sabato 25 agosto 2012

L'economia politica di Wolfgang Amadeus Mozart in La Nuova Antologia n. 2 2012

anno 147°


Nuova Antologia

Rivista di lettere, scienze ed arti

Serie trimestrale fondata da

Giovanni Spadolini

Aprile-Giugno 2012

Vol. 608° - Fasc. 2262

Le Monnier – Firenze

ESTRATTO: Giuseppe Pennisi, L’economia politica di Wolfgang Amadeus Mozart

Un insolito successo editoriale

Nessuno se lo aspettava. Meno di tutti l’editore: una piccola casa di

Varese specializzata in collane musicali (la Zecchini Editore) che pubblica

uno dei cinque periodici del settore (l’unico che non si vende con gadget

come dischi o Dvd). In anni in cui non c’è alcuna ricorrenza mozartiana e

tutti coloro che appartengono al mondo della musica sono intenti a predisporre

i 200 anni dalla nascita di Verdi e Wagner (ambedue cadono nel

2013), l’edizione italiana in tre volumi dell’epistolario integrale di Wolfgang

Amadeus Mozart e della sua famiglia è diventato uno dei successi editoriali

a cavallo tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012. Per i musicologi non è

una novità, in quanto giunge con cinquanta anni di ritardo dall’edizione

originale in tedesco pubblicata da Bärenrieter sotto gli auspici del Mozarteum

di Salisburgo. In breve, coloro del mestiere, che leggono il tedesco, da lustri

hanno gustato il carteggio (o se ne sono annoiati perché tratta poco di musica

ma molto di faccende personali). Ora è nelle mani di coloro che un

tempo venivano chiamati «persone colte». La prima tornata è sparita in

poche settimane e si è prodotta subito una ristampa giunta a metà gennaio

nelle librerie o che si può richiedere all’editore (info@zecchini.com).

Come spiegare il successo? Tanto più che poca pubblicità è stata fatta

e l’opera non costa poco: il prezzo di copertina è 89 euro. Il cofanetto è

elegante; i tre tomi (quasi duemila pagine) sono ben rilegati e stampati su

carta fine e con grafica preziosa. Possono sembrare un soprammobile in

un’abitazione di chi voglia essere considerato «intellettuale» oppure solamente

«una persona colta». Non mancano antologie dell’epistolario di

Mozart, in gran misura basate sull’opera dell’editore Bärenrieter del 1962.

L’ECONOMIA POLITICA

DI WOLFGANG AMADEUS mozart

L’economia politica di Wolfgang Amadeus Mozart 141

La più importante è un volume curato da Elisa Ranucci e pubblicato nel

1981 dalla casa editrice Guanda, ma è limitata e carente per quanto riguarda

le note. Gran parte delle lettere, poi, è di carattere familiare; la metà

circa tra Wolfgang Amadeus ed il padre Leopoldo, con cui il compositore

aveva un rapporto complicato. Utilizzando questa antologia e lettere tradotte

dal tedesco dal direttore d’orchestra Francesco La Vecchia, in ottobre

2011, l’Orchestra Sinfonica di Roma (con la partecipazione di Giorgio

Albertazzi) ha inaugurato la stagione 2011-2012 con un concerto di cui si

avrà presto un Dvd.

A differenza di quanto hanno scritto altri (ad esempio, Norbert Elias)

non credo che la «psicologia» o la «sociologia» di un genio interessino più

di tanto gli italiani di oggi. Ancor meno il suo lessico a volte sguaiato e

cosa gli piacesse fare sotto le lenzuola. Ciò che ha attratto un economista

melofilo alla lettura dei tre volumi – ovviamente una lettura da centellinare

– è la possibilità di utilizzare l’epistolario come chiave interpretativa di

una società in rapida trasformazione (le ultime decadi del Settecento) in

cui il riformismo dell’Illuminismo (delle varie sette massoni-cattoliche a

cui Mozart ed il suo mondo appartenevano) si scontrava con una reazione

oscurantistica. Sfogliando le lettere e soffermandosi su alcune di esse si

comprende meglio l’età di Mozart.

Alcuni anni fa, Mozart fu al centro di un altro insolito successo editoriale

Mozart massone e rivoluzionario di Lidia Bramani (Bruno Mondadori,

2005). Giunto tempestivamente in libreria in occasione dei 250 anni

dalla nascita del compositore – quell’anno al festival di Salisburgo vennero

messe in scena tutte le sue 22 opere per il teatro –, il saggio (500 pagine a

stampa fitta e frutto di anni di lavoro) sembrava interessare unicamente i

cultori della materia. Ci furono ben cinque ristampe.

La lettura delle lettere (certamente studiate da Livia Bramani nell’edizione

Bärenrieter) permette di fare alcune correzioni di tiro significative.

Questo Wolfgang Amadeus era «massone e rivoluzionario» o piuttosto «illuminista

e riformatore»? E consente, almeno in parte, di spiegare perché il

giovane compositore, che, dopo la definitiva rottura con il principe-arcivescovo

di Salisburgo Hyeronymus von Colleredo, aveva spesso difficoltà a

mettere insieme il pranzo con la cena, rifiutò due ingaggi a lungo termine

ben remunerati da parte rispettivamente di Haydn per conto di un impresario

londinese (alla ricerca di un nuovo Händel, dopo la morte di quest’ultimo)

e del re di Prussia (per l’incarico a cui sarebbe approdato Gaspare Spontini).

La «massoneria» a cui Mozart fu affiliato (ne era lo stesso Imperatore)

e di cui Lidia Bramani traccia un interessante quadro nel primo capitolo del

suo libro non era composta di sette segrete, atee e vagamente repubblicane.

142 Giuseppe Pennisi

In Baviera, Austria e Lombardo-Veneto (allora un unico mondo ed un’unica

cultura in cui il ceto istruito era bilingue oppure trilingue) era composta di

gruppi di cattolici imbevuti d’illuminismo. La Loggia in cui Mozart si iscrisse

come «apprendista» a Vienna il 14 dicembre 1784 si chiamava «La Beneficenza

» ed aveva chiare finalità solidaristiche. Il cattolicesimo di Mozart

esplode dalla lettera da Parigi al padre del 9 luglio 1778 in cui lo informa

della morte della madre, «così semplice e così bella» e della propria «completa

e fiduciosa rassegnazione alla volontà di Dio». Nella lettera, riflette

sulla sua stessa futura morte: «quando Dio lo vorrà, lo vorrò anche io». In

un’altra lettera da Vienna, il 13 giugno 1981, fornisce al padre i dettagli di

come segua i «precetti» come «il non mangiar carne in tutti i giorni di magro».

Quasi a corollario, nella lettera straziante dell’11 dicembre 1791 (a

pochi giorni dalla morte del compositore) in cui la moglie Constanze si rivolge

all’Imperatore per avere una pensione per la sussistenza sua e dei figli,

c’è un riferimento esplicito ai pochi anni sia di servizio presso la camera

musicale imperiale sia di partecipazione ad una società mutualistica per

potere fruire di un trattamento previdenziale – non aveva quindi ciò che

oggi in termine tecnico economico si chiama il vesting per avere titolo ad

una pensione, e tanto meno ad una pensione di reversibilità per i superstiti

(moglie e figli minorenni).

Le lettere mostrano, soprattutto, come Wolfgang Amadeus fosse a

lungo influenzato, più che dagli «Illuminati» della «cattolicissima Baviera»,

da quelli che vengono chiamati «Gli Illuministi Settentrionali» (presso le

librerie telematiche o dai rigattieri si può trovare ancora la bella antologia

curata da Sergio Romagnoli ed edita da Rizzoli nel 1962) come i fratelli

Verri, Cesare Beccaria, Gian Rinaldo Carli, Francesco Algarotti, Salerio

Bettinelli, Carlo Denina. Non dimentichiamo che gran parte del suo teatro

in musica è su testi in italiano, che si era immerso nella cultura italiana nei

tre viaggi effettuati negli anni formativi di passaggio dall’adolescenza alla

giovinezza. Aveva avuto certamente accesso a «Il Caffè» – punto di riferimento

dell’Illuminismo riformista italiano (anche in quanto alcuni articoli

erano dedicati esplicitamente alla «commedia» ed alla «musica»), conosceva

il saggio di Francesco Algarotti sull’opera lirica, e le «meditazioni» di

Pietro Verri sull’economia politica e sulla politica tout court.

Nella vastità della produzione di Mozart (l’edizione discografica pubblicata

per il duecentocinquantenario dalla nascita comprende 150 Cd), il

teatro musicale esprime un Mozart «rivoluzionario» unicamente ne Le

nozze di Figaro (dove contessa e cameriera cambiano abito per complottare

contro i rispettivi mariti); lo stesso «rivoluzionario» Don Giovanni viene

punito. Mostra invece un Mozart riformista, specialmente in Lucio Silla,

L’economia politica di Wolfgang Amadeus Mozart 143

Idomeneo, La clemenza di Tito favorevole ad un ordine costituito ma progressista,

alla maniera del circolo de «Il Caffè». O meglio che da «Il Caffè»

andava verso il «socialismi paradisiaco» dell’Illuminismo bavarese.

Dalle lettere traspare la sua scelta di abbracciare la libera professione

(decisione rarissima per un musicista dell’epoca) e di declinare gli inviti da

Londra e Berlino per un amore per l’economia di mercato e di competizione

(anch’essa singolare in un’economia dove si era o in mera sussistenza o

sotto il controllo dell’intervento della burocrazia del sovrano) – approccio

molto più vicino alle «meditazioni» economiche di Pietro Verri che agli

scritti degli «Illuminati» bavaresi, i quali si interessarono di medicina, psicologia,

diritto e filosofia. Gli unici che sfiorarono l’economia (Franz Heinrich

Ziegenhagen, Rudolf Blumauer) lo fecero con una visione di «socialismo

paradisiaco», presente unicamente negli ultimi due lavori per la scena di

Mozart, La clemenza di Tito e, soprattutto, Die Zauberflöte. Significativo,

a riguardo, l’intenso carteggio con il padre nella primavera del 1781, quando,

dopo i viaggi in Italia, dopo Parigi, Mannheim e Monaco in Baviera,

decide di passare il resto della propria vita a Vienna. Nelle lettere si respira

l’entusiasmo per la città e per il suo «sconfinato» potenziale – quasi che

Wolfgang Amadeus presagisse, cosa sarebbe diventata nell’Ottocento e

nella prima parte del Novecento quella che ai suoi tempi non era una delle

capitali europee né a più alto reddito né a maggiore sviluppo tecnologico o

artistico: da un lato, un laboratorio musicale (più per sinfonica e cameristica

che per teatro in musica), da un altro un laboratorio intellettuale (dalla

culla della psicoanalisi a quella «scuola austriaca» di pensiero economica

che aveva il proprio perno nell’«individualismo metodologico»).

In questo articolo non propongo un’esegesi dell’epistolario ma di accostare

le lettere ad alcuni gruppi di opere – le «opere serie», i maggiori Singspiel,

e la trilogia su libretti di Lorenzo Da Ponte. Anche all’interno dei tre gruppi

si devono fare scelte, dato che l’universo mozartiano è sterminato. Delle

«opere serie», ad esempio, ne tratto solamente quattro – Mitridate, re di

Ponto, Lucio Silla, Idomeneo, Re di Creta e La Clemenza di Tito – non solamente

perché sono le più significative ma perché ripercorrono l’esistenza

di Mozart dall’adolescenza alla morte. Dei Singspiel, i due più noti (specialmente

al pubblico italiano) Die Entfürung aus dem Serail e Die Zauberflöte.

Naturalmente, le tre opere della trilogia con Da Ponte vengono trattate nella

loro integrità concettuale e musicale.

Una premessa: dall’epistolario risulta che Mozart non si interessasse

quasi affatto di questioni di denaro (anche per questo aveva sempre le tasche

vuote), tranne che negli ultimi due anni, quando il compositore e la famiglia

sopravvivevano in miseria). Il compositore tratta relativamente poco di

144 Giuseppe Pennisi

economia in maniera diretta; invece, il mondo che lo circondava soprattutto

il padre Leopold era molto attento alle vicende economiche ed alla loro

interpretazione. Tale interpretazione veniva in parte riversata, più o meno

consapevolmente, nei lavori del figlio. Ne emerge un quadro interessante:

più o meno quando in Scozia dalla filosofia morale nasceva l’economia

politica, nella piccola Salisburgo e nella grande Vienna, musicisti, imbevuti

di «Illuminismo Settentrionale» milanese formulavano non certo teoremi

ma considerazioni analoghe. Mentre in Baviera l’Illuminismo prendeva la

corsia del «socialismo paradisiaco», una forma estrema di quello che Karl

Marx avrebbe etichettato «socialismo scientifico».

Le opere serie: il principe e la mano invisibile

Le principali «opere serie» di Mozart hanno un fil rouge che le lega

nonostante il passare degli anni ed il cambiamento delle stesse «convenzioni

» del teatro in musica: la prima è andata in scena a Milano il 26 dicembre

1770 (data importante perché in occasione di Santo Stefano iniziava «la

stagione» principale del teatro, stagione che si sarebbe protratta sino alla

fine del Carnevale) e l’ultima il 6 settembre 1791 a Praga, appena otto

settimane prima della morte del compositore. Il fil rouge è nei libretti ma

ancor più nella musica: il contrasto tra la supposta onnipotenza, ove non

onniscienza del principe (o del dittatore), e la «mano invisibile» che lo costringe

a mutare obiettivi e strategia, con veri e propri «colpi di scena».

Tale «mano invisibile» è rappresentata in certi casi dai «cittadini» o dal

«popolo»; in altri da una cerchia più ristretta di familiari, ove non dai propri

figli (i cui obiettivi sono «particolaristici», come quelli del droghiere di

Adam Smith, ma portano alla ricomposizione finale) – quell’«armonia sociale

» che è connaturata nel «lieto fine» di rigore nell’«opera seria» del

Settecento e dei primi decenni dell’Ottocento (prima che venisse travolta

in Italia dal melodramma donizettiano e verdiano, in Francia dalla «tragédie

lyrique» e in Germania dall’«opera romantica tedesca»).

Mitridate, re di Ponto è un remake per Milano di un’opera dallo stesso

titolo e, in linea di massima, con lo stesso libretto (di Vittorio Maria Cigna-

Scotti) andata in scena a Torino nel 1767 per la musica dell’ormai dimenticato

Quirino Gasparini. Ambedue hanno origine nella tragedia di Racine

Mythridate tradotta in italiano da quel Giuseppe Parini, elegante poeta ed

ironista – per decenni nei licei italiani si è studiato il suo capolavoro

Il Giorno – imbevuto più di molti altri dell’«Illuminismo Settentrionale».

Nelle tragedie di Racine, il lato più importante è l’eleganza del verso; lo

L’economia politica di Wolfgang Amadeus Mozart 145

sviluppo psicologico dei personaggi è invece modesto e la stessa drammaturgia

elementare. Parini, pur raffinatissimo, mise, nel tradurre, un po’

della sua ironia; Cigna-Scotti era un librettista da dozzina. Dall’epistolario

risulta come per l’adolescente Wolfgang Amadeus la preparazione di quello

che sarebbe dovuto essere il debutto più importante, fu una vera sofferenza:

il libretto venne consegnato tardi, i cantanti, scelti dall’impresario,

facevano le bizze, Wolfgang Amadeus a 14 anni li giudicava da fine critico

musicale e si dava poco conto degli aspetti amministrativi (e compone serenate

per le belle fanciulle che incontra, musica per la madre lontana e via

discorrendo). Da una lettera di Leopold alla moglie del 24 marzo 1770

apprendiamo che la «scrittura» (ossia il contratto d’ingaggio) è finalmente

fatta, anche se a prezzi di saldo rispetto a quanto ottenevano musicisti allora

famosi ma già obliati pochi anni più tardi. La «scrittura» è una benedizione

perché i Mozart sono, per così dire, in «aspettativa senza assegni»

dal servizio presso l’Arcivescovado di Salisburgo e nel viaggio in Italia

cercano di risparmiare facendosi ospitare da amici e conoscenti, anche in

quanto le locande sono ricettacoli di borseggiatori e ladroni.

Mentre l’opera viene composta, Leopold documenta nella lettera del

21 agosto 1770 da Bologna quanto gli economisti tedeschi (anche quelli

della Baviera) negavano nel loro approccio «storicistico» alla «triste scienza»:

l’economia ha le sue proprie leggi. Un terremoto nella lontana Santo Domingo

fa sì che «i signori commercianti coglieranno l’occasione per aumentare

il prezzo dello zucchero dato che laggiù le piantagioni di canna da

zucchero sono andate distrutte». Ma grazie al suolo della Pianura padana,

mangiano, «con moderazione», «fichi, meloni e altri frutti». Al giovane

Wolfgang non manca il fruttosio, pur se prima di concentrarsi su Mitridate

compone a destra ed a manca tante altre cose (spesso per il corteggiamento

di fanciulle – è un quattordicenne precoce).

Veniamo all’opera: l’anziano Re di Ponto si è fidanzato con la bella e

giovanissima Aspasia, desiderata però dai due suoi figli, e pretendenti al

trono, Sifare e Farnace. Quest’ultimo è desiderato anche da Ismene, figlia

del re dei Parti, ma pur di avere Aspasia, tradisce i suoi e trama con i romani.

Battaglia finale: Mitridate ferito a morte da il trono e la mano di

Aspasia a Sifare e perdona il traditore Farnace che sposa Ismene (e presumibilmente

lascia con lei il Ponto per insediarsi nel Regno dei Parti). L’opera

viene raramente rappresentata in Italia; ne ricordo una bella esecuzione

al teatro Olimpico di Vicenza negli anni Ottanta con la regia di Jean-Pierre

Ponnelle e la direzione musicale di Nikolaus Harnoncourt. Ne è stato tratto

un interessante Dvd. Ne ascoltai una versione integrale quando ero liceale,

grazie all’AGIMUS, nell’auditorium della Rai a Roma curata dai Vir-

146 Giuseppe Pennisi

tuosi di Roma diretti da Renato Fasano. Un’esecuzione sfiora, con due intervalli,

le cinque ore. Nella recente produzione a Monaco (un successo

tale che verrà ripresa al festival nel luglio 2012) dura tre ore e mezzo ed è

attualizzata a vicenda di amore ed eros tra ragazzi dei giorni nostri. Il quattordicenne

Mozart sapeva di dovere dare maggiore attenzione ai cantanti (i

veri «divi» dell’«opera seria») che alla vicenda di passioni e tradimenti sulle

sponde del Mar Nero (di cui non si avverte l’onda neanche in un unico

accordo). Invece, si sente subito una forte carica di innovazione: una rapida

sinfonia in tre tempi (allegro-andante-presto), recitativi secchi vivaci

corrispondenti alle esigenze del testo (non semplici interludi tra arie), nelle

arie più importanti («Nel sen mi palpita il dolente cor» di Aspasia) una

linea vocale drammatica senza cedimenti alla fin troppo facile tentazione

della coloratura, e nel finale momenti che, correttamente, secondo il musicologo

inglese Charles Osborne, anticipano il durchkomponiert wagneriano.

È in questo finale, così insolito per il 1770, che si avverte come l’opera (che

ebbe un travolgente successo, di cui Leopold è accurato cronista nella sue

lettere) non è saggio scolastico di un adolescente ma un piccolo gioiello; la

«mano invisibile» sconvolge sia i piani di Farnace (che si ravvede) sia la

scrittura vocale ed orchestrale: alla consueta composizione di archi, due

oboi e due corni, Wolfgang aggiunge le trombe.

Lucio Silla viene commissionata dal teatro Ducale di Milano sulla scia

dell’esito trionfale di Mitridate. È un’altra «opera seria», di successo nell’ultimo

scorcio del Settecento ma poco apprezzata sino a tempi recenti quando

nel 1983, in un allestimento scaligero Patrice Chéreau mostrò come le

pulsioni del quattordicenne autore di Mitridate erano diventate, due anni

dopo, una vera e propria esplosione ormonale. Nel 2006 in una coproduzione

con il festival di Salisburgo, Jürgen Flimm (uno dei più noti registi

tedeschi; anzi il metteur en scène preferito dal compianto Giuseppe Sinopoli)

ne mostrò la valenza politica. Il librettista, Giovanni da Gamerra, era

un poetucolo che valeva poco e nulla. Silla non è il sadico e crudele dittatore

delle Vite parallele di Plutarco o il simbolo stesso del potere assoluto

del De tirannide di Seneca. Poco o niente ha a che fare il libretto di da

Gamerra con la storia romana e con lo stesso inspiegabile ritiro del tiranno

a vita rurale. Nell’opera di Mozart, Silla è un ragazzone cresciuto male ed

educato peggio; per lui il potere politico è soltanto uno strumento per portarsi

a letto le donne che sul momento desidera: si è invaghito della casta

Giunia, sposa di Cecilio (spedito al confino). D’intesa con Cinna e Clelia,

però, Giunia (tutta d’un pezzo come la Leonore del Fidelio di Beethoven)

decide di pugnalare il tirannico giovanotto non appena sono sotto le lenzuola

(e Silla non ha né mutande né tanto meno spada). L’improvviso arri-

L’economia politica di Wolfgang Amadeus Mozart 147

vo di Cecilio a tutela della moglie fa saltare tutto. Ma, dopo avere fatto

loro passare una notte in galera, Silla perdona i congiurati poiché in effetti

è logoro del troppo potere e delle troppe donne. Attenzione, nella drammaturgia

di Flimm (che si può gustare in un ottimo Dvd), dopo avere perdonato

tutti e messosi quasi in pensione, il tiranno Silla viene ucciso da uno

dei popolani che hanno sofferto sotto la sua tirannide. Ciò coglie bene lo

spirito di una partitura in cui il sedicenne Mozart rispetta tutte le convenzioni

dell’«opera seria» settecentesca (sinfonia tripartita, diciotto arie, un

duetto, un terzetto ed un concertato, lieto fine) ma utilizza in modo mirabile

gli strumenti a fiato e le percussioni, infonde una straordinaria dose di

sensualità nella scrittura orchestrale e vocale e rende Giunia un personaggio

di grande complessità psicologica e musicale (quasi un anticipo della

«tragédie lyrique» francese preromantica).

Non solo, la passione è anche politica; a Milano, dove si respira «Illuminismo

Settentrionale» si può trattare un tema – il tirannicidio – centrale,

ad esempio, all’opera di Vittorio Alfieri ma vietatissimo a Vienna (ed ancor

più a Monaco) e che, dopo il congresso di Vienna, sarebbe diventato off

limits pure nel Lombardo-Veneto (come ben apprese Verdi tramite le traversie

per mettere in scena Rigoletto, Un Ballo in Maschera e le varie versioni

de Les Vêpres Siciliennes). Il tirannicidio, inoltre, viene orchestrato

in una Roma «repubblicana» dove il popolo ed il Senato hanno un ruolo

crescente. E con essi la consapevolezza del mercato e delle ineguaglianze

che esso comporta se non è ben funzionante.

Ancora una volta, occorre rifarsi al carteggio tra Leopold e la moglie

per toccare con mano temi che dovevano essere di conversazione corrente

nell’entourage di Wolfgang: i prezzi a Salisburgo crescevano rapidamente

ed i salari reali diminuivano, creando povertà ed emigrazione di talenti

(1° settembre 1770); la classe politica bada a sé stessa e si spartisce «rendite

» (sempre 1° settembre 1770); anche accanto alla Curia papale i giochi

si fanno duri ed hanno come oggetto potere e denaro (22 settembre 1770):

«che ne sarà di Salisburgo se non si pensa al mezzo di stabilire un regime

più sano?» (27 ottobre 1770); «in Italia va tutto in modo folle» (1° dicembre

1770); il mercato non funziona perché l’imbroglio è sovrano (primo

marzo 1771); il travisamento dell’informazione relativamente a «una guerra

italiana di cui si parla tanto in Germania» anche se «non c’è nulla di

vero» (Wolfgang alla madre, 7 novembre 1772); la scoperta di un «nuovo

gioco che qui si chiama ‘mercante in fiera’» (Wolfgang alla sorella 5 dicembre

1772) e che esalta l’azzardo. In questo clima, tra capricci di prime

donne e di tenori, ritardi nei pagamenti, va in scena un Lucio Silla attesissimo

(«alle 5 il teatro era tutto pieno», 2 gennaio 1773) e Mozart illustra

148 Giuseppe Pennisi

la formazione dei prezzi, il funzionamento del mercato, le sua disfunzioni

e la sua antitesi alla «tirannide».

Passano circa otto anni tra Silla e Idomeneo, Re di Creta. Tra le due si

situano opere semi-serie all’italiana (Il Re Pastore» e La Finta Giardiniera),

un’incompiuta (e non si sa da chi commissionata) «opera seria» in tedesco

(Zaide), le musiche di scena per Thamos ed un numero vastissimo di sinfonie,

concerti, serenate e quant’altro. Secondo Paolo Isotta, Idomeneo, re di

Creta «rappresenta, nonostante tutto quello che Mozart vi fece seguire, Die

Zauberflöte compreso, il più strenuo e più riuscito sforzo del musicista per

toccare la sublimità tragica e la potenza espressiva». Edward J. Dent dà un

giudizio analogo nella sua opera fondamentale sul teatro di Mozart. Wolfgang

la compose nel 1780. Dopo un periodo di oblio, è oggi una delle opere mozartiane

più amate dal pubblico. Se ne sono viste di recente edizioni in tutti

i maggiori teatri italiani e stranieri. Apprezzabile una produzione, frutto

della collaborazione di numerosi teatri (Torino, Bologna, Modena, Reggio

Emilia, Ferrara e Ravenna) a ragione dei mezzi che l’allestimento richiede,

che ha girato per mezza Italia. Il libretto, apparentemente una parabola

edificante, del modesto abate Gian Battista Varesco è di stampo metastasiano.

Quindi, già rétro quando venne scritto. Di ritorno dalla guerra di Troia

(nella vita di Mozart e nelle sue opere, i viaggi non mancano mai), Idomeneo,

re di Creta, nel corso di una tempesta marina, promette a Nettuno di sacrificare

la prima persona che incontrerà all’approdo. Questi è il principe

reggente, l’avvenente Idamante, suo figlio, conteso tra la troiana Ilia e la

greca Elettra, ambedue vogliose di portarlo a letto prima e all’altare poi (le

donne mozartiane, va ricordato, sono tutt’altro che fragili). Per amore paterno,

il re non mantiene la promessa. Nettuno invia un mostro che minaccia

di divorare tutti i cretesi. Idamante, per amor di patria, lo uccide, ma i sacerdoti

reclamano, comunque, il sacrificio. Il giovane principe è pronto a

farsi sgozzare. Mentre Idomeneo sta per farlo, Ilia si sostituisce a Idamante

e chiede di essere immolata al posto suo. Nettuno perdona tutti; Idamante

ascende al trono coniugato a Ilia; Elettra si dispera in isterica follia, mentre

si celebra il nuovo re.

Come riuscì da questo pasticcio, un ventiquattrenne (o giù di lì) quale

era allora Mozart, in procinto di lasciare un impiego sicuro ed a tempo

indeterminato a Salisburgo (dove lo offendeva dover pranzare e cenare con

la servitù (lettera al padre del 17 marzo 1780), per una dura scoperta del

mondo da musicista libero professionista, a tirare fuori un capolavoro sommo?

Neanche nella più nota trilogia dapontiana, il compositore austriaco

ritrovò la compattezza musicale di Idomeneo. Mai la musica per teatro di

Mozart, neanche nelle ultime opere, ebbe un’orchestrazione, al tempo stes-

L’economia politica di Wolfgang Amadeus Mozart 149

so, così complessa e così smagliante, nonché parti vocali tanto innovative,

quali il grande quartetto del terzo atto, in cui si fondono un recitativo secco,

un duetto, un recitativo accompagnato e un concertato a quattro voci,

oppure l’ultima aria di Elettra in cui si rompe la consueta divisione in numeri.

Per un quartetto analogo a quello del terzo atto di Idomeneo si sarebbe

dovuto aspettare il Rigoletto circa 70 anni più tardi e per un’aria simile

si deve giungere quasi all’ultimo Giuseppe Verdi – quello di Aida, se presentata

in versione intimista – o a Richard Strauss. Ci si chiede spesso cosa

abbia portato Mozart a una vetta così alta partendo da un libretto convenzionale

di «opera seria», pur se fortemente marcato dalla rivoluzione gluckiana

allora in corso e dai canoni della «tragédie lyrique». Al giovane

adulto, che componeva Idomeneo, stava stretta la cappa protettiva del padre.

Ed ancora di più gli stavano strettissime le regole di Palazzo imposte

dal camerlengo conte Karl Joseph Felix von Arco passato alla storia per le

pedate nel fondoschiena che fecero da contrappunto al licenziamento di

Wolfang Amadeus dai servigi presso l’Arciverscovado. Aveva, inoltre, una

vita sentimental-erotica complicata ed era già in cammino verso il «praticantato

», per così dire, della massoneria. In quel lavoro, quindi, riversò e

sublimò le proprie tensioni interiori, sia quelle nevrotiche sia quelle politiche.

Nella partitura abbiamo le nevrosi dei rapporti con il padre-padrone

Leopold nell’interazione tra Idomeneo ed Idamante; le nevrosi delle relazioni

anche sessuali con le donne nel triangolo Idamante-Ilia-Elettra; le

nevrosi del nesso con Dio (il burrascoso rapporto tra Idomeneo e Nettuno).

In Idomeneo, dette ai propri conflitti interiori uno spessore universale e

atemporale, tanto che si sono visti allestimenti dell’opera con scene e costumi

di epoca bonapartiana e anche da secondo dopoguerra. Sotto il profilo

politico, il ventiquattrenne Mozart aveva già le idee chiare. Non un

«rivoluzionario», ma un «riformista» che adorava l’armonia della monarchia

(non per nulla si iscrisse alla loggia più vicina alla Corte), ma la voleva

temperata (in Idomeneo come in Lucio Silla, il sovrano assoluto perde lo

scettro). Aveva pregiudizi vagamente razzisti (nei confronti dei turchi e di

coloro dalla pelle nera – che sarebbero stati evidenziati con maggior forza

in Die Zauberflöte), avvertiva ma non approvava la forza interiore e l’astuzia

delle donne e in un unico lavoro (Le Nozze di Figaro) espresse un punto

di vista politicamente tutt’altro che corretto, con la «doppia rivoluzione»

delle donne e della servitù.

Nella coproduzione che ha girato per sei teatri italiani, l’«opera seria»

viene presentata in una versione non filologica: si segue essenzialmente la

prima edizione, approntata per Monaco di Baviera dove andò in scena nel

1781, ma viene eliminato (anche per ragioni di economia) il lungo balletto

150 Giuseppe Pennisi

finale e vengono incorporati alcuni passaggi della edizione predisposta

dalla stesso Mozart nel 1786 per Vienna, dove, a quel che si sa, non andò

mai in scena. Il ruolo di Idamante, originariamente scritto per un castrato,

è interpretato da un mezzo soprano. Nell’edizione per Vienna venne riscritto

per un tenore leggero e inclusa, per chi cantava il ruolo, un’aria con solo

accompagnamento di violino che è un vero splendore. Lo spettacolo dura

complessivamente circa tre ore e mezzo con i due intervalli. Nel teatro in

musica di Mozart, come si è detto, Idomeneo ha avuto un lungo periodo di

oblio. Dopo una tornata di rappresentazioni a Monaco nel 1781 e la revisione

eseguita per Vienna, l’opera di fatto sparì dai repertori. Nell’Ottocento,

veniva rappresentata solo in Germania e tradotta in tedesco dalla versione

originale in italiano. Fu quel genio di Richard Strauss a riproporla nel

Novecento con una sua propria riorchestrazione. Soltanto negli ultimi

trent’anni, e in particolare dal 1980 (o giù di lì), è entrata tra i lavori mozartiani

rappresentati con frequenza nei teatri italiani nell’orchestrazione

originaria. Eppure – come si è visto – da molti viene considerata il capolavoro

assoluto di Mozart per il teatro: l’opera in cui più precorre i tempi

sotto il profilo musicale e nella quale svela meglio, al tempo stesso, il proprio

credo politico e le sue nevrosi più intime. L’allestimento citato (il più visto

di recente in Italia) pone l’accento sugli aspetti «politici»: la centralità della

persona e del perseguimento della felicità. Sulla scena (realizzata da

Santi Centineo con i costumi di Giusi Giustino) si svolge un dramma atemporale

di sentimenti, eros e interazione con sé stessi. La scena è stilizzata

con il mare sempre presente, l’attrezzeria è composta unicamente da un

grande letto a due piazze e una decapottabile americana anni Cinquanta in

malo arnese. Il primo è il talamo che Ilia sogna per sé ed Idamante; il secondo

l’auto con cui Elettra si trascina nell’arcipelago greco e in cui nel

secondo atto toglie la verginità al giovane principe. Nettuno è lo specchio

freudiano di Idomeneo, di cui il re riesce a liberarsi solo quando, dopo le

traversie dei suoi cari, acquista contezza della sofferenza. È una lettura che

regge drammaturgicamente molto meglio di quella fortemente politica (di

«scontro di civiltà» alla Samuel Huntington) che nello stesso periodo è

partita da Aix-en-Provence per raggiungere Brema, Vienna, Lussemburgo

e vari teatri francesi – un altro Idomeneo viaggiante.

Da queste letture «politiche», si può giungere anche a letture di economia

politica? A livello astratto, ed inespresso, Idomeneo ci mostra una visione

economiche di «mercati e gerarchie», quale quella che ottanta anni dopo

avrebbe teorizzato Alfred Marshall e in tempi più recenti, Oliver Williamson,

nonché in Italia, tutta la scuola di economia istituzionale interessata ai «distretti

industriali». Non si può certo pensare che il ventiquattrenne Wolfgang

L’economia politica di Wolfgang Amadeus Mozart 151

precorresse la visione di quelli che sarebbe stati «i distretti marshalliani»

(quali teorizzati da uno dei maestri della scuola americana di diritto pubblico

dell’economia) e la letteratura ad essi attinenti, ma il ritorno dell’armonia

a Creta in un sistema gerarchico dove un re eletto dal popolo, Idamante,

tempera il mercato fornisce una chiave di lettura interessante. La conoscenza

di microeconomia, e di una microeconomia di mercati e gerarchie, è

nell’epistolario: il 2 febbraio 1778 (mentre Idomeneo era in fattura) Leopold

esterna alla moglie la preoccupazione per quella che si chiamerebbe oggi la

«governance» dell’Impero dopo la conquista delle miniere di sale bavaresi

da parte dell’Austria; il 7 febbraio 1778 è Wolfgang a scrivere alla madre un

mini trattato su economia e matrimonio (di convenienza nei ceti ad altro

reddito, mentre «noi povera gente comune non soltanto dobbiamo prendere

una donna che amiamo e che ci ama, ma dobbiamo, possiamo e vogliamo

prenderla così poiché non siamo nobili, né altolocati, né aristocratici, né

ricchi, ma piuttosto umili, miseri e poveri; perciò non abbiamo bisogno di

una moglie ricca»); ancora sempre il 7 febbraio 1778, l’apodittico: «la nostra

ricchezza muore con noi perché ce la abbiamo nella testa» (un’anticipazione

della «teoria del capitale umano») ; infine, l’«economia dei bordelli», di cui

ha contezza nella città libertina per eccellenza (Parigi), ma da cui si tiene

lontano, scrivendo al padre il 22 febbraio 1778: «sono un Mozart, ma un

giovane Mozart benpensante», modo elegante per dire che far sesso gli piace

molto, ma non va con prostitute. E, su tutto, il peso della nuova imposizione

fiscale che là dove il principe non è saggio, e le gerarchie non correggono

le imperfezioni del mercato ma le aggravano, distruggono la crescita e

portano alle «maledizioni della gente» (da Leopold a Salisburgo a Wolfgang

a Parigi il 28 maggio 1778).

Indubbiamente, in terra di Baviera, ciò che dai Mozart (padre e figlio)

era stato assorbito dagli «Illuministi Settentrionali» comincia a colorarsi del

«socialismo paradisiaco» degli illuministi bavaresi ricordati nella prima

sezione di questo articolo – nella congerie dei socialismi chiamati «utopistici

» da Marx. Comincia pure l’avvicinamento verso la massoneria cattolica

del mondo di lingua tedesco – il percorso iniziatico di Mozart sarebbe

stato formalmente avviato quattro anni dopo, come si è ricordato. In Idomeneo,

c’è un punto importante: il nesso sia drammaturgico (il passaggio

da potere carismatico a potere fondato sul consenso di aristocratici e «popolo

» in senso lato, nonché da una generazione all’altra) che musicale (in

«pianissimo») – una coincidenza tra il finale di Idomeneo e quello della

terza versione del verdiano Simon Boccanegra (cento anni dopo). Non

credo che Verdi conoscesse le versioni in tedesco di Idomeneo che circolavano,

non molto frequentemente e fortemente modificate rispetto all’origi-

152 Giuseppe Pennisi

nale, in terre al di là delle Alpi e del Reno. Specialmente in quella fase,

però, era fortemente imbevuto (anche grazie al sodalizio con Arrigo Boito)

in antiassolutismo ed in riscoperta del pensiero illuminista lombardo.

Passano anni, prima de La clemenza di Tito, ultima opera di Mozart in

termini di composizione, anche se penultima in tema di debutto sulle scene.

Composta in appena 18 giorni, nel 1791, in occasione dell’incoronazione

di Leopoldo II come re di Boemia. Attanagliato da debiti (molto esplicito

il carteggio del periodo quasi interamente dedicato alle ristrettezze finanziarie

e con pochi cenni al lavoro di composizione oppure ancora al mondo

politico ed economico che lo circonda) ed afflitto dalla nefrite (o dalla sifilide?)

che lo avrebbe presto portato alla tomba, Wolfgang sperava di avere

in tal modo ripianata, almeno in parte, la propria situazione finanziaria e

di trovare un posto (ed uno stipendio fisso) a Corte, dopo avere declinato

le offerte di Londra e Berlino. Lontani i tempi di quando da Vienna il 5

settembre 1781 scriveva al padre, con orgoglio, di essere l’unico musicista

della capitale che è «riuscito a fare grazie ai (propri) sforzi» mentre gli altri

«facevano ricorso al loro salario». Ora Tito serve a tendere la mano se non

per un salario, per incarichi ben remunerati in quanto è a capo di una famiglia

indigente ed il padre non ha modo di aiutarlo (preso tra l’altro a

fare il nonno al figlio della figlia).

È una «opera seria celebrativa», ideata proprio quando il genere stava

sparendo, sostituito dalla «tragédie lyrique», prima, e dal melodramma, poi.

Può essere chiamata, scherzosamente, una «divina marchetta» in quanto

anche un lavoro di mera celebrazione diventava, nelle sue mani, divina. La

clemenza utilizza un vecchio libretto del Metastasio (riscritto, però, dal

mestierante Caterino Mazzolà), a sua volta, elaborato per l’onomastico di

Carlo VI (nonno di Leopoldo II) e messo in musica, nel 1734, da Antonio

Caldara e successivamente da una mezza dozzina di altri compositori (tra

cui Gluck). Opera stilizzata, che piaceva a Brecht perché i personaggi esprimono

temi: Tito è la clemenza, Vitellia la vendetta, Sesto il tradimento

tormentato, Annio l’amicizia, Servilia l’amore, Publio la burocrazia. La

«marchetta» è «divina» in quanto avvolta dalla musica sontuosa di Mozart,

ma resta tale. Tra le «opere serie» di Wolfgang Amedeus non ha la sensualità

di Mitridate, re di Ponto e di Lucio Silla. Non è un capolavoro sommo

come Idomeneo, Re di Creta.

Come eseguirla oggi? Non è facile metterla in scena: non ci sono riusciti

né Luca Ronconi nel 2010 al San Carlo né lo stesso pluripremiato

David McVicar nell’allestimento presentato a Aix-en-Provence ed a Londra

(nonché in altre città) nel 2011. Esemplare l’edizione presentata una decina

di anni fa al Maggio Musicale Fiorentino. A Firenze, nella Roma in

L’economia politica di Wolfgang Amadeus Mozart 153

modellini di gesso in miniatura (Maurizio Balò), Federico Tiezzi interpreta

con leggera ironia i personaggi-tema (brechtianamente parlando) in

costumi settecenteschi (Vera Marzot). La recitazione non è mai enfatica;

la vicenda di tradimenti e contro-tradimenti, di perdoni e di oblii resta

stilizzata (pur se avvolta da una leggera ironia). È una lettura discutibile

(ed è stata, infatti, discussa) ma plausibile. Pur se concepita per Praga e

per ingraziarsi il nuovo Regnante, è forse, una delle opere dove più si avverte

l’«Illuminismo paradisiaco» bavarese, in cui la grande armonia (e

quindi i mercati) è fortemente gestito da un «dittatore benevolo» ed altruista.

C’è, però, un nesso con la visione politica e l’economia politica assorbita

in Italia: il (tentativo di) tirannicidio nel finale del primo atto, strettamente

legato al pensiero italiano di fine settecento, ed anche alla letteratura

in italiano di quel periodo, e poco riscontrabile nel pensiero e nella

letteratura dell’Austria e della Baviera.

Il Singspiel – Dall’Illuminismo dell’Italia settentrionale al socialismo «paradisiaco

» della Baviera

Die Entfürung aus dem Serail debutta un anno e mezzo dopo Idomeneo

ma molte cose erano cambiate tanto nella vita e nella professione di Mozart

quanto nel contesto politico dell’Impero d’Austria. Wolfgang era stata

cacciato, letteralmente a calci nel sedere, dal conte Arco, ciambellano

dell’arcivescovo di Salisburgo sia dal servizio presso il principe-arcivescovo

(che gli procurava, oltre ad un piccolo stipendio, vitto ed alloggio a

Vienna) sia dall’abitazione in affitto nella capitale, aveva trovato ospitalità

presso la signora Weber (una vedova di cui avrebbe sposato la figlia) e,

convinto della sua bravura, si lanciava come musicista libero professionista.

L’imperatore Giuseppe II (massone cattolico) si era lasciato entusiasmare

dalla possibilità di varare un teatro in musica nazionale; aveva abrogato la

prassi di affittare il teatro Imperiale a impresari (per lo più italiani) per

farlo diventare parte integrale della Casa «Imperiale e della Nazione»; incoraggiava

le opere in tedesco, iniziando dal Singspiel (già molto diffuso

nel Nord) in cui l’azione si dipanava recitata ma era interrotta da numeri

musicali (ben differente dall’opera «buffa» italiana in cui i «recitativi»

erano cantati ed accompagnati dal clavicembalo). Aveva anche lanciato il

«Giuseppinismo», un tentativo di riforma della Chiesa alla britannica,

mantenendo i riti ma sostituendo il papa con la propria «Imperial persona»;

molti conventi di suore vennero chiusi e le religiose, spesso addestrate

come cantanti, si diedero al teatro.

154 Giuseppe Pennisi

In questo clima, un po’ confuso e disorientante per non pochi sudditi

dell’Impero (nonché caratterizzato da tensioni con la Santa Sede), nasce

Die Entfühung. Presentata al Burgtheater (teatro del Borgo, quindi del

popolo, lontano dalla pompa di quello imperiale) fu, lui vivente, l’opera di

maggior successo di Mozart (purtroppo allora i «diritti d’autore» non erano

regolamentati così efficacemente come lo sarebbero stati nell’Italia della

seconda metà dell’Ottocento (in gran misura, grazie a Giuseppe Verdi ed

alla Casa Ricordi ed alle loro iniziative contro «la pirateria musicale»). Se

lo fossero stati, Mozart avrebbe potuto vivere sereno l’ultima fase della sua

breve esistenza terrena. Fu una delle poche opere mozartiane che restarono

in repertorio durante l’Ottocento e la prima metà del Novecento, anche se

in Italia arrivò solo nel 1935. Mozart era un sostenitore della necessità di

un teatro d’opera nazionale tedesco (si veda l’appassionata lettera al padre

del 5 febbraio 1783) e non era nuovo al Singspiel – il giovanile Bastien und

Bastienne e l’incompiuto Zaire – ma era alle prese con un libretto pasticciato

di Gottlied Stephanie, tratto da una commedia di Christoph Friederich

Bretzner, tratto a sua volta da fonti inglesi (tra cui una vera e propria commedia

musicale). In aggiunta, Mozart aveva a disposizione cantanti di

maturo successo che imponevano le loro regole: l’aria più nota del soprano

(Martern der Arten) era un’aria di bravura per concerto dalla Caterina Cavalieri

protagonista della prima rappresentazione. Sotto il profilo musicale,

il lavoro presenta una mescolanza di stili incompatibili tra loro: dal «vaudeville

» ai duetti ed ai terzetti da opera comica, a numeri da opera seria, ad

echi di cantate di chiesa.

Sotto il profilo drammaturgico viene di solito interpretato come una

settecentesca «turquerie», commedia in musica buffa vagamente antiorientale;

quindi, lazzi, frizzi e allusioni sessuali a volte anche pesanti, e con più

di un pizzico di razzismo. In alcune letture, questo stile viene mescolato a

quello di una «pièce à sauvetage», dramma in prosa o in musica basato su

un «salvataggio», genere teatrale che sarebbe diventato di moda una decina

di anni più tardi, all’epoca della Rivoluzione francese, e di cui l’esempio più

grande è Fidelio di Beethoven. In una lettura in repertorio da anni alla Komische

Oper di Berlino, il regista Calixto Bieito, il «serraglio» è un bordello

sado-maso; in stanze di plexiglass varie coppie si esibiscono in diverse

posizioni del Kamasutra. I «nostri» scappano rivoltella alla mano facendo

strage dei frequentatori del bordello. Il pascià viene ucciso, mentre tenta

un ultimo abbraccio con Kostanze, che nella confusione generale si suicida

(probabilmente pensando che a letto Belmonte è inferiore al pascià). L’interpretazione

tenta di risolvere la discrasia tra un libretto insulso da turquerie

ed una musica, nei momenti centrali, drammaticissima. La predilezione

L’economia politica di Wolfgang Amadeus Mozart 155

di Bieito per i fondo-schiena e per i genitali (specialmente maschili), già

esibita in Un Ballo in Maschera a Madrid, si accompagna con una lettura

musicale – Kirill Petrenko – piena di brio. Eccezionali comunque i cantanti

attori – tutti giovani e di belle fattezze.

In altra edizione, proposta a Roma nel 2011 da Graham Vick e Gabriele

Ferro, si parte dall’assunto che, dopo Idomeneo, Die Entführung aus

dem Serail è il primo capolavoro in cui il giovane compositore entrò nella

stesura del libretto, suggerendo in prima persona dialoghi, doppi sensi

(anche i più espliciti) e arie. Difficile per il nostro pubblico latino catturarne

e capirne l’ambiguità. Si ricordano unicamente poche edizioni di

livello: quella del 1969, con regia di Giorgio Strehler e scene e costumi di

Luciano Damiani e quella affidata a Zubin Metha (direzione musicale) e

Elike Grams (regia) a Firenze nel 2002. Nel 2011 c’erano ben tre allestimenti

differenti in giro per l’Italia. Senza dubbio, il migliore è stato quello

romano: la vicenda si svolge in un ambiente astratto, dominato da un

grande cubo (ormai quasi un marchio di fabbrica di Graham Vick); elegante

e raffinato, lo spettacolo è molto «British» ma perde parte dell’ambiguità.

La si ritrova, invece, nell’accurata concertazione di Ferro, dove

brio e ironia incorniciano un vero dramma che è al centro dell’opera e

nelle belle voci dei protagonisti (su cui eccellono Maria Grazia Schiavo e

Charles Castronovo). La Schiavo, apprezzata principalmente nel teatro

barocco e nei ruoli di coloratura, conferma di essere un «soprano assoluto»

dall’ampio registro, destrezza nell’ascendere e discendere da acuti terrificanti

e grandi capacità sceniche. Castronovo è un giovane tenore lirico

americano, molto affermato, oltre che negli Usa , in Germania, Austria e

Francia: rare le sue apparizioni in Italia. Il Teatro dell’Opera ha fatto bene

a farlo conoscere: timbro chiaro, fraseggio elegante, «do» acuti senza difficoltà.

Buoni professionisti Beate Ritter (Blonde), Cosmin Ifrim (Pedrillo)

e Jaco Huijpen (Osmin). Ottima l’idea di affidare ad un cantante (il bassobaritono

Rodney Clarke) la parte recitante di Selim.

Si sono accostate queste produzioni così differenti perché, Die

Entführung è un lavoro la cui bellezza sta nella sua ambiguità. Mentre Pedrillo,

Osmin e Blonde appartengono al mondo della turquerie, Konstanze

e Belmonte sono cugini dell’Idamante, dell’Ilia e dell’Elettra di Idomeneo;

nella sua tremenda tolleranza, per certi aspetti terrificante, la voce recitante

Selim il pascià è il mostro-Dio dell’opera di un anno e mezzo prima. Il

finale è aperto; non sappiamo se dopo la liberazione da parte del magnanimo

Selim, Konstanze non rimpiangerà di non avergli ceduto (per restare

fedele al bello ma debole Belmonte). Die Entführung si svolge quindi in un

serraglio pieno di segreti; per svelarli, l’esecuzione richiede un equilibrio

156 Giuseppe Pennisi

sempre dinamico e sempre instabile tra la buffa umanità di questo mondo

e le vette rivolte all’Alto.

Ci sono riferimenti alla «triste scienza»? Come si vedrà meglio analizzando

Le nozze di Figaro c’è un confronto tra tre modi di vedere il mondo:

Pedrillo, Osmin e Blonde appartengono ad un settecento mercantile (dove

si compra, si vende e si corrompe), Kostanze e Belmonte sono in quello di

un’aristocrazia intellettuale (distante dal mercato e in cammino verso una

sfera di superiore saggezza individuale e di coppia), e Selim, la cui nobiltà

d’animo supera la grave offesa subita e assurge a elogio della tolleranza

(come Hans Sachs nel wagneriano Die Meistersinger von Nürnberg). La

tolleranza diventa il mastice coesivo del mondo di gerarchie e mercati già

visto in Idomeneo con una differenza marcata: Osmin (uno dei due «buffi»

ma anche il personaggio negativo per eccellenza) ha la pelle nera (forse

uno schiavo africano), mentre Selim sembra essere un berbero, un sultano

della costa nordafricana o anche del Corno d’Africa. In Die Entführung c’è

accanto al nazionalismo – la ricerca del cammino di quell’opera nazionale

tedesca che sarebbe esplosa qualche decennio più tardi con Weber, Marschner,

Schumann, Lortzing, fino a Wagner – quel razzismo che sarà ancora

più esplicito in Die Zauberflöte e che rispecchia le tematiche della

massoneria cattolica del mondo tedesco meridionale. Anche il razzismo

(contro gli africani) è parte del percorso che porta alla assolutista, pur se

benevola, «clemenza» intrisa di socialismo paradisiaco bavarese, in cui il

mercato è assoggettato al principe equanime che sa distribuirne i benefici

tra i suoi sudditi.

Dall’epistolario, si vede come Mozart fosse così impegnato nella preparazione

ed anche allestimento di Die Entführung, molto attento ai costi

(ed alle bizzarrie dei cantanti) ed ai prospettati ricavi, quasi da non sfiorare

le trasformazioni economiche del mondo a lui intorno. Non così il

padre, ormai nonno-babysitter. La lettera alla figlia del novembre 1784

(manca la data) contiene una breve lezione sulla differenza (in tempi turbolenti

come quelli) tra beni «materiali» e «immateriali»: «I primi restano

e nessuno ve li può prendere; i secondi uno li può spendere, perdere, esserne

derubato, ecc.».

In questo clima, arriva la proposta di Haydn: il successo di «Die Zauberflöte

» inebria Wolfgang (nel 1785 – ci informa una lettera del padre – il

compositore è in grado di saldare i propri debitori), le prospettive di aprire

la strada all’opera nazionale tedesca lo entusiasma ancora di più (a Londra,

si voleva opera all’italiana ed in italiano), da Salisburgo giungono segnali

di rappacificamento (ma il compositore scrive al padre che i calci di Arco

gli fanno ancora «bruciare il ‘culo’»). Quindi, il diniego.

L’economia politica di Wolfgang Amadeus Mozart 157

Più intrigante di Die Entführung, ma per certi aspetti più lineare, Die

Zauberflöte, ultima opera di Mozart rappresentata, ma penultima composta.

Al pari di Die Entführung è un Singspiel che, nel mondo di cultura tedesca,

ha continuato ad essere rappresentata nell’Ottocento e nella prima metà del

Novecento, nonostante fosse anni luce distante dal melodramma romantico,

dal verismo, dal «gran opéra», dalla «literaturoper» e da tutte le forme e

convenzioni che si affermavano. In Italia arrivò solamente negli anni Trenta

(anche a ragione delle «opere fantastiche» – si pensi a Casella, a Malipiero

ed a Mascagni che avevano un certo successo in quel periodo). Al teatro

dell’Opera di Roma – che allora non era secondo alla Scala in termini di

titoli rappresentati ogni stagione e di carica di innovazione, non arrivò che

nel 1937 (per sole tre rappresentazioni dirette da Vittorio Gui).

Su Die Zauberflöte grava l’onere di essere considerata il «testamento

massone» di Mozart. Nasce, indubbiamente, nel clima della loggia massonica

a cui appartenevano sia Wolfgang sia il librettista Emanuel Schikaneder

sia molti cantanti. Tuttavia, era destinata ad un teatro popolare (il Theater

auf der Wieden), di piccole dimensioni e con l’obiettivo di «fare cassetta»

– rivolta, quindi, ad un pubblico non necessariamente massone (poiché la

massoneria era privilegio dell’aristocrazia e della nascente borghesia. Nel

lavoro non manca la simbologia massonica: il numero tre (i protagonisti

sono tre coppie, aiutati da tre dame e da tre fanciulli), il mappamondo, il

serpente, la lotta tra luce e tenebre e richiami nelle parti corali alle convenzioni

dei riti di alcune logge, il percorso di iniziazione alla base del lavoro.

In effetti, la prima volta che la ascoltai dal vivo nel 1956 (a 14 anni), l’allestimento

(in tedesco e senza sovratitoli ma con le parti parlate in – pessimo

italiano) mi annoiò mortalmente, nonostante Vittorio Gui concertasse

ed il cast fosse di livello (Frick, Wunderlick, Stich, Hallin): il Singspiel si

svolgeva in un cupo Egitto massone dove tre piramidi dominavano la scena

e per tre ore si era immersi in una simbologia ossessiva.

Die Zauberflöte è stato recuperato al suo proprio significato di favola

e di allegoria (dai molteplici significati) negli anni Settanta. Ed in terre

lontane dal mondo tedesco. Da citare, l’allestimento di Ingmar Bergman

per il piccolo teatro barocco nel palazzo di Drottingholm per la televisione

svedese e successivamente distribuito nel 1975 come film di grande successo,

e la magnifica edizione curata da Maurice Sendak, scrittore ed illustratore

di libri per bambini, per la Houston Gran Opera nel 1980. Mentre

Bergman (la cui produzione è in svedese e lascia piuttosto a desiderare per

la parte musicale) modifica leggermente il libretto al fine di rendere più

credibile la vicenda, Sendak non cambia un verso ed una nota ma trasforma

Die Zauberflöte in una fantasmagorica favola per bambini. In ambedue,

158 Giuseppe Pennisi

l’apologo riguarda la crescita – dall’infanzia all’età adulta. Altro allestimento

memorabile, quello di Stéphane Braunschweig che nel 1999 dai festival

di Aix-en-Provence ed Edimburgo ha girato in tutto il mondo, anche grazie

ad un’estrema economia di mezzi scenici (una serie di monitor televisivi,

un grande letto): l’apologo è l’iniziazione all’eros per le due coppie giovani

e la stanchezza dell’eros (e dei rapporti in generale) per quella anziana (in

cui i due partner sono ormai giunti ai ferri corti). Di grande rilievo, l’allestimento

curato dal regista scozzese David McVicar per la Royal Opera

House (ROH) di Londra nel 2003, già ripreso tre volte in Gran Bretagna e

portato per la prima volta oltre Manica a Roma nel marzo 2012 (nonché

oggetto di un Dvd di successo): in un’elegante fantasia di luci e di colori,

la simbologia massonica c’è ma è de-enfatizzata. Il tema centrale diventa il

confronto ed il passaggio generazionale con la mantella e lo scettro del

potere che vanno da Sarastro (truccato e vestito come Giuseppe II) al giovane

Tamino; non solo la principessa Pamina viene ammessa, con pari

rango, in un mondo precedentemente solo di uomini (il «femminismo mozartiano

» già esploso ne Le nozze di Figaro, come vedremo nel prossimo

paragrafo) ma (aspetto discutibile) al fine di essere politically correct, Monastatos

è un bianco (e le battute contro i «neri» vengono eliminate).

Ci sono elementi di economia politica in Die Zauberflöte? L’epistolario

aiuta poco: mostra un Wolfgang assillato da problemi di sopravvivenza economica

e preoccupato per la moglie, a Baden per cure termali. Meno esplicitamente

di quanto non avvenga nel Don Giovanni (di circa cinque anni

prima) sono a confronto vari «mondi economici». Quello di Papageno dove

impera il mercato, si tenta qualche imbroglietto ma si è in una piazza plurale:

specialmente nella prima scena del primo atto, nella sua canzone strofica

ascendente d’introduzione, nella scena con le tre dame e nell’ammissione

(contrita) di avere goffamente tentato di barare, e nelle parti del secondo

atto in cui fa il furbetto di fronte alle prove sino al raggiungimento dell’agognato

obiettivo (trovare una Papagena da portare sotto le lenzuola). C’è

quello di Tamino e Pamina dove il mercato è leale e premia chi segue le sue

regole (quali definite dalla collettività a cui si appartiene). Ad esso si giustappone

quello della Regina della Notte, delle tre Dame e di Monastatos,

una piazza dove domina l’intrigo e che, per questo, è destinata ad essere

sconfitta. C’è, infine, quello di Sarastro, il «socialismo paradisiaco» dell’Illuminismo

della Baviera, ormai quasi più radicato, in Wolfgang Amadeus,

di quello dell’Italia settentrionale che lo aveva plasmato nella sua adolescenza

e da cui aveva cominciato a distaccarsi con Idomeneo. Forse era diventato

per Wolfgang importante: in quanto indigente e malato voleva aspirare,

per mutuare un celebre duetto verdiano, «ad un mondo migliore».

L’economia politica di Wolfgang Amadeus Mozart 159

La trilogia con Da Ponte – La teoria dei giochi secondo Wolfgang

Il testo fondante della teoria dei giochi – Theory of Games and Economic

Behavior» di John von Neumann e Oscar Morgestern – è del 1944

(anche se altri autori, quali Ernst Zermelo e Arman Bore, avevano scritto,

ante litteram, di teoria dei giochi). Può sembrare ardito interpretare le trilogia

messa in musica su libretti di Lorenzo Da Ponte con la cassetta degli

attrezzi di stilemi economici di detta teoria. Lo è meno fuori dell’ordinario

dell’interpretarle alla luce di un percorso iniziatico nella massoneria cattolica

bavarese, ormai estesa sino a Vienna ed altrove nell’Impero.

In primo luogo, il padre di Da Ponte era un ebreo mercante di pelli

nell’attuale Vittorio Veneto. Era diventato «cattolico» non perché nella

Repubblica Veneta del Settecento ci fosse ancora l’antisemitismo del

Cinquecento o del Seicento (quello per intenderci dipinto da Shakespeare

in Il mercante di Venezia) ma, vedovo quarantenne, per sposare una

ragazza cristiana di 16 anni di cui si era innamorato; secondo l’usanza

tanto il marito quanto i tre figli di primo letto presero il cognome del

vescovo che li aveva battezzati ed aveva officiato le nozze. Così Emanuele

Conegliano diventò Lorenzo Da Ponte, un quattordicenne avido

di donne e di denari, grande amico di Casanova. Le vesti dell’abate gli

servivano come comoda copertura per finire a letto anche con donne

sposate. Travolto dagli scandali, traversò il confine e dopo lunghi soggiorni

a Gorizia ed a Dresda arrivò a Vienna. Portava con sé la conoscenza

di giochi commerciali (tipici nel mercato delle pelli), di giochi

erotici e di giochi per sfuggire ai creditori, alle forze dell’ordine e ai

mariti traditi. Tutti giochi in asimmetria di informazione e di posizione

come quelli di John von Neumann e Oscar Morgestern, ed anche, come

accenneremo, i giochi ad equilibrio dinamico come quelli di John Nash

e della sua beautiful mind.

Veniamo alla loro prima collaborazione, Le nozze di Figaro. Nonostante

Da Ponte lavorò di maestria nel ridurre il testo della commedia di Beaumarchais

(il padre del compositore scriveva alla figlia, l’11 novembre 1785,

di dubitare che sarebbe stato in grado di farlo), e nel togliergli la carica

politica, il lavoro rimase sufficientemente lungo da rendere impossibile

seguire lo schema tradizionale di una opera buffa, cioè due atti. È in quattro

atti anche se, sotto il profilo musicale, ha unicamente due «finali» (il

concertato era di rigore) al termine del secondo e del quarto atto. Nel contempo,

Wolfgang – lo apprendiamo dal carteggio in famiglia – ha scialacquato

i proventi di Die Entführung ed ha urgente bisogno che il nuovo lavoro

sia un successo commerciale.

160 Giuseppe Pennisi

La vicenda è notissima e può essere anche letta, dal punta di vista economico,

con le lenti di Adam Smith. Figaro e Susanna vogliono sposarsi. Ma il

conte d’Almaviva mira ad andare a letto con Susanna, prima di Figaro. L’anziana

Marzellin vuole che Figaro ci vada con lei. Il paggio di casa, Cherubino,

mira a tutte le donne del palazzo – Barbarina, Susanna, la Contessa. Quest’ultima

è l’astuta Rosina de «Il Barbiere di Siviglia» e vuole tornare ad essere lei

l’unica nel letto del Conte. Al termine di una «folle giornata» (il sottotitolo del

lavoro), la «mano invisibile» fa sì che ciascuno finisca nel letto giusto.

Al centro di Le Nozze di Beaumarchais, c’è la rivoluzione di Figaro

contro il Conte. Al centro della versione Mozart-Da Ponte c’è un’asimmetria

informativa che innesca una rivoluzione più profonda: a differenza di Figaro

e degli altri, la Contessa e Susanna sanno cosa il Conte ha in mente e

quale è il suo gioco per centrarlo; hanno accesso a informazioni privilegiate.

Si innesca, grazie a questa asimmetria, un gioco femminista che, in teatro,

precede di cento anni Casa di bambola di Henrik Ibsen e di centocinquanta

Candida di George Bernard Shaw. Una fanciulla-cameriera, Susanna,

ordisce, in combutta con la Contessa di cui è al servizio, una rete di

giochi multipli in modo che, al termine, della «folle giornata», ciascuno finisca

sotto le lenzuola appropriate. All’inizio dell’opera, la mattina di una

giornata qualsiasi, tutti i protagonisti, tranne i due promessi sposi (Figaro

e Susanna), progettano di passare la notte con un partner differente da

quello loro preposto dalle regole e dalle convenzioni. Nel corso del giorno

e nella serata, tra inganni di ogni genere, due donne – la Contessa e per

l’appunto Susanna – riescono a far sì che ciascuno sia all’alba con la persona

giusta. Ponendo al centro della vicenda le due donne la rivoluzione diventa

da politico-sociale nazionale (come intendeva Beaumarchais) a universale.

In aggiunta, Mozart rivoluziona la musica del Settecento: abolisce

«cavatine» (così care a Rossini, a Donizetti ed anche a Verdi) ed altre convenzioni

settecentesche. Scrive una partitura dal ritmo incalzante in cui

quattordici arie si incastrano in ben quattordici pezzi d’insieme in oltre tre

ore di musica. Tra cui vere e proprie gemme come il sestetto andante in fa

maggiore del terzo atto «Riconosci in quest’amplesso» che secondo Michael

Kelly era il numero preferito da Mozart in tutta l’opera.

Strehler – il cui allestimento dell’inizio degli anni Settanta si è rivisto

di recente alla Scala – lesse l’opera in chiave socialista inframmezzata da

forti accenti erotici; Visconti – la cui messa in scena (anch’essa degli anni

Settanta) è tornata una ventina di anni fa al teatro dell’Opera di Roma – la

interpretò come un apologo della decadenza borghese; Chundela come

un’amara black comedy, Bieito (nella versione alla Komische Oper di Berlino)

la vede addirittura come un pretesto per mettere in scena un po’ di

L’economia politica di Wolfgang Amadeus Mozart 161

pornografia non tanto soft. Soprattutto in Italia, solo di recente, (ad esempio,

nell’edizione curata da Gigi Proietti, Quirino Conti e Gianluigi Gelmetti)

nel 2005 al teatro dell’Opera di Roma ed in quella allestita nel 2003 da

Gabriele Dolcini per il Lirico Sperimentale di Spoleto), le letture sceniche

de Le nozze sono state scevre e di chiavi ideologiche e di un numero eccessivo

di gag, lazzi e frizzi. E, quindi, in grado di mostrare la complessità dei

giochi sul palcoscenico ed in buca (sin dal «presto» in la maggiore gaiamente

movimentato dell’ouverture). Sin dal suo primo spettacolo nel 1976 (Faust

o la Quadratura del Cerchio) il regista Mario Martone mostra dimestichezza

con la matematica. Nell’allestimento predisposto nel 2006 per le celebrazioni

mozartiane (ma visto anche a Verona, Modena e Reggio Emilia)

non cede alla sin troppo facile tentazione (da lui lo si sarebbe aspettato) di

dare a Mozart toni rivoluzionari ma offre un’interpretazione acuta in cui

pone al centro de «la folle giornata», l’arguzia di Susanna ed il tentativo,

coronato da successo, della Contessa di riconquistare il Conte (con il marchingegno

che si è riassunto). Il Conte, poi, non è la consueta caricatura del

tombeur de femmes di provincia, ma una complessa personalità, scavata in

profondità, di uomo di potere e di cure gestionali (il quale nel fare la corte

a tutte le fanciulle del castello cerca uno sfogo di relax). Il complicato intreccio

(in cui non solo il Conte e la Contessa ma tutti i personaggi hanno

una forte carica di umanità) è immerso in un Settecento melanconico e

crepuscolare, dove dominano tutte le sfumature del grigio e del beige (facendo

risaltare ancora di più, quindi, l’abito rosso del Conte e quello blu

chiaro della Contessa). Essenziale la scena: una doppia scalinata ed un

grande tavolo, nonché una pedana che circonda l’orchestra e con pochi

gradini porta i cantanti tra le poltrone della platea, coinvolgendo ancora di

più il pubblico. In breve, circa quattro ore (intervallo compreso) di grande

emozione. Naturalmente il risultato complessivo non sarebbe tale senza una

parte musicale di grande livello grazie a Jeffrey Tate.

Veniamo adesso al Don Giovanni, opera che nelle classifiche redatte

periodicamente dal «Metropolitan Opera News» (il periodico del tempio

della lirica di New York) ha superato Carmen come la più rappresentata al

mondo. La political economy ci aiuta a comprendere le ragioni di tale successo,

se la si coniuga con un pizzico di cultura musicale. Don Giovanni di

Da Ponte-Mozart rispecchia la tensione tra «zeloti» (ancorati al passato ed

alle sue regole sia scritte sia implicite) ed «erodiani» (rivolti, invece, verso

la modernizzazione) – tensione specialmente forte in un’epoca a cavallo tra

due secoli, come la fine del Settecento (e questo inizio di XXI Secolo). Circa

tre lustri fa, ad un convegno di economisti una relazione, rimasta inedita,

di Antonio Cognata (Università di Palermo e da sette anni sovrintendente

162 Giuseppe Pennisi

del teatro Massimo di Palermo) e di Pasquale Lucio Scandizzo (Università

di Roma, Tor Vergata) proponeva una lettura di Don Giovanni e del Commendatore

in termini di teoria dei giochi in un contesto di informazioni

fortemente imperfette (il «dilemma del prigioniero») e suddivideva i personaggi

dell’opera in due categorie, i «falchi» e le «colombe». I primi (il Don

ed il Commendatore) pronti, in una fase di transizione (quasi da Verwandlung

della tradizione tedesca), alle estreme conseguenze (ossia a farsi uccidere)

per facilitare l’affermarsi delle nuove regole. Le seconde (tutti gli altri) caratterizzate

da gradualismo di fronte al cambiamento. Tuttavia, mentre i

«falchi» e le «colombe» differiscono in materia di tempi e modi per affrontare

il cambiamento, nell’ipotesi suggerita in questo articolo gli «zeloti» il

cambiamento non lo vogliono affatto, mentre gli «erodiani» sono pronti

all’estremo per recepire habits and rules altrui (ad esempio quelle del liberismo

anglosassone) pur di favorire il cambiamento.

La distinzione tra «zeloti» ed «erodiani» viene dai Vangeli; è stata

utilizzata da Luciano Pellicani in analisi sociologiche stimolanti. Non rileva

per tutte le interpretazioni del mito di Don Giovanni. Non per quelle

di Tirso da Molina o di José Zorilla – due «moralisti» bigotti, ai quali

interessava mettere a nudo «la malvagità punita» del «burlador». Non per

quella di Molière, «immoralista» di finezza e di rango, con una punta di

ammirazione per il Don. Neppure per quella di Da Ponte (se non ci fosse

la musica di Mozart). Nella vita privata era un abate «immoralista ben

temperato» sempre in bolletta che versificò, per fini solo mercenari, una

contaminatio delle più note versioni precedenti con intenzioni vagamente

didascaliche. Vecchio e malato ma tornato a Santa Romana Chiesa,

scelse il Don Giovanni (e non il suo vero capolavoro scenico – l’«immoralissimo

» Così Fan Tutte) come prima opera da rappresentare a New York

(dove era, ormai anziano, approdato e dove si poteva organizzarne una

produzione quasi casalinga nelle condizioni della Manhattan dell’epoca).

Lo schema esplicativo degli «zeloti» e degli «erodiani» è anche appropriato

per alcune interpretazioni più recenti del mito del Don, da quella di

Kierkegaard a quelle elaborate nel periodo tra le due guerre mondiali –

all’insegna della Verwandlung per eccellenza.

Dato a Da Ponte quel che è di Da Ponte, cerchiamo di vedere come gli

aspetti più strettamente mozartiani possano essere esaminati con la «cassetta

degli attrezzi» dell’analisi economica. L’opera ha specificità musicali che

la rendono molto più pregnante del libretto (cosa mai ne avrebbero fatto un

Piccini, un Paisiello o un Salieri?). In primo luogo, sin dalla ouverture avvertiamo

che siamo di fronte a qualcosa che non è né una «opera buffa» né un

«dramma giocoso»: dalle prime battute si avverte il fuoco dell’inferno in fa

L’economia politica di Wolfgang Amadeus Mozart 163

(che, tre ore più tardi, concluderà il lavoro). In secondo luogo, il trattamento

musicale del protagonista non è né una caricatura del libertino quale

tracciata da Tirso de Molina e José Zorrilla né un protoilluminista come

scolpito da Molière. Le note di Mozart, avvolgono Don Giovanni in un clima

luciferino; lo ritroveremo, ad esempio, pochi lustri più tardi nell’«opera nazionale

» tedesca per sottolineare il carattere demoniaco di Kaspar in Der

Freischütz (un punto afferrato nella recente regia di Claus Guth a Salisburgo)

oppure, un secolo più tardi, della Nutrice di Die Frau ohne Schatten di Richard

Strauss. È luciferino lo stesso brindisi alla libertà del «finale primo»,

giustapposto, simmetricamente, alla scena, pure essa luciferina, con il Commendatore

nel «finale secondo». Luciferianamente, né il Don né il Commendatore

hanno una «cavatina» (aria di ingresso nelle convenzioni operistiche

dell’epoca) o «cabalette» oppure «legati».

Proprio questo aspetto luciferino fa sì che l’interazione «economica» tra

il Don ed il Commendatore non è assimilabile a quella di due giocatori di

pari livello ma a quella del primo rispetto al secondo giocatore in un «gioco

ad ultimatum»; viene, perciò, caratterizzata da dissonanze e da anticipazioni

cromatiche. Don Giovanni vuole tornare a quell’inferno da dove è venuto

– come dettoci sin dall’ouverture. Il Commendatore è uno strumento per

compiere questa marcia all’indietro, più efficace dei tentativi di seduzione

(tutti «in bianco», come esplicitato dai «diminuendi» che li chiudono). Pure

il Commendatore appartiene, come il Don, al mondo musicale della futura

opera nazionale tedesca (si pensi a Der Vampyr di Marschner) con ottave

quasi mai sperimentate prima di allora. Anch’egli è segnato dal destino sin

dal «do» con cui appare in scena ed è costretto al «gioco ad ultimatum» fin

dall’inizio dell’opera. Inoltre, il «gioco ad ultimatum» viene ripetuto – con

inversione dei ruoli (il Commendatore in quello del primo giocatore ed il

Don quello del secondo) – nella sequenza finale dell’opera. Sotto il profilo

musicale, il Don ed il Commendatore sono ambedue protesi, da «erodiani»,

verso quella che sarebbe diventata l’opera tedesca del XIX e del XX secolo.

Sulla scena soccombono proprio per eccesso di modernizzazione.

Gli altri personaggi vivono, invece, nel mondo musicale dell’opera

settecentesca «all’italiana» fatto di cavatine, arie, cabalette, duetti, terzetti,

concertati e di tutte le altre convenzioni di un’epoca che volgeva al tramonto

(anche se non se ne accorgevano). Regole ben definite che assicurano,

agli «zeloti», certezze – informazioni simmetriche e costi di transazione

contenuti. In questo mondo, il pay-off, pur se limitato, conviene a tutti, da

«utilitarismo delle regole» pacioccone. Si guardi, in particolare, a Don Ottavio,

un baritenorino, caricatura dei tenori (Mozart, come più tardi Richard

Strauss, non li ha mai amati) di Idomeneo, di Così e di Die Entführung.

164 Giuseppe Pennisi

Musicalmente, i due mondi, i due set di habits and rules, restano distinti e

distanti: si incontrano nel lungo finale primo. Con grande raffinatezza, sono

due mondi in «re»: re minore quello luciferino, ma modernizzatore (quindi

«erodiano»), del Don e del Commendatore; re maggiore quello perbenista

(e «zelota») di Don Ottavio e del resto della brigata (Leporello, Donna

Anna, Donna Elvira, Masetto, Zerlina e compagnia cantante).

Mozart non avverte laVerwandlung socio-politica (quindi, economica)

in atto negli anni in cui componeva Don Giovanni; gli è stata offerta l’occasione

almeno in due libretti potenzialmente rivoluzionari – Le nozze di

Figaro e La clemenza di Tito – ma si rifiuta di coglierlo; fa diventare il primo

una grande commedia umana ed il secondo un inno alla quality of

mercy. Sente forse inconsapevolmente, la Verwandlung nel teatro in musica:

la rappresenta in pieno nel Don Giovanni, tenendo separati il mondo

«vecchio» degli «zeloti» dal mondo «nuovo» degli «erodiani». C’è un’analogia

con il capolavoro estremo di Richard Wagner, Parsifal: il mondo

diatonico del Graal contrapposto a quello cromatico del castello di Klingsor

con Kundry in funzione di cerniera tra i due. È anche esso un lavoro teso

verso l’innovazione, verso la stessa dodecafonia, ma intriso dei ricordi pure

della polifonia di Palestrina. A differenza di Mozart, Wagner aveva piena

contezza della Verwandlung socio-politica (e forse pure di quella economica);

era un «super erodiano».

Dopo avere scavato tanto in Don Giovanni, cosa presentano Wolfgang

e Lorenzo nel loro ultimo lavoro concepito insieme, quel Così fan tutte

presentato al Burgtheater di Vienna il 26 gennaio 1790 (quando il compositore

era già molto malato), poco considerata dal librettista (che neanche

la menzionò nella propria autobiografia), detestata per tutto l’Ottocento in

quanto considerata, secondo Edward Dent, «di insopportabile stupidità»,

adattata a commedia spagnola (in tedesco) a Dresda all’inizio del Novecento

nel tentativo di riproporla e diventata, negli ultimi sessanta anni, uno dei

lavori di Mozart più rappresentati? Richiede solo sei cantanti, un piccolo

coro, un organico orchestrale modesto. È stata ambientata nei contesti più

diversi: da terme romane prima dell’eruzione del Vesuvio a Pompei (Roma,

teatro dell’Opera), a giardini cinesi e persiani (due differenti edizioni a Aixen-

Provence), dalla contemporaneità stile Armani (vari teatri); la Francia

prerivoluzionaria del Marchese de Sade (Bologna); graziosa oleografia partenopea,

come vista da turisti (Metropolitan); e via discorrendo. Funziona

quasi sempre anche se a mio avviso la produzione di Così fan tutte ovvero

La scuola degli amanti di Wolfang Amadeus Mozart più affascinante è

quella che nel 2005 ha segnato il ritorno alla regia lirica, dopo dieci anni,

di Patrice Chéreau, in compagnia di Richard Peduzzi (suo scenografo abi-

L’economia politica di Wolfgang Amadeus Mozart 165

tuale ed allora direttore dell’Istituto Francese di Cultura a villa Medici di

Roma), di Daniel Harding e di in un cast di giovani, in cui l’allora sessantaquattrenne

Ruggero Raimondi affrontava il ruolo di Don Alfonso da lui

raramente interpretato in oltre quarant’anni di carriera, l’altra «anziana»

Barbara Bonney interpretava quello della servetta quindicenne Despina. Lo

spettacolo ha debuttato a Aix-en-Provence nel 2005, nel 2006-2007 si è

visto a Parigi, Vienna, New York, Baden-Baden ed altre città.

L’intreccio è noto. Su invito del loro precettore, per l’appunto Don Alfonso,

due bei giovani napoletani fidanzati a due belle sorelle ferraresi, le

mettono alla prova travestendosi da ricchi albanesi e corteggiando l’uno la

ragazza dell’altro; hanno successo (tanto più che Despina invita le fanciulle

a «fare all’amore come assassine») sino ad un doppio matrimonio: ciascuno

con la fidanzata iniziale che ha tradito e di cui sa di essere stato tradito con

il suo migliore amico. La principale difficoltà di realizzazione (sia scenica

sia musicale) di Così consiste nel fatto che mentre la prima parte è brillante

ed ironica, la seconda è un’amara riflessione in cui ciascuno è, al tempo

stesso, infedele e geloso. L’idea di fondo di Chéreau è quella di porre l’accento

sul sottile ricamo di finzioni sin dalla prima battuta. L’intreccio si

svolge sul palcoscenico nudo di un teatro – è in effetti, quello del teatro

Valle a Roma – quasi a voler accennare al teatro-nel-teatro (finzione per

eccellenza), senza, però, svelarlo a pieno. Alla «scuola degli amanti» si apprende

che l’amore è libertà, ma che proprio in quanto libertà non può non

comportare dolore ed inganno. Chéreau ha chiesto, ed ottenuto, otto settimane

di prove (un record per l’opera lirica) prima del debutto e ha ritoccato

ancora lo spettacolo tra una replica e l’altra. Harding ha assecondato

questa chiave di lettura guidando la Mahler Chamber Orchestra in modo

che si vada con grande dolcezza (e senza quasi avvertirne il passaggio) dai

recitativi, alle arie, ai duetti, ai terzetti, ai quartetti ed ai concertati.

Ma andiamo alla «teoria dei giochi» quale emerge dal lavoro (e dall’appassionante

lettura di Chéreau-Harding). C’è, come in Le nozze di Figaro,

asimmetria: Don Alfonso e Despina «sanno» più delle due coppie e sono,

quindi, in grado di condurre il gioco. Il punto centrale, però, è che il «gioco»

di ciascun componente del quartetto delle due coppie è multiplo: su un

tavolo giocano la «reputazione» (di essere fedeli al fidanzato/a) su un altro

l’«abilità» (di sedurre/essere sedotti dal fidanzato/a del miglior amico/a).

L’esito: un equilibrio dinamico alla Nash, quindi sempre instabile. Come

quello del complesso finale – oltre venti minuti, articolati in varie sezioni

(un allegro assai di apertura, un vivace, un andante, un quartetto larghetto,

un nuovo allegro ed un vivace sestetto). L’epistolario ci dice poco sull’effettiva

comprensione da parte dei due autori di ciò che nascondesse il

166 Giuseppe Pennisi

«dramma giocoso», scritto e composto guardando al botteghino. Da Ponte

era molto attivo alla ricerca di donne, ai tavoli da gioco d’azzardo e a sfuggire

i creditori. Mozart era in bolletta, con una famiglia da mantenere, e già

sofferente.

Conclusione

Wolfgang Amadeus Mozart non era certo un economista e non ha lasciato

un manuale di economia politica. In questo articolo, mi sono proposto

di dimostrare come il vasto epistolario e le sue opere più rappresentative

per il teatro in musica, nonché alcune scelte di vita del tutto inconsuete

per chi in quell’epoca era un musicista, mostrano nella famiglia Mozart e

nel compositore una buona dimestichezza con concetti non banali di economia

politica: dalla formazione dei prezzi, all’inflazione, alla necessità di

regole perché il fragile strumento del mercato funzioni, fino alla teoria dei

«giochi ad ultimatum» ed a più livelli. Molto interessante in tutto l’epistolario

è l’enfasi sui beni immateriali e sul capitale umano – tema fondamentale

del pensiero economico degli ultimi settanta anni ma poco considerato

in Italia sino agli anni Sessanta del Novecento, quando «La Rivista di Politica

Economica» rispondeva con un declino alle proposte di saggi su questi

argomenti in quanto «troppo innovativi e non chiaramente economici».

Alla fine del Settecento a Vienna si cominciava ad annusare quel gran

rigoglio di pensiero, pure economico, che avrebbe caratterizzato la vita

intellettuale della città dei decenni successivi. E alcuni musicisti, Wolfgang

Amadeus Mozart ed i suoi corrispondenti epistolari, ne erano precursori.

Giuseppe Pennisi

L’attenta lettura dell’epistolario è stata fatta da mia moglie Patrice Poupon. Ho avuto utili commenti

dall’Ing. Franco Debenedetti. Errori ed omissioni sono mia sola responsabilità.

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