (con il 20% dei suffragi). Gli
investitori esteri non vedono come con un assetto politico del genere si riesca
a fare traghettare il Paese verso una sponda più moderna e più giusta. Lo
stesso disegno di Monti - di ascendere al Quirinale e di costruire, dal Colle
più alto, una serie di “governi del Presidente” - pare poco realistico. Da Los
Angeles, lo dicono a tutto tondo i gestori di Pimco (il maggior conglomerato di
fondi obbligazionari) ai loro clienti. Aggiungendo che non si vede ombra di
riforma costituzionale che riduca drasticamente quei costi della politica che
frenano la produttività italiana.
In secondo luogo,
non si è fatto nulla per affrontare quello che, dopo i costi della politica, è
il secondo freno all’economia italiana: le rendite. Questo sarebbe dovuto
essere il compito precipuo di un Governo tecnico: dato che non cerca voti, o
combatte le lobby delle rendite o ne è prigioniero. Lo scrive a tutto tondo il
“Temi di Discussione” n. 830 della Banca d’Italia (quindi, non un foglietto
semi-clandestino ispirato dai nordici oltranzisti): se avessimo ridotto del 15%
- appena del 15% - le rendite (da quelle dei taxi a quelle delle autostrade, da
quelle delle farmacie a quelle dei notai), il Pil sarebbe aumentato di nove
punti percentuali negli ultimi sette anni (rispetto all’evoluzione deludente
che ha avuto). Il decreto Cresci Italia non sfiora neanche le rendite. I
gestori ne traggono le conclusioni: è bene stare lontani da dove dominano le
satrapie e i califfati. E negli ultimi sette anni, dati Istat alla mano, il
manifatturiero è passato dal 22% al 15% del Pil.
In terzo luogo, con buona pace del coretto a cappella
che intona le virtù delle Piccole e medie imprese italiane (Pmi) - molte delle
quali hanno trasferito i loro impianti all’estero - il gap tra l’innovazione
del settore produttivo italiano e quella del resto del mondo è in rapida
crescita. L’Occasional Paper n.121/2012 sempre della Banca d’Italia non solo
analizza il problema, ma indica anche alcune soluzioni. Auguriamoci che tra viaggi,
conferenze stampa, dichiarazioni estemporanee, crisi di astinenza da video, tra
Palazzo Chigi e dicasteri economici, qualcuno lo legga e ne tragga le
conclusioni.
In quarto luogo, economisti di scuola marxista
(Janossy) e liberale (Kindleberger), pur non conoscendosi e non avendo accesso
ai lavori l’uno dell’altro, hanno da decenni convenuto che le risorse umane
sono state la molla del “miracolo economico”, dell’industrializzazione, del
progresso tecnico in Italia. Non bisogna andare lontano: l’Occasional Paper N.
122 del 2012 sempre della Banca d’Italia delinea un programma di come
migliorare il nostro sistema d’istruzione.
In quinto luogo,
Mario Monti pare avere un ‘asso nella
manica’: lanciare il “tagliadebito”, ossia una proposta straordinaria per
ridurre il fardello dello stock di debito pubblico che frena la crescita
dell’economia italiana ed aggrava, ogni anno, l’indebitamento nella della
pubblica amministrazione.
Non è un caso
che proprio alla vigilia del vertice il Presidente della Consob , Giuseppe
Vegas, abbia presentato il progetto della istituzione di un fondo AAA (ossia
tripla A) garantito da immobili pubblici, asset di società quotate di livello e
riserve valutarie ed auree. Il fondo consentirebbe di ‘riscattare’ lo stock di
debito pubblico a tassi molto più bassi degli attuali (a ragione della solidità
della garanzia). Non è la prima proposta del genere presentata: il 5 giugno, in
un seminario (a cui non sono stati ammessi giornalisti), al Cnel sono state
passate in rassegna proposte ‘tagliadebito’ di una dozzina di esperti di rango
(Monorchio, Salerno Sarcinelli, Reviglio, Guglielmi, Pignataro, Masci) e che da
pochi giorni un e-book contenente le relazioni sia in bella vista ed
accessibile a tutti sul sito dell’organismo. Da un raffronto delle relazioni e
delle proposte presentate da altri (La Malfa, Savona) che non sono intervenuti
al seminario-confronto perché all’estero, si ricava una generale convergenza ,
anche con l’approccio che ispira la proposta Vegas, la prima non di un esperto
indipendente ma ‘ufficiale’ poiché di personalità che riveste un’importante
carica istituzionale. Monti può mettere nel piatto un ‘tagliadebito’ già
delineato nelle linee essenziali, su cui c’è consenso tra specialisti di scuole
differenti e che ora ha trovato un’autorevole sponda istituzionale.
Professori, si tacciano, vadano meno in televisione,
dichiarino poco, ma studino e facciano. Se vogliamo avere un ruolo nel rimettere
in sesto quel che resta dell’euro , sono questi i temi a cu badare.
Nessun commento:
Posta un commento