l’analisi Berlino sente il peso della «rivalutazione interna»
DI GIUSEPPE PENNISI
I nodi che affliggono la Siemens so¬no solamente a carattere azienda¬le o sono un sintomo di un proble¬ma più vasto di politica economica che può avere effetti anche su di noi? La¬sciamo agli aziendalisti esaminare se l’impresa abbia commesso errori (an¬che solamente di scarsa 'efficienza a¬dattiva', ossia di poca capacità ad a¬dattarsi al mutamento del contesto in cui opera). Nonostante la Repubblica Federale Tedesca sia l’unico grande Paese dell’Unione Europea con pro¬spettive di crescita per il 2012 (pur se ad un modesto 1% del Pil o giù di lì), il suo export (209 miliardi di dollari Usa ne¬gli ultimi 12 mesi) abbia superato quel¬lo della Cina, il tasso di disoccupazio¬ne resti al di sotto del 7% della forza la¬voro ed i consumi privati crescano a cir¬ca il 3% l’anno, l’indice di fiducia delle imprese è al livello più basso dall’esta¬te 2009. È ancora più significativo l’in¬dicatore delle aspettative dei dirigenti responsabili degli acquisto: non solo è tornato ai livelli di tre anni fa ma gli or-dinativi dall’eurozona (Germania com¬presa) hanno segnato una contrazione del 5% in un anno. Inoltre, inchieste condotte dalla Confindustria tedesca tra le piccole e medie imprese suggeri¬scono che una percentuale crescente del comparto è in difficoltà. In contra¬zione severa gli investimenti, un ele¬mento eloquente perché se le imprese non destinano risorse all’aumento del¬la capacità produttiva ciò vuol dire che vedono davvero nero.
Sono segni che «la locomotiva è stan¬ca » (di trainare il resto della zona euro) come suggerisce The Economist ? Sono indicazioni, come dicono altri, che la Germania sbaglia nel perseguire il ri¬gore , per sé e per gli altri, e che presto si dovrà ricredere (con vantaggi anche per i Piigs, cioè Portogallo, Irlanda, Ita¬lia, Grecia e Spagna)? Nessuna di queste due ipotesi regge se si indossano gli occhiali dell’analisi e¬conomica. La Repubblica Federale pa¬re avere i prodromi di un 'mal tede¬sco' per alcuni aspetti analogo al 'mal olandese' dell’inizio degli Anni Ottan¬ta. Da un lato, come nei Paesi Bassi trent’anni fa, l’afflusso di capitali (in O¬landa a ragione del gas naturale del Ma¬re del Nord; in Germania dovuto alla 'fuga' da Paesi considerati a rischio nell’eurozona) provoca un apprezza¬mento del cambio che rende la vita dif¬ficile all’industria manifatturiera: in un’unione monetaria non si manifesta in un aumento palese del valore inter¬nazionale della moneta ma in una 'fi¬scal appreciation' che è il risvolto del¬la 'fiscal devaluation' riscontrata nei Piigs (in pratica aumenti dei prezzi e dei salari corrispondenti alla contra¬zione dei salari reali riscontrata nel Piigs). Il quadro è, però, più complesso di quello del 'mal olandese' di tre decen¬ni fa (allora curato con drastiche rifor¬me interne ed una politica fisco-mo¬netaria 'accomodante' ad aumenti dei consumi). L’unione monetaria, infatti, ingabbia la Germania (come gli altri): Berlino non può agire sul cambio che , a livello internazionale, è deprezzato ri¬spetto a quello di un ipotetico D-mark. Con i risultati in materia di export che si toccano con mano.
Non c’è da stare allegri. La Germania di oggi ha lo stesso problema di quella di Bismarck : un suo starnuto provoca la polmonite al resto d’Europa. Al tempo stesso, però, non è abbastanza forte da togliere la castagne dal fuoco agli eu¬ropei in difficoltà.
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