giovedì 16 agosto 2012

DA MONACO A BRUXELLES in MondOperaio luglio-agosto


DA MONACO A BRUXELLES
Giuseppe Pennisi
E’ senza dubbio difficile commentare l’intesa raggiunta a Bruxelles nelle prime ore della mattina del 29 giugno avendo come unica fonte il vago comunicato del Consiglio Europeo. I contenuti, e le forme, sono in gran misura rimandate alla riunione ministeriale del 9-10 luglio. Dopo le prese di posizione di Olanda e Finlandia, secondo cui l’intesa del 29 giugno sarebbe un’inutile burletta, è probabile che il 9-10 luglio non si faccia molta strada. Quindi, meglio che sull’intesa, è bene concentrarci su cosa resta dell’unione monetaria europea dopo le recenti tornate negoziali e quali sono le misure specifiche che possono essere adottate dall’Italia per contenere gli aumenti dei tassi d’interesse sul proprio debito al rinnovo delle scadenze
In estrema  sintesi, con la frase Peace for Our Times il Premier britannico Neville Chamberlain commentò, il 30 set­tembre 1938, l’accordo appena raggiunto a Mo­naco, grazie alla mediazione di Benito Mussoli­ni e con la Germania sui confini del Terzo Reich. L’accordo fu di breve durata. E la stessa frase con cui il primo ministro britannico a­prì il proprio discorso alla Came­ra dei Comuni conteneva un pun­ta d’ironia. Peace for Our Times è ciò che si può dire dell’intesa raggiunta la mattina del 29 giugno al Consiglio Europeo. È un’intesa a cui occorre ancora dare contenuti puntuali, come le modalità degli interventi dei Fondi salva-Stati (e forse anche della Banca centrale europea) per calmierare gli spread , le soglie e i tetti previsti, l’esigenza o meno di politiche di sta­bilizzazione e crescita sottostanti gli interventi, il sistema di monitoraggio. La messa a punto è in corso in questi giorni e la sua formalizzazione è stata rinviata alla riunione dei ministri dell’Eco­nomia e delle Finanze del 9-10 luglio. Il Diavolo si na­sconde nei dettagli. Tanto più che l’intesa è stata raggiunta in un clima di diffidenza.

Tuttavia, già da adesso è chiaro che ove non si fos­se raggiunto un’intesa, l’area dell’euro sarebbe fi­nita nel caos; sarebbe rimasta in esistenza una moneta unica per Germania, Austria, Finlandia, Slovenia , Olanda, Lussemburgo e forse Francia, mentre il resto della zona sarebbe stato travolto da insolvenze e da possibili uscite dall’euro per tor­nare a svalutazioni competitive. Secondo stime, ancora inedite, di William Cline del Peterson In­stitute for International Economics, il fabbisogno finanziario complessivo di Grecia, Irlanda, Porto­gallo, Spagna e Italia assomma ora a 1.250 miliar­di di euro e avrebbe minacciato di crescere velo­cemente senza un meccanismo per calmierare gli spread. Nessun fondo Salva Stati sarebbe stato in grado di bloccare l’estendersi e l’approfondirsi della crisi.
 
Deve, però, essere anche chiaro a tutti che l’eurozona quale defini­ta con il Trattato di Maastricht (fir­mato in un’atmosfera di recipro­ca fiducia) è stata così profonda­mente modificata da non esiste­re più (in un clima, in aggiunta, improntato a profonda sfiducia). Pochi, pure tra gli esperti, hanno metabolizzato questo punto. Il Trattato di Maastricht e quelli ad esso successivi vietano interventi come quelli alla base dell’intesa del 29 giugno, e non per un capriccio, ma per un’esi­genza precisa: una politica uni­ca della moneta (in mano alla B­ce) e politiche di bilancio entro i parametri concordati dovrebbero non richiede­re interventi di salvataggio o di calmiere se tutti operano lealmente secondo le regole del gioco. Così pare non essere stato.
Il sistema che sta emergendo è analogo a quello detto “di Bretton Woods” che ha retto per 29 an­ni.  Questo  è il precedente più concreto  del piano anti-spread presentato da Italia, Spagna e – pare – Francia ed accettato (sembra) dalla Germania e dagli altri.  Il “regime moneta­rio internazionale di Bretton Woods”. Si basava su tassi di cambio fissi che poteva essere soggetti a o­scillazioni molto leggere: ad esempio, il tas­so lira-dollaro Usa era 625 (lire per dollaro) e poteva oscillare tra le 620 e le 630 lire. Atten­zione: l’intero sistema dava la priorità alla li­beralizzazione del commercio internaziona­le (tramite negoziati multilaterali in seno al General Agreement on Tariffs and Trade) e permetteva il mantenimento (coordinato dal Fondo monetario) di controlli valutari. Allora lo spread non si manifestava in diffe­renziali dei tassi d’interesse sui titoli dello Sta­to, ma in tendenze dei tassi di cambio effet­tivi a travalicare le oscillazioni. Prima di per­mettere una svalutazione (di solito decisa col­legialmente in seno agli organi di gestione del Fondo monetario con la notevole ecce­zione della sterlina nel novembre 1967), si a­veva accesso ad una vasta gamma di facilita­zione creditizie da parte del Fondo per man­tenere il cambio entro il margine di oscilla­zione. Man mano che le facilitazioni supera­vano un certo livello diventavano sempre più onerose e richiedevano come “sottostante” un programma di stabilizzazione da parte dello Stato interessato. Una curiosità: nel 1964-65 l’Italia era alle prese con una crisi va­lutaria e aveva urgente esigenza di supporto creditizio ma, al fine di evitare un program­ma targato Fondo (si era nella prima espe­rienza del centro sinistra), il governo negoziò, con la Banca mondiale, una linea di credito a rapida erogazione (100 milioni di dollari, cifra all’epoca importantissima) per la Cassa del Mezzogiorno. Il sollievo valutario riportò la lira nei margini d’oscillazione.

Con le differenze del caso, la proposta di ac­quisto di titoli da parte dei fondi SalvaStati e un domani  dalla Bce sul mercato secondario ha molte a­nalogie con il meccanismo riassunto: l’inie­zione valutaria serve a calmierare il mercato e riguarda Stati e governi “virtuosi”  che pos­sono portare come «sottostante» misure a­deguate. Ciò spiega perché il governo Monti abbia voluto recarsi a Bruxelles con la rifor­ma del mercato del lavoro approvata dal Par­lamento (quali che siano le opinioni sul me­rito) e con la spending review almeno all’ap­parenza ben avviata. Come ai tempi del regi­me di Bretton Woods, senza un “sottostante” di qualità, le iniezioni non curano il malato ma ne alleviano temporaneamente la pena.

Dunque , gli spread hanno il ruolo che avevano le o­scillazioni 'moderate' dal Fondo monetario in­ternazionale e gli interventi dei salva-Stati quelli del Fmi. L’euro-Berlino (l’àncora rispetto ai cui ti­toli si misurano gli spread e si cercherà di cal­mierarli) quello del dollaro Usa. Tuttavia, il regi­me “di Bretton Woods”  operava in un contesto di controlli valutari e il consiglio d’amministrazio­ni del Fmi (che si riunisce tre volte la settimana) gestiva collegialmente i tassi di cambio deciden­do su svalutazioni e rivalutazioni. All’interno di un’unione monetaria non sono possibili né con­trolli valutari né svalutazioni o rivalutazioni. Se, però, divergono produttività e competitività si ve­rificano 'svalutazioni fiscali' o 'rivalutazioni fi­scali' interne dei livelli di potere d’acquisto. Se­condo la Commissione Europea, l’Italia ha subi­to dal 1999 una 'svalutazione fiscale' del 30% . L’intesa del 29 giugno, non fa (e non poteva fare) nulla per curarla. Il problema non dipende interamente da noi, ma , se non lo curiamo, non c’è anti-spread che tenga. Sotto questo punto di vista, il Financial Times ha pienamente ragione : la Germania non ha ceduto un bel nulla al tavolo del negoziato, pur se ci ha concesso di sturare qualche bottiglia di champagne e, tra ‘semestre bianco’ ed altro, al Governo Monti di restare in carica sino alla fine della legislatura.
In effetti, il vertice del 28-29 giugno ed i suoi risultati ricordano la commedia di Pirandello Ciascuno a suo modo, lavoro raramente rappresentato perché richiede ben 42 personaggi in scena; oltre a prevedere, una volta alzato il sipario, “teatro nel teatro”, richiede azione davanti al teatro nel prologo e nel foyer durante gli intervalli. Il succo è che un banale fattaccio di cronaca - un duello per ragioni di corna - viene interpretato in almeno una dozzina di modi differenti quando uno dei protagonisti della vicenda decide di scriverne un play e di metterlo in scena nel teatro più noto della città. In breve, un Rashomon al cubo con una cinquantina d’anni d’anticipo.
Ciascuno a suo modo non può non tornare alla mente leggendo i commenti di numerosi giornalisti economici a proposito dell’intesa sullo scudo anti-spread raggiunta a Bruxelles all’alba di venerdì. Come in Ciascuno a suo modo, quale che sia la verità (a proposito delle corna e del duello) uno solo dei vari personaggi sa trarne vantaggio. Almeno nel breve periodo delle due ore e mezza della durata della commedia (annessi e connessi compresi). Costui è il Presidente del Consiglio, Mario Monti, che esce, per il momento, come il grande mediatore e il grande vincitore della lunga notte di Bruxelles.
D’accordo con Spagna, Portogallo, Francia e qualche comprimario (Irlanda e Cipro), ha giocato duro e ottenuto ciò che più voleva: gli interventi dei fondi europei per calmierare, ove necessario, gli spread. Dato che la Fortuna aiuta gli audaci, in parallelo, sul campo di calcio, la nazionale dell’Italia batteva quella della Germania: un’accoppiata perfetta, utilizzando il lessico dell’ippica.
Lo scudo di Monti - chiamiamolo così - guarda più al fronte interno che all’avvenire di medio e lungo periodo dell’unione monetaria. Come si è detto ove non si fos­se raggiunta un’intesa, l’area dell’euro sarebbe fi­nita nel caos Tuttavia, i dividendi principali sono sul piano interno e per Monti. Se il Presidente del Consiglio , fosse tornato a casa a mani vuote, o peggio ancora sconfitto, il Governo da lui presieduto avrebbe avuto pochi giorni di vita, si sarebbe andati a una “ordinaria amministrazione” (forse guidata dallo stesso Professore) e alla preparazione di elezioni in autunno. Ora lo scudo di Monti, e l’avvicinarsi del “semestre bianco”, rendono improbabile questo scenario e molto realistico invece quello di elezioni in primavera, dell’ascesa del Professore al Colle più alto e della Presidenza del Consiglio affidata a tecnico-politici come Corrado Passera e Luca Cordero di Montezemolo, con esecutivi a maggioranze variabili. Di contenuti dei programmi non se parla. Questo è, però, l’argomento che interessa meno le cene fredde nelle terrazze e nei roof gardens della calda estate romana, dove si discetta di posti di Ministro e di Sottosegretario per un esecutivo da formarsi in aprile-maggio 2013. Da ora ad allora, però, molta acqua scorrerà sotto i ponti del Tevere, e della Sprea (il fiume di Berlino).
La stessa intesa del 29 giugno, per quanto si possa comprendere, è non solo vaga ma anche piena di contraddizioni e trabocchetti. Difficile, ad esempio, capire perché i PIIGS (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia. Spagna), specialmente Italia e Spagna, esultino all’aver ottenuto che i prestiti dai fondi Salva Stati per calmierare gli spread non debbano essere considerati “privilegiati” come quelli concessi da Fondo monetario, Banca centrale europea, Banca mondiale e Banche regionali di sviluppo. Questo aspetto dell’intesa potrebbe essere letto dai mercati come una dichiarazione di impotenza e come un rischio concreto di insolvenza, facendo quindi aumentare gli spread ogni volta che scattano interventi per calmierarli. Se ciò avviene, meglio non prendersela con gli “gnomi di Zurigo”, come usava fare Nixon. Ma con noi stessi, come Cassio dice a Bruto nel Giulio Cesare di Shakespeare.

In attesa di poter disporre di un testo completo che si dovrà presentare a Parlamenti e opinioni pubbliche, occorre ribadire l’aspetto importante. Con l’intesa si è scardinato il Trattato di Maastricht. Senza predisporne uno ad esso alternativo. È difficile che l’accordo che ne dovrebbe risultare il 9-10 luglio (o molto più verosimilmente qualche settimana più tardi) possa essere considerato una mera misura amministrativa, una “cooperazione rafforzata”, da non sottomettere a ratifica dei Parlamenti dei 17 Stati dell’eurozona, ed in alcuni di essi a referendum - processo lungo mesi e tale da fare fibrillare i mercati. Un giudice costituzionale tedesco ha già detto che il Parlamento di Berlino dovrà esprimersi con una maggioranza di due terzi. La Cancelleria sulla riva della Sprea, e gli Stati ad essa più vicini, hanno quindi una pistola puntata alla tempia di chi brindava la mattina del 29 giugno.

Cominciano a chiedersi in molti se il gioco vale la candela. La rubrica “Charlemagne” del settimanale “The Economist” della settimana del 29 giugno-5 luglio  compara l’eurozona ad un poveraccio sul tavolo delle tortura: il dilemma è se confesserà colpe e complici (per tentare di rimettere in sesto il marchingegno) o se morirà durante le torture. Più elegantemente Hal S. Scott dell’Università di Harvard ha appena pubblicato un dotto saggio giuridico (Harvard Public Law Working Paper n. 12-16) in cui si esamina come Grecia ed Italia possano uscire in modo ordinato dalla moneta unica e recuperare competitività. In parallelo, due economisti polacchi (Ernest Pytlarczyk e Stefan Kawalec) giungono nel CASE Network Research and Analyses N. 441) a conclusioni analoghe: un programma ben modulato per smantellare l’euro, non iniezioni per tentare di prolungare le sofferenze di tutti. Posizioni forse estreme ma su cui vale la pena meditare. Non celarle.
Non facciamoci illusioni: i marchingegni anti-spread avranno vita dura e breve se non c’è un nuovo trattato complessivo. Con una legislatura agli sgoccioli, una ‘svalutazione fiscale almeno del 30%”, richieste di rattoppi anti-spread , nel negoziare un nuovo trattato di base per l’unione monetaria, l’Italia di Mario Monti non ha il ruolo che aveva quella di Andreotti-Carli- De Michelis nella trattative del 1991-93.
Ci sono però  determinanti specifiche, politiche ed economiche su cui non si sta ponendo sufficiente attenzione. Dalle quali anzi l’anti-spread ci distrae Ma che i mercati guardano con preoccupazione, anzi ansia. Ed alle quali il sistema politico – ed il Governo che lo esprime – dovrebbe dare la massica cura. Sono il “sottostante” vero dello spread.
In primo luogo, se si votasse oggi il primo partito sarebbe verosimilmente il Pd (un quarto circa dei voti), seguito dal Movimento Cinque Stelle (con il 20% dei suffragi). Gli investitori esteri non vedono come con un assetto politico del genere si riesca a fare traghettare il Paese verso una sponda più moderna e più giusta. Lo stesso disegno di Monti - di ascendere al Quirinale e di costruire, dal Colle più alto, una serie di “governi del Presidente” - pare poco realistico. Da Los Angeles, lo dicono a tutto tondo i gestori di Pimco (il maggior conglomerato di fondi obbligazionari) ai loro clienti. Aggiungendo che non si vede ombra di riforma costituzionale che riduca drasticamente quei costi della politica che frenano la produttività italiana.
In secondo luogo, non si è fatto nulla per affrontare quello che, dopo i costi della politica, è il secondo freno all’economia italiana: le rendite. Questo sarebbe dovuto essere il compito precipuo di un Governo tecnico: dato che non cerca voti, o combatte le lobby delle rendite o ne è prigioniero. Lo scrive a tutto tondo il “Temi di Discussione” n. 830 della Banca d’Italia (quindi, non un foglietto semi-clandestino ispirato dai nordici oltranzisti): se avessimo ridotto del 15% - appena del 15% - le rendite (da quelle dei taxi a quelle delle autostrade, da quelle delle farmacie a quelle dei notai), il Pil sarebbe aumentato di nove punti percentuali negli ultimi sette anni (rispetto all’evoluzione deludente che ha avuto). Il decreto Cresci Italia non sfiora neanche le rendite. I gestori ne traggono le conclusioni: è bene stare lontani da dove dominano le satrapie e i califfati. E negli ultimi sette anni, dati Istat alla mano, il manifatturiero è passato dal 22% al 15% del Pil.
In terzo luogo, con buona pace del coretto a cappella che intona le virtù delle Piccole e medie imprese italiane (Pmi) - molte delle quali hanno trasferito i loro impianti all’estero - il gap tra l’innovazione del settore produttivo italiano e quella del resto del mondo è in rapida crescita. L’Occasional Paper n.121/2012 sempre della Banca d’Italia non solo analizza il problema, ma indica anche  alcune soluzioni. Auguriamoci che tra viaggi, conferenze stampa, dichiarazioni estemporanee, crisi di astinenza da video, tra Palazzo Chigi e dicasteri economici, qualcuno lo legga e ne tragga le conclusioni.
In quarto luogo, economisti di scuola marxista (Janossy) e liberale (Kindleberger), pur non conoscendosi e non avendo accesso ai lavori l’uno dell’altro, hanno da decenni convenuto che le risorse umane sono state la molla del “miracolo economico”, dell’industrializzazione, del progresso tecnico in Italia. Non bisogna andare lontano: l’Occasional Paper N. 122 del 2012 sempre della Banca d’Italia delinea un programma di come migliorare il nostro sistema d’istruzione.
In quinto luogo, Mario Monti pare avere un ‘asso nella manica’: lanciare il “tagliadebito”, ossia una proposta straordinaria per ridurre il fardello dello stock di debito pubblico che frena la crescita dell’economia italiana ed aggrava, ogni anno, l’indebitamento nella della pubblica amministrazione.
Non è un caso che proprio alla vigilia del vertice il Presidente della Consob , Giuseppe Vegas, abbia presentato il progetto della istituzione di un fondo AAA (ossia tripla A) garantito da immobili pubblici, asset di società quotate di livello e riserve valutarie ed auree. Il fondo consentirebbe di ‘riscattare’ lo stock di debito pubblico a tassi molto più bassi degli attuali (a ragione della solidità della garanzia). Non è la prima proposta del genere presentata: il 5 giugno, in un seminario (a cui non sono stati ammessi giornalisti), al Cnel sono state passate in rassegna proposte ‘tagliadebito’ di una dozzina di esperti di rango (Monorchio, Salerno Sarcinelli, Reviglio, Guglielmi, Pignataro, Masci) e che da pochi giorni un e-book contenente le relazioni sia in bella vista ed accessibile a tutti sul sito dell’organismo. Da un raffronto delle relazioni e delle proposte presentate da altri (La Malfa, Savona) che non sono intervenuti al seminario-confronto perché all’estero, si ricava una generale convergenza , anche con l’approccio che ispira la proposta Vegas, la prima non di un esperto indipendente ma ‘ufficiale’ poiché di personalità che riveste un’importante carica istituzionale. Monti può mettere nel piatto un ‘tagliadebito’ già delineato nelle linee essenziali, su cui c’è consenso tra specialisti di scuole differenti e che ora ha trovato un’autorevole sponda istituzionale.
Professori, si tacciano, vadano meno in televisione, dichiarino poco, ma studino e facciano. Se vogliamo avere un ruolo nel rimettere in sesto quel che resta dell’euro , sono questi i temi a cu badare.





Nessun commento: