anno 147°
Nuova Antologia
Rivista di lettere, scienze ed arti
Serie trimestrale fondata da
Giovanni Spadolini
Aprile-Giugno 2012
Vol. 608° - Fasc. 2262
Le Monnier – Firenze
ESTRATTO: Giuseppe Pennisi, L’economia politica di Wolfgang Amadeus Mozart
Un insolito successo editoriale
Nessuno se lo aspettava. Meno di tutti l’editore: una piccola casa di
Varese specializzata in collane musicali (la Zecchini Editore) che pubblica
uno dei cinque periodici del settore (l’unico che non si vende con gadget
come dischi o Dvd). In anni in cui non c’è alcuna ricorrenza mozartiana e
tutti coloro che appartengono al mondo della musica sono intenti a predisporre
i 200 anni dalla nascita di Verdi e Wagner (ambedue cadono nel
2013), l’edizione italiana in tre volumi dell’epistolario integrale di Wolfgang
Amadeus Mozart e della sua famiglia è diventato uno dei successi editoriali
a cavallo tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012. Per i musicologi non è
una novità, in quanto giunge con cinquanta anni di ritardo dall’edizione
originale in tedesco pubblicata da Bärenrieter sotto gli auspici del Mozarteum
di Salisburgo. In breve, coloro del mestiere, che leggono il tedesco, da lustri
hanno gustato il carteggio (o se ne sono annoiati perché tratta poco di musica
ma molto di faccende personali). Ora è nelle mani di coloro che un
tempo venivano chiamati «persone colte». La prima tornata è sparita in
poche settimane e si è prodotta subito una ristampa giunta a metà gennaio
nelle librerie o che si può richiedere all’editore (info@zecchini.com).
Come spiegare il successo? Tanto più che poca pubblicità è stata fatta
e l’opera non costa poco: il prezzo di copertina è 89 euro. Il cofanetto è
elegante; i tre tomi (quasi duemila pagine) sono ben rilegati e stampati su
carta fine e con grafica preziosa. Possono sembrare un soprammobile in
un’abitazione di chi voglia essere considerato «intellettuale» oppure solamente
«una persona colta». Non mancano antologie dell’epistolario di
Mozart, in gran misura basate sull’opera dell’editore Bärenrieter del 1962.
L’ECONOMIA POLITICA
DI WOLFGANG AMADEUS mozart
L’economia politica di Wolfgang Amadeus Mozart 141
La più importante è un volume curato da Elisa Ranucci e pubblicato nel
1981 dalla casa editrice Guanda, ma è limitata e carente per quanto riguarda
le note. Gran parte delle lettere, poi, è di carattere familiare; la metà
circa tra Wolfgang Amadeus ed il padre Leopoldo, con cui il compositore
aveva un rapporto complicato. Utilizzando questa antologia e lettere tradotte
dal tedesco dal direttore d’orchestra Francesco La Vecchia, in ottobre
2011, l’Orchestra Sinfonica di Roma (con la partecipazione di Giorgio
Albertazzi) ha inaugurato la stagione 2011-2012 con un concerto di cui si
avrà presto un Dvd.
A differenza di quanto hanno scritto altri (ad esempio, Norbert Elias)
non credo che la «psicologia» o la «sociologia» di un genio interessino più
di tanto gli italiani di oggi. Ancor meno il suo lessico a volte sguaiato e
cosa gli piacesse fare sotto le lenzuola. Ciò che ha attratto un economista
melofilo alla lettura dei tre volumi – ovviamente una lettura da centellinare
– è la possibilità di utilizzare l’epistolario come chiave interpretativa di
una società in rapida trasformazione (le ultime decadi del Settecento) in
cui il riformismo dell’Illuminismo (delle varie sette massoni-cattoliche a
cui Mozart ed il suo mondo appartenevano) si scontrava con una reazione
oscurantistica. Sfogliando le lettere e soffermandosi su alcune di esse si
comprende meglio l’età di Mozart.
Alcuni anni fa, Mozart fu al centro di un altro insolito successo editoriale
Mozart massone e rivoluzionario di Lidia Bramani (Bruno Mondadori,
2005). Giunto tempestivamente in libreria in occasione dei 250 anni
dalla nascita del compositore – quell’anno al festival di Salisburgo vennero
messe in scena tutte le sue 22 opere per il teatro –, il saggio (500 pagine a
stampa fitta e frutto di anni di lavoro) sembrava interessare unicamente i
cultori della materia. Ci furono ben cinque ristampe.
La lettura delle lettere (certamente studiate da Livia Bramani nell’edizione
Bärenrieter) permette di fare alcune correzioni di tiro significative.
Questo Wolfgang Amadeus era «massone e rivoluzionario» o piuttosto «illuminista
e riformatore»? E consente, almeno in parte, di spiegare perché il
giovane compositore, che, dopo la definitiva rottura con il principe-arcivescovo
di Salisburgo Hyeronymus von Colleredo, aveva spesso difficoltà a
mettere insieme il pranzo con la cena, rifiutò due ingaggi a lungo termine
ben remunerati da parte rispettivamente di Haydn per conto di un impresario
londinese (alla ricerca di un nuovo Händel, dopo la morte di quest’ultimo)
e del re di Prussia (per l’incarico a cui sarebbe approdato Gaspare Spontini).
La «massoneria» a cui Mozart fu affiliato (ne era lo stesso Imperatore)
e di cui Lidia Bramani traccia un interessante quadro nel primo capitolo del
suo libro non era composta di sette segrete, atee e vagamente repubblicane.
142 Giuseppe Pennisi
In Baviera, Austria e Lombardo-Veneto (allora un unico mondo ed un’unica
cultura in cui il ceto istruito era bilingue oppure trilingue) era composta di
gruppi di cattolici imbevuti d’illuminismo. La Loggia in cui Mozart si iscrisse
come «apprendista» a Vienna il 14 dicembre 1784 si chiamava «La Beneficenza
» ed aveva chiare finalità solidaristiche. Il cattolicesimo di Mozart
esplode dalla lettera da Parigi al padre del 9 luglio 1778 in cui lo informa
della morte della madre, «così semplice e così bella» e della propria «completa
e fiduciosa rassegnazione alla volontà di Dio». Nella lettera, riflette
sulla sua stessa futura morte: «quando Dio lo vorrà, lo vorrò anche io». In
un’altra lettera da Vienna, il 13 giugno 1981, fornisce al padre i dettagli di
come segua i «precetti» come «il non mangiar carne in tutti i giorni di magro».
Quasi a corollario, nella lettera straziante dell’11 dicembre 1791 (a
pochi giorni dalla morte del compositore) in cui la moglie Constanze si rivolge
all’Imperatore per avere una pensione per la sussistenza sua e dei figli,
c’è un riferimento esplicito ai pochi anni sia di servizio presso la camera
musicale imperiale sia di partecipazione ad una società mutualistica per
potere fruire di un trattamento previdenziale – non aveva quindi ciò che
oggi in termine tecnico economico si chiama il vesting per avere titolo ad
una pensione, e tanto meno ad una pensione di reversibilità per i superstiti
(moglie e figli minorenni).
Le lettere mostrano, soprattutto, come Wolfgang Amadeus fosse a
lungo influenzato, più che dagli «Illuminati» della «cattolicissima Baviera»,
da quelli che vengono chiamati «Gli Illuministi Settentrionali» (presso le
librerie telematiche o dai rigattieri si può trovare ancora la bella antologia
curata da Sergio Romagnoli ed edita da Rizzoli nel 1962) come i fratelli
Verri, Cesare Beccaria, Gian Rinaldo Carli, Francesco Algarotti, Salerio
Bettinelli, Carlo Denina. Non dimentichiamo che gran parte del suo teatro
in musica è su testi in italiano, che si era immerso nella cultura italiana nei
tre viaggi effettuati negli anni formativi di passaggio dall’adolescenza alla
giovinezza. Aveva avuto certamente accesso a «Il Caffè» – punto di riferimento
dell’Illuminismo riformista italiano (anche in quanto alcuni articoli
erano dedicati esplicitamente alla «commedia» ed alla «musica»), conosceva
il saggio di Francesco Algarotti sull’opera lirica, e le «meditazioni» di
Pietro Verri sull’economia politica e sulla politica tout court.
Nella vastità della produzione di Mozart (l’edizione discografica pubblicata
per il duecentocinquantenario dalla nascita comprende 150 Cd), il
teatro musicale esprime un Mozart «rivoluzionario» unicamente ne Le
nozze di Figaro (dove contessa e cameriera cambiano abito per complottare
contro i rispettivi mariti); lo stesso «rivoluzionario» Don Giovanni viene
punito. Mostra invece un Mozart riformista, specialmente in Lucio Silla,
L’economia politica di Wolfgang Amadeus Mozart 143
Idomeneo, La clemenza di Tito favorevole ad un ordine costituito ma progressista,
alla maniera del circolo de «Il Caffè». O meglio che da «Il Caffè»
andava verso il «socialismi paradisiaco» dell’Illuminismo bavarese.
Dalle lettere traspare la sua scelta di abbracciare la libera professione
(decisione rarissima per un musicista dell’epoca) e di declinare gli inviti da
Londra e Berlino per un amore per l’economia di mercato e di competizione
(anch’essa singolare in un’economia dove si era o in mera sussistenza o
sotto il controllo dell’intervento della burocrazia del sovrano) – approccio
molto più vicino alle «meditazioni» economiche di Pietro Verri che agli
scritti degli «Illuminati» bavaresi, i quali si interessarono di medicina, psicologia,
diritto e filosofia. Gli unici che sfiorarono l’economia (Franz Heinrich
Ziegenhagen, Rudolf Blumauer) lo fecero con una visione di «socialismo
paradisiaco», presente unicamente negli ultimi due lavori per la scena di
Mozart, La clemenza di Tito e, soprattutto, Die Zauberflöte. Significativo,
a riguardo, l’intenso carteggio con il padre nella primavera del 1781, quando,
dopo i viaggi in Italia, dopo Parigi, Mannheim e Monaco in Baviera,
decide di passare il resto della propria vita a Vienna. Nelle lettere si respira
l’entusiasmo per la città e per il suo «sconfinato» potenziale – quasi che
Wolfgang Amadeus presagisse, cosa sarebbe diventata nell’Ottocento e
nella prima parte del Novecento quella che ai suoi tempi non era una delle
capitali europee né a più alto reddito né a maggiore sviluppo tecnologico o
artistico: da un lato, un laboratorio musicale (più per sinfonica e cameristica
che per teatro in musica), da un altro un laboratorio intellettuale (dalla
culla della psicoanalisi a quella «scuola austriaca» di pensiero economica
che aveva il proprio perno nell’«individualismo metodologico»).
In questo articolo non propongo un’esegesi dell’epistolario ma di accostare
le lettere ad alcuni gruppi di opere – le «opere serie», i maggiori Singspiel,
e la trilogia su libretti di Lorenzo Da Ponte. Anche all’interno dei tre gruppi
si devono fare scelte, dato che l’universo mozartiano è sterminato. Delle
«opere serie», ad esempio, ne tratto solamente quattro – Mitridate, re di
Ponto, Lucio Silla, Idomeneo, Re di Creta e La Clemenza di Tito – non solamente
perché sono le più significative ma perché ripercorrono l’esistenza
di Mozart dall’adolescenza alla morte. Dei Singspiel, i due più noti (specialmente
al pubblico italiano) Die Entfürung aus dem Serail e Die Zauberflöte.
Naturalmente, le tre opere della trilogia con Da Ponte vengono trattate nella
loro integrità concettuale e musicale.
Una premessa: dall’epistolario risulta che Mozart non si interessasse
quasi affatto di questioni di denaro (anche per questo aveva sempre le tasche
vuote), tranne che negli ultimi due anni, quando il compositore e la famiglia
sopravvivevano in miseria). Il compositore tratta relativamente poco di
144 Giuseppe Pennisi
economia in maniera diretta; invece, il mondo che lo circondava soprattutto
il padre Leopold era molto attento alle vicende economiche ed alla loro
interpretazione. Tale interpretazione veniva in parte riversata, più o meno
consapevolmente, nei lavori del figlio. Ne emerge un quadro interessante:
più o meno quando in Scozia dalla filosofia morale nasceva l’economia
politica, nella piccola Salisburgo e nella grande Vienna, musicisti, imbevuti
di «Illuminismo Settentrionale» milanese formulavano non certo teoremi
ma considerazioni analoghe. Mentre in Baviera l’Illuminismo prendeva la
corsia del «socialismo paradisiaco», una forma estrema di quello che Karl
Marx avrebbe etichettato «socialismo scientifico».
Le opere serie: il principe e la mano invisibile
Le principali «opere serie» di Mozart hanno un fil rouge che le lega
nonostante il passare degli anni ed il cambiamento delle stesse «convenzioni
» del teatro in musica: la prima è andata in scena a Milano il 26 dicembre
1770 (data importante perché in occasione di Santo Stefano iniziava «la
stagione» principale del teatro, stagione che si sarebbe protratta sino alla
fine del Carnevale) e l’ultima il 6 settembre 1791 a Praga, appena otto
settimane prima della morte del compositore. Il fil rouge è nei libretti ma
ancor più nella musica: il contrasto tra la supposta onnipotenza, ove non
onniscienza del principe (o del dittatore), e la «mano invisibile» che lo costringe
a mutare obiettivi e strategia, con veri e propri «colpi di scena».
Tale «mano invisibile» è rappresentata in certi casi dai «cittadini» o dal
«popolo»; in altri da una cerchia più ristretta di familiari, ove non dai propri
figli (i cui obiettivi sono «particolaristici», come quelli del droghiere di
Adam Smith, ma portano alla ricomposizione finale) – quell’«armonia sociale
» che è connaturata nel «lieto fine» di rigore nell’«opera seria» del
Settecento e dei primi decenni dell’Ottocento (prima che venisse travolta
in Italia dal melodramma donizettiano e verdiano, in Francia dalla «tragédie
lyrique» e in Germania dall’«opera romantica tedesca»).
Mitridate, re di Ponto è un remake per Milano di un’opera dallo stesso
titolo e, in linea di massima, con lo stesso libretto (di Vittorio Maria Cigna-
Scotti) andata in scena a Torino nel 1767 per la musica dell’ormai dimenticato
Quirino Gasparini. Ambedue hanno origine nella tragedia di Racine
Mythridate tradotta in italiano da quel Giuseppe Parini, elegante poeta ed
ironista – per decenni nei licei italiani si è studiato il suo capolavoro
Il Giorno – imbevuto più di molti altri dell’«Illuminismo Settentrionale».
Nelle tragedie di Racine, il lato più importante è l’eleganza del verso; lo
L’economia politica di Wolfgang Amadeus Mozart 145
sviluppo psicologico dei personaggi è invece modesto e la stessa drammaturgia
elementare. Parini, pur raffinatissimo, mise, nel tradurre, un po’
della sua ironia; Cigna-Scotti era un librettista da dozzina. Dall’epistolario
risulta come per l’adolescente Wolfgang Amadeus la preparazione di quello
che sarebbe dovuto essere il debutto più importante, fu una vera sofferenza:
il libretto venne consegnato tardi, i cantanti, scelti dall’impresario,
facevano le bizze, Wolfgang Amadeus a 14 anni li giudicava da fine critico
musicale e si dava poco conto degli aspetti amministrativi (e compone serenate
per le belle fanciulle che incontra, musica per la madre lontana e via
discorrendo). Da una lettera di Leopold alla moglie del 24 marzo 1770
apprendiamo che la «scrittura» (ossia il contratto d’ingaggio) è finalmente
fatta, anche se a prezzi di saldo rispetto a quanto ottenevano musicisti allora
famosi ma già obliati pochi anni più tardi. La «scrittura» è una benedizione
perché i Mozart sono, per così dire, in «aspettativa senza assegni»
dal servizio presso l’Arcivescovado di Salisburgo e nel viaggio in Italia
cercano di risparmiare facendosi ospitare da amici e conoscenti, anche in
quanto le locande sono ricettacoli di borseggiatori e ladroni.
Mentre l’opera viene composta, Leopold documenta nella lettera del
21 agosto 1770 da Bologna quanto gli economisti tedeschi (anche quelli
della Baviera) negavano nel loro approccio «storicistico» alla «triste scienza»:
l’economia ha le sue proprie leggi. Un terremoto nella lontana Santo Domingo
fa sì che «i signori commercianti coglieranno l’occasione per aumentare
il prezzo dello zucchero dato che laggiù le piantagioni di canna da
zucchero sono andate distrutte». Ma grazie al suolo della Pianura padana,
mangiano, «con moderazione», «fichi, meloni e altri frutti». Al giovane
Wolfgang non manca il fruttosio, pur se prima di concentrarsi su Mitridate
compone a destra ed a manca tante altre cose (spesso per il corteggiamento
di fanciulle – è un quattordicenne precoce).
Veniamo all’opera: l’anziano Re di Ponto si è fidanzato con la bella e
giovanissima Aspasia, desiderata però dai due suoi figli, e pretendenti al
trono, Sifare e Farnace. Quest’ultimo è desiderato anche da Ismene, figlia
del re dei Parti, ma pur di avere Aspasia, tradisce i suoi e trama con i romani.
Battaglia finale: Mitridate ferito a morte da il trono e la mano di
Aspasia a Sifare e perdona il traditore Farnace che sposa Ismene (e presumibilmente
lascia con lei il Ponto per insediarsi nel Regno dei Parti). L’opera
viene raramente rappresentata in Italia; ne ricordo una bella esecuzione
al teatro Olimpico di Vicenza negli anni Ottanta con la regia di Jean-Pierre
Ponnelle e la direzione musicale di Nikolaus Harnoncourt. Ne è stato tratto
un interessante Dvd. Ne ascoltai una versione integrale quando ero liceale,
grazie all’AGIMUS, nell’auditorium della Rai a Roma curata dai Vir-
146 Giuseppe Pennisi
tuosi di Roma diretti da Renato Fasano. Un’esecuzione sfiora, con due intervalli,
le cinque ore. Nella recente produzione a Monaco (un successo
tale che verrà ripresa al festival nel luglio 2012) dura tre ore e mezzo ed è
attualizzata a vicenda di amore ed eros tra ragazzi dei giorni nostri. Il quattordicenne
Mozart sapeva di dovere dare maggiore attenzione ai cantanti (i
veri «divi» dell’«opera seria») che alla vicenda di passioni e tradimenti sulle
sponde del Mar Nero (di cui non si avverte l’onda neanche in un unico
accordo). Invece, si sente subito una forte carica di innovazione: una rapida
sinfonia in tre tempi (allegro-andante-presto), recitativi secchi vivaci
corrispondenti alle esigenze del testo (non semplici interludi tra arie), nelle
arie più importanti («Nel sen mi palpita il dolente cor» di Aspasia) una
linea vocale drammatica senza cedimenti alla fin troppo facile tentazione
della coloratura, e nel finale momenti che, correttamente, secondo il musicologo
inglese Charles Osborne, anticipano il durchkomponiert wagneriano.
È in questo finale, così insolito per il 1770, che si avverte come l’opera (che
ebbe un travolgente successo, di cui Leopold è accurato cronista nella sue
lettere) non è saggio scolastico di un adolescente ma un piccolo gioiello; la
«mano invisibile» sconvolge sia i piani di Farnace (che si ravvede) sia la
scrittura vocale ed orchestrale: alla consueta composizione di archi, due
oboi e due corni, Wolfgang aggiunge le trombe.
Lucio Silla viene commissionata dal teatro Ducale di Milano sulla scia
dell’esito trionfale di Mitridate. È un’altra «opera seria», di successo nell’ultimo
scorcio del Settecento ma poco apprezzata sino a tempi recenti quando
nel 1983, in un allestimento scaligero Patrice Chéreau mostrò come le
pulsioni del quattordicenne autore di Mitridate erano diventate, due anni
dopo, una vera e propria esplosione ormonale. Nel 2006 in una coproduzione
con il festival di Salisburgo, Jürgen Flimm (uno dei più noti registi
tedeschi; anzi il metteur en scène preferito dal compianto Giuseppe Sinopoli)
ne mostrò la valenza politica. Il librettista, Giovanni da Gamerra, era
un poetucolo che valeva poco e nulla. Silla non è il sadico e crudele dittatore
delle Vite parallele di Plutarco o il simbolo stesso del potere assoluto
del De tirannide di Seneca. Poco o niente ha a che fare il libretto di da
Gamerra con la storia romana e con lo stesso inspiegabile ritiro del tiranno
a vita rurale. Nell’opera di Mozart, Silla è un ragazzone cresciuto male ed
educato peggio; per lui il potere politico è soltanto uno strumento per portarsi
a letto le donne che sul momento desidera: si è invaghito della casta
Giunia, sposa di Cecilio (spedito al confino). D’intesa con Cinna e Clelia,
però, Giunia (tutta d’un pezzo come la Leonore del Fidelio di Beethoven)
decide di pugnalare il tirannico giovanotto non appena sono sotto le lenzuola
(e Silla non ha né mutande né tanto meno spada). L’improvviso arri-
L’economia politica di Wolfgang Amadeus Mozart 147
vo di Cecilio a tutela della moglie fa saltare tutto. Ma, dopo avere fatto
loro passare una notte in galera, Silla perdona i congiurati poiché in effetti
è logoro del troppo potere e delle troppe donne. Attenzione, nella drammaturgia
di Flimm (che si può gustare in un ottimo Dvd), dopo avere perdonato
tutti e messosi quasi in pensione, il tiranno Silla viene ucciso da uno
dei popolani che hanno sofferto sotto la sua tirannide. Ciò coglie bene lo
spirito di una partitura in cui il sedicenne Mozart rispetta tutte le convenzioni
dell’«opera seria» settecentesca (sinfonia tripartita, diciotto arie, un
duetto, un terzetto ed un concertato, lieto fine) ma utilizza in modo mirabile
gli strumenti a fiato e le percussioni, infonde una straordinaria dose di
sensualità nella scrittura orchestrale e vocale e rende Giunia un personaggio
di grande complessità psicologica e musicale (quasi un anticipo della
«tragédie lyrique» francese preromantica).
Non solo, la passione è anche politica; a Milano, dove si respira «Illuminismo
Settentrionale» si può trattare un tema – il tirannicidio – centrale,
ad esempio, all’opera di Vittorio Alfieri ma vietatissimo a Vienna (ed ancor
più a Monaco) e che, dopo il congresso di Vienna, sarebbe diventato off
limits pure nel Lombardo-Veneto (come ben apprese Verdi tramite le traversie
per mettere in scena Rigoletto, Un Ballo in Maschera e le varie versioni
de Les Vêpres Siciliennes). Il tirannicidio, inoltre, viene orchestrato
in una Roma «repubblicana» dove il popolo ed il Senato hanno un ruolo
crescente. E con essi la consapevolezza del mercato e delle ineguaglianze
che esso comporta se non è ben funzionante.
Ancora una volta, occorre rifarsi al carteggio tra Leopold e la moglie
per toccare con mano temi che dovevano essere di conversazione corrente
nell’entourage di Wolfgang: i prezzi a Salisburgo crescevano rapidamente
ed i salari reali diminuivano, creando povertà ed emigrazione di talenti
(1° settembre 1770); la classe politica bada a sé stessa e si spartisce «rendite
» (sempre 1° settembre 1770); anche accanto alla Curia papale i giochi
si fanno duri ed hanno come oggetto potere e denaro (22 settembre 1770):
«che ne sarà di Salisburgo se non si pensa al mezzo di stabilire un regime
più sano?» (27 ottobre 1770); «in Italia va tutto in modo folle» (1° dicembre
1770); il mercato non funziona perché l’imbroglio è sovrano (primo
marzo 1771); il travisamento dell’informazione relativamente a «una guerra
italiana di cui si parla tanto in Germania» anche se «non c’è nulla di
vero» (Wolfgang alla madre, 7 novembre 1772); la scoperta di un «nuovo
gioco che qui si chiama ‘mercante in fiera’» (Wolfgang alla sorella 5 dicembre
1772) e che esalta l’azzardo. In questo clima, tra capricci di prime
donne e di tenori, ritardi nei pagamenti, va in scena un Lucio Silla attesissimo
(«alle 5 il teatro era tutto pieno», 2 gennaio 1773) e Mozart illustra
148 Giuseppe Pennisi
la formazione dei prezzi, il funzionamento del mercato, le sua disfunzioni
e la sua antitesi alla «tirannide».
Passano circa otto anni tra Silla e Idomeneo, Re di Creta. Tra le due si
situano opere semi-serie all’italiana (Il Re Pastore» e La Finta Giardiniera),
un’incompiuta (e non si sa da chi commissionata) «opera seria» in tedesco
(Zaide), le musiche di scena per Thamos ed un numero vastissimo di sinfonie,
concerti, serenate e quant’altro. Secondo Paolo Isotta, Idomeneo, re di
Creta «rappresenta, nonostante tutto quello che Mozart vi fece seguire, Die
Zauberflöte compreso, il più strenuo e più riuscito sforzo del musicista per
toccare la sublimità tragica e la potenza espressiva». Edward J. Dent dà un
giudizio analogo nella sua opera fondamentale sul teatro di Mozart. Wolfgang
la compose nel 1780. Dopo un periodo di oblio, è oggi una delle opere mozartiane
più amate dal pubblico. Se ne sono viste di recente edizioni in tutti
i maggiori teatri italiani e stranieri. Apprezzabile una produzione, frutto
della collaborazione di numerosi teatri (Torino, Bologna, Modena, Reggio
Emilia, Ferrara e Ravenna) a ragione dei mezzi che l’allestimento richiede,
che ha girato per mezza Italia. Il libretto, apparentemente una parabola
edificante, del modesto abate Gian Battista Varesco è di stampo metastasiano.
Quindi, già rétro quando venne scritto. Di ritorno dalla guerra di Troia
(nella vita di Mozart e nelle sue opere, i viaggi non mancano mai), Idomeneo,
re di Creta, nel corso di una tempesta marina, promette a Nettuno di sacrificare
la prima persona che incontrerà all’approdo. Questi è il principe
reggente, l’avvenente Idamante, suo figlio, conteso tra la troiana Ilia e la
greca Elettra, ambedue vogliose di portarlo a letto prima e all’altare poi (le
donne mozartiane, va ricordato, sono tutt’altro che fragili). Per amore paterno,
il re non mantiene la promessa. Nettuno invia un mostro che minaccia
di divorare tutti i cretesi. Idamante, per amor di patria, lo uccide, ma i sacerdoti
reclamano, comunque, il sacrificio. Il giovane principe è pronto a
farsi sgozzare. Mentre Idomeneo sta per farlo, Ilia si sostituisce a Idamante
e chiede di essere immolata al posto suo. Nettuno perdona tutti; Idamante
ascende al trono coniugato a Ilia; Elettra si dispera in isterica follia, mentre
si celebra il nuovo re.
Come riuscì da questo pasticcio, un ventiquattrenne (o giù di lì) quale
era allora Mozart, in procinto di lasciare un impiego sicuro ed a tempo
indeterminato a Salisburgo (dove lo offendeva dover pranzare e cenare con
la servitù (lettera al padre del 17 marzo 1780), per una dura scoperta del
mondo da musicista libero professionista, a tirare fuori un capolavoro sommo?
Neanche nella più nota trilogia dapontiana, il compositore austriaco
ritrovò la compattezza musicale di Idomeneo. Mai la musica per teatro di
Mozart, neanche nelle ultime opere, ebbe un’orchestrazione, al tempo stes-
L’economia politica di Wolfgang Amadeus Mozart 149
so, così complessa e così smagliante, nonché parti vocali tanto innovative,
quali il grande quartetto del terzo atto, in cui si fondono un recitativo secco,
un duetto, un recitativo accompagnato e un concertato a quattro voci,
oppure l’ultima aria di Elettra in cui si rompe la consueta divisione in numeri.
Per un quartetto analogo a quello del terzo atto di Idomeneo si sarebbe
dovuto aspettare il Rigoletto circa 70 anni più tardi e per un’aria simile
si deve giungere quasi all’ultimo Giuseppe Verdi – quello di Aida, se presentata
in versione intimista – o a Richard Strauss. Ci si chiede spesso cosa
abbia portato Mozart a una vetta così alta partendo da un libretto convenzionale
di «opera seria», pur se fortemente marcato dalla rivoluzione gluckiana
allora in corso e dai canoni della «tragédie lyrique». Al giovane
adulto, che componeva Idomeneo, stava stretta la cappa protettiva del padre.
Ed ancora di più gli stavano strettissime le regole di Palazzo imposte
dal camerlengo conte Karl Joseph Felix von Arco passato alla storia per le
pedate nel fondoschiena che fecero da contrappunto al licenziamento di
Wolfang Amadeus dai servigi presso l’Arciverscovado. Aveva, inoltre, una
vita sentimental-erotica complicata ed era già in cammino verso il «praticantato
», per così dire, della massoneria. In quel lavoro, quindi, riversò e
sublimò le proprie tensioni interiori, sia quelle nevrotiche sia quelle politiche.
Nella partitura abbiamo le nevrosi dei rapporti con il padre-padrone
Leopold nell’interazione tra Idomeneo ed Idamante; le nevrosi delle relazioni
anche sessuali con le donne nel triangolo Idamante-Ilia-Elettra; le
nevrosi del nesso con Dio (il burrascoso rapporto tra Idomeneo e Nettuno).
In Idomeneo, dette ai propri conflitti interiori uno spessore universale e
atemporale, tanto che si sono visti allestimenti dell’opera con scene e costumi
di epoca bonapartiana e anche da secondo dopoguerra. Sotto il profilo
politico, il ventiquattrenne Mozart aveva già le idee chiare. Non un
«rivoluzionario», ma un «riformista» che adorava l’armonia della monarchia
(non per nulla si iscrisse alla loggia più vicina alla Corte), ma la voleva
temperata (in Idomeneo come in Lucio Silla, il sovrano assoluto perde lo
scettro). Aveva pregiudizi vagamente razzisti (nei confronti dei turchi e di
coloro dalla pelle nera – che sarebbero stati evidenziati con maggior forza
in Die Zauberflöte), avvertiva ma non approvava la forza interiore e l’astuzia
delle donne e in un unico lavoro (Le Nozze di Figaro) espresse un punto
di vista politicamente tutt’altro che corretto, con la «doppia rivoluzione»
delle donne e della servitù.
Nella coproduzione che ha girato per sei teatri italiani, l’«opera seria»
viene presentata in una versione non filologica: si segue essenzialmente la
prima edizione, approntata per Monaco di Baviera dove andò in scena nel
1781, ma viene eliminato (anche per ragioni di economia) il lungo balletto
150 Giuseppe Pennisi
finale e vengono incorporati alcuni passaggi della edizione predisposta
dalla stesso Mozart nel 1786 per Vienna, dove, a quel che si sa, non andò
mai in scena. Il ruolo di Idamante, originariamente scritto per un castrato,
è interpretato da un mezzo soprano. Nell’edizione per Vienna venne riscritto
per un tenore leggero e inclusa, per chi cantava il ruolo, un’aria con solo
accompagnamento di violino che è un vero splendore. Lo spettacolo dura
complessivamente circa tre ore e mezzo con i due intervalli. Nel teatro in
musica di Mozart, come si è detto, Idomeneo ha avuto un lungo periodo di
oblio. Dopo una tornata di rappresentazioni a Monaco nel 1781 e la revisione
eseguita per Vienna, l’opera di fatto sparì dai repertori. Nell’Ottocento,
veniva rappresentata solo in Germania e tradotta in tedesco dalla versione
originale in italiano. Fu quel genio di Richard Strauss a riproporla nel
Novecento con una sua propria riorchestrazione. Soltanto negli ultimi
trent’anni, e in particolare dal 1980 (o giù di lì), è entrata tra i lavori mozartiani
rappresentati con frequenza nei teatri italiani nell’orchestrazione
originaria. Eppure – come si è visto – da molti viene considerata il capolavoro
assoluto di Mozart per il teatro: l’opera in cui più precorre i tempi
sotto il profilo musicale e nella quale svela meglio, al tempo stesso, il proprio
credo politico e le sue nevrosi più intime. L’allestimento citato (il più visto
di recente in Italia) pone l’accento sugli aspetti «politici»: la centralità della
persona e del perseguimento della felicità. Sulla scena (realizzata da
Santi Centineo con i costumi di Giusi Giustino) si svolge un dramma atemporale
di sentimenti, eros e interazione con sé stessi. La scena è stilizzata
con il mare sempre presente, l’attrezzeria è composta unicamente da un
grande letto a due piazze e una decapottabile americana anni Cinquanta in
malo arnese. Il primo è il talamo che Ilia sogna per sé ed Idamante; il secondo
l’auto con cui Elettra si trascina nell’arcipelago greco e in cui nel
secondo atto toglie la verginità al giovane principe. Nettuno è lo specchio
freudiano di Idomeneo, di cui il re riesce a liberarsi solo quando, dopo le
traversie dei suoi cari, acquista contezza della sofferenza. È una lettura che
regge drammaturgicamente molto meglio di quella fortemente politica (di
«scontro di civiltà» alla Samuel Huntington) che nello stesso periodo è
partita da Aix-en-Provence per raggiungere Brema, Vienna, Lussemburgo
e vari teatri francesi – un altro Idomeneo viaggiante.
Da queste letture «politiche», si può giungere anche a letture di economia
politica? A livello astratto, ed inespresso, Idomeneo ci mostra una visione
economiche di «mercati e gerarchie», quale quella che ottanta anni dopo
avrebbe teorizzato Alfred Marshall e in tempi più recenti, Oliver Williamson,
nonché in Italia, tutta la scuola di economia istituzionale interessata ai «distretti
industriali». Non si può certo pensare che il ventiquattrenne Wolfgang
L’economia politica di Wolfgang Amadeus Mozart 151
precorresse la visione di quelli che sarebbe stati «i distretti marshalliani»
(quali teorizzati da uno dei maestri della scuola americana di diritto pubblico
dell’economia) e la letteratura ad essi attinenti, ma il ritorno dell’armonia
a Creta in un sistema gerarchico dove un re eletto dal popolo, Idamante,
tempera il mercato fornisce una chiave di lettura interessante. La conoscenza
di microeconomia, e di una microeconomia di mercati e gerarchie, è
nell’epistolario: il 2 febbraio 1778 (mentre Idomeneo era in fattura) Leopold
esterna alla moglie la preoccupazione per quella che si chiamerebbe oggi la
«governance» dell’Impero dopo la conquista delle miniere di sale bavaresi
da parte dell’Austria; il 7 febbraio 1778 è Wolfgang a scrivere alla madre un
mini trattato su economia e matrimonio (di convenienza nei ceti ad altro
reddito, mentre «noi povera gente comune non soltanto dobbiamo prendere
una donna che amiamo e che ci ama, ma dobbiamo, possiamo e vogliamo
prenderla così poiché non siamo nobili, né altolocati, né aristocratici, né
ricchi, ma piuttosto umili, miseri e poveri; perciò non abbiamo bisogno di
una moglie ricca»); ancora sempre il 7 febbraio 1778, l’apodittico: «la nostra
ricchezza muore con noi perché ce la abbiamo nella testa» (un’anticipazione
della «teoria del capitale umano») ; infine, l’«economia dei bordelli», di cui
ha contezza nella città libertina per eccellenza (Parigi), ma da cui si tiene
lontano, scrivendo al padre il 22 febbraio 1778: «sono un Mozart, ma un
giovane Mozart benpensante», modo elegante per dire che far sesso gli piace
molto, ma non va con prostitute. E, su tutto, il peso della nuova imposizione
fiscale che là dove il principe non è saggio, e le gerarchie non correggono
le imperfezioni del mercato ma le aggravano, distruggono la crescita e
portano alle «maledizioni della gente» (da Leopold a Salisburgo a Wolfgang
a Parigi il 28 maggio 1778).
Indubbiamente, in terra di Baviera, ciò che dai Mozart (padre e figlio)
era stato assorbito dagli «Illuministi Settentrionali» comincia a colorarsi del
«socialismo paradisiaco» degli illuministi bavaresi ricordati nella prima
sezione di questo articolo – nella congerie dei socialismi chiamati «utopistici
» da Marx. Comincia pure l’avvicinamento verso la massoneria cattolica
del mondo di lingua tedesco – il percorso iniziatico di Mozart sarebbe
stato formalmente avviato quattro anni dopo, come si è ricordato. In Idomeneo,
c’è un punto importante: il nesso sia drammaturgico (il passaggio
da potere carismatico a potere fondato sul consenso di aristocratici e «popolo
» in senso lato, nonché da una generazione all’altra) che musicale (in
«pianissimo») – una coincidenza tra il finale di Idomeneo e quello della
terza versione del verdiano Simon Boccanegra (cento anni dopo). Non
credo che Verdi conoscesse le versioni in tedesco di Idomeneo che circolavano,
non molto frequentemente e fortemente modificate rispetto all’origi-
152 Giuseppe Pennisi
nale, in terre al di là delle Alpi e del Reno. Specialmente in quella fase,
però, era fortemente imbevuto (anche grazie al sodalizio con Arrigo Boito)
in antiassolutismo ed in riscoperta del pensiero illuminista lombardo.
Passano anni, prima de La clemenza di Tito, ultima opera di Mozart in
termini di composizione, anche se penultima in tema di debutto sulle scene.
Composta in appena 18 giorni, nel 1791, in occasione dell’incoronazione
di Leopoldo II come re di Boemia. Attanagliato da debiti (molto esplicito
il carteggio del periodo quasi interamente dedicato alle ristrettezze finanziarie
e con pochi cenni al lavoro di composizione oppure ancora al mondo
politico ed economico che lo circonda) ed afflitto dalla nefrite (o dalla sifilide?)
che lo avrebbe presto portato alla tomba, Wolfgang sperava di avere
in tal modo ripianata, almeno in parte, la propria situazione finanziaria e
di trovare un posto (ed uno stipendio fisso) a Corte, dopo avere declinato
le offerte di Londra e Berlino. Lontani i tempi di quando da Vienna il 5
settembre 1781 scriveva al padre, con orgoglio, di essere l’unico musicista
della capitale che è «riuscito a fare grazie ai (propri) sforzi» mentre gli altri
«facevano ricorso al loro salario». Ora Tito serve a tendere la mano se non
per un salario, per incarichi ben remunerati in quanto è a capo di una famiglia
indigente ed il padre non ha modo di aiutarlo (preso tra l’altro a
fare il nonno al figlio della figlia).
È una «opera seria celebrativa», ideata proprio quando il genere stava
sparendo, sostituito dalla «tragédie lyrique», prima, e dal melodramma, poi.
Può essere chiamata, scherzosamente, una «divina marchetta» in quanto
anche un lavoro di mera celebrazione diventava, nelle sue mani, divina. La
clemenza utilizza un vecchio libretto del Metastasio (riscritto, però, dal
mestierante Caterino Mazzolà), a sua volta, elaborato per l’onomastico di
Carlo VI (nonno di Leopoldo II) e messo in musica, nel 1734, da Antonio
Caldara e successivamente da una mezza dozzina di altri compositori (tra
cui Gluck). Opera stilizzata, che piaceva a Brecht perché i personaggi esprimono
temi: Tito è la clemenza, Vitellia la vendetta, Sesto il tradimento
tormentato, Annio l’amicizia, Servilia l’amore, Publio la burocrazia. La
«marchetta» è «divina» in quanto avvolta dalla musica sontuosa di Mozart,
ma resta tale. Tra le «opere serie» di Wolfgang Amedeus non ha la sensualità
di Mitridate, re di Ponto e di Lucio Silla. Non è un capolavoro sommo
come Idomeneo, Re di Creta.
Come eseguirla oggi? Non è facile metterla in scena: non ci sono riusciti
né Luca Ronconi nel 2010 al San Carlo né lo stesso pluripremiato
David McVicar nell’allestimento presentato a Aix-en-Provence ed a Londra
(nonché in altre città) nel 2011. Esemplare l’edizione presentata una decina
di anni fa al Maggio Musicale Fiorentino. A Firenze, nella Roma in
L’economia politica di Wolfgang Amadeus Mozart 153
modellini di gesso in miniatura (Maurizio Balò), Federico Tiezzi interpreta
con leggera ironia i personaggi-tema (brechtianamente parlando) in
costumi settecenteschi (Vera Marzot). La recitazione non è mai enfatica;
la vicenda di tradimenti e contro-tradimenti, di perdoni e di oblii resta
stilizzata (pur se avvolta da una leggera ironia). È una lettura discutibile
(ed è stata, infatti, discussa) ma plausibile. Pur se concepita per Praga e
per ingraziarsi il nuovo Regnante, è forse, una delle opere dove più si avverte
l’«Illuminismo paradisiaco» bavarese, in cui la grande armonia (e
quindi i mercati) è fortemente gestito da un «dittatore benevolo» ed altruista.
C’è, però, un nesso con la visione politica e l’economia politica assorbita
in Italia: il (tentativo di) tirannicidio nel finale del primo atto, strettamente
legato al pensiero italiano di fine settecento, ed anche alla letteratura
in italiano di quel periodo, e poco riscontrabile nel pensiero e nella
letteratura dell’Austria e della Baviera.
Il Singspiel – Dall’Illuminismo dell’Italia settentrionale al socialismo «paradisiaco
» della Baviera
Die Entfürung aus dem Serail debutta un anno e mezzo dopo Idomeneo
ma molte cose erano cambiate tanto nella vita e nella professione di Mozart
quanto nel contesto politico dell’Impero d’Austria. Wolfgang era stata
cacciato, letteralmente a calci nel sedere, dal conte Arco, ciambellano
dell’arcivescovo di Salisburgo sia dal servizio presso il principe-arcivescovo
(che gli procurava, oltre ad un piccolo stipendio, vitto ed alloggio a
Vienna) sia dall’abitazione in affitto nella capitale, aveva trovato ospitalità
presso la signora Weber (una vedova di cui avrebbe sposato la figlia) e,
convinto della sua bravura, si lanciava come musicista libero professionista.
L’imperatore Giuseppe II (massone cattolico) si era lasciato entusiasmare
dalla possibilità di varare un teatro in musica nazionale; aveva abrogato la
prassi di affittare il teatro Imperiale a impresari (per lo più italiani) per
farlo diventare parte integrale della Casa «Imperiale e della Nazione»; incoraggiava
le opere in tedesco, iniziando dal Singspiel (già molto diffuso
nel Nord) in cui l’azione si dipanava recitata ma era interrotta da numeri
musicali (ben differente dall’opera «buffa» italiana in cui i «recitativi»
erano cantati ed accompagnati dal clavicembalo). Aveva anche lanciato il
«Giuseppinismo», un tentativo di riforma della Chiesa alla britannica,
mantenendo i riti ma sostituendo il papa con la propria «Imperial persona»;
molti conventi di suore vennero chiusi e le religiose, spesso addestrate
come cantanti, si diedero al teatro.
154 Giuseppe Pennisi
In questo clima, un po’ confuso e disorientante per non pochi sudditi
dell’Impero (nonché caratterizzato da tensioni con la Santa Sede), nasce
Die Entfühung. Presentata al Burgtheater (teatro del Borgo, quindi del
popolo, lontano dalla pompa di quello imperiale) fu, lui vivente, l’opera di
maggior successo di Mozart (purtroppo allora i «diritti d’autore» non erano
regolamentati così efficacemente come lo sarebbero stati nell’Italia della
seconda metà dell’Ottocento (in gran misura, grazie a Giuseppe Verdi ed
alla Casa Ricordi ed alle loro iniziative contro «la pirateria musicale»). Se
lo fossero stati, Mozart avrebbe potuto vivere sereno l’ultima fase della sua
breve esistenza terrena. Fu una delle poche opere mozartiane che restarono
in repertorio durante l’Ottocento e la prima metà del Novecento, anche se
in Italia arrivò solo nel 1935. Mozart era un sostenitore della necessità di
un teatro d’opera nazionale tedesco (si veda l’appassionata lettera al padre
del 5 febbraio 1783) e non era nuovo al Singspiel – il giovanile Bastien und
Bastienne e l’incompiuto Zaire – ma era alle prese con un libretto pasticciato
di Gottlied Stephanie, tratto da una commedia di Christoph Friederich
Bretzner, tratto a sua volta da fonti inglesi (tra cui una vera e propria commedia
musicale). In aggiunta, Mozart aveva a disposizione cantanti di
maturo successo che imponevano le loro regole: l’aria più nota del soprano
(Martern der Arten) era un’aria di bravura per concerto dalla Caterina Cavalieri
protagonista della prima rappresentazione. Sotto il profilo musicale,
il lavoro presenta una mescolanza di stili incompatibili tra loro: dal «vaudeville
» ai duetti ed ai terzetti da opera comica, a numeri da opera seria, ad
echi di cantate di chiesa.
Sotto il profilo drammaturgico viene di solito interpretato come una
settecentesca «turquerie», commedia in musica buffa vagamente antiorientale;
quindi, lazzi, frizzi e allusioni sessuali a volte anche pesanti, e con più
di un pizzico di razzismo. In alcune letture, questo stile viene mescolato a
quello di una «pièce à sauvetage», dramma in prosa o in musica basato su
un «salvataggio», genere teatrale che sarebbe diventato di moda una decina
di anni più tardi, all’epoca della Rivoluzione francese, e di cui l’esempio più
grande è Fidelio di Beethoven. In una lettura in repertorio da anni alla Komische
Oper di Berlino, il regista Calixto Bieito, il «serraglio» è un bordello
sado-maso; in stanze di plexiglass varie coppie si esibiscono in diverse
posizioni del Kamasutra. I «nostri» scappano rivoltella alla mano facendo
strage dei frequentatori del bordello. Il pascià viene ucciso, mentre tenta
un ultimo abbraccio con Kostanze, che nella confusione generale si suicida
(probabilmente pensando che a letto Belmonte è inferiore al pascià). L’interpretazione
tenta di risolvere la discrasia tra un libretto insulso da turquerie
ed una musica, nei momenti centrali, drammaticissima. La predilezione
L’economia politica di Wolfgang Amadeus Mozart 155
di Bieito per i fondo-schiena e per i genitali (specialmente maschili), già
esibita in Un Ballo in Maschera a Madrid, si accompagna con una lettura
musicale – Kirill Petrenko – piena di brio. Eccezionali comunque i cantanti
attori – tutti giovani e di belle fattezze.
In altra edizione, proposta a Roma nel 2011 da Graham Vick e Gabriele
Ferro, si parte dall’assunto che, dopo Idomeneo, Die Entführung aus
dem Serail è il primo capolavoro in cui il giovane compositore entrò nella
stesura del libretto, suggerendo in prima persona dialoghi, doppi sensi
(anche i più espliciti) e arie. Difficile per il nostro pubblico latino catturarne
e capirne l’ambiguità. Si ricordano unicamente poche edizioni di
livello: quella del 1969, con regia di Giorgio Strehler e scene e costumi di
Luciano Damiani e quella affidata a Zubin Metha (direzione musicale) e
Elike Grams (regia) a Firenze nel 2002. Nel 2011 c’erano ben tre allestimenti
differenti in giro per l’Italia. Senza dubbio, il migliore è stato quello
romano: la vicenda si svolge in un ambiente astratto, dominato da un
grande cubo (ormai quasi un marchio di fabbrica di Graham Vick); elegante
e raffinato, lo spettacolo è molto «British» ma perde parte dell’ambiguità.
La si ritrova, invece, nell’accurata concertazione di Ferro, dove
brio e ironia incorniciano un vero dramma che è al centro dell’opera e
nelle belle voci dei protagonisti (su cui eccellono Maria Grazia Schiavo e
Charles Castronovo). La Schiavo, apprezzata principalmente nel teatro
barocco e nei ruoli di coloratura, conferma di essere un «soprano assoluto»
dall’ampio registro, destrezza nell’ascendere e discendere da acuti terrificanti
e grandi capacità sceniche. Castronovo è un giovane tenore lirico
americano, molto affermato, oltre che negli Usa , in Germania, Austria e
Francia: rare le sue apparizioni in Italia. Il Teatro dell’Opera ha fatto bene
a farlo conoscere: timbro chiaro, fraseggio elegante, «do» acuti senza difficoltà.
Buoni professionisti Beate Ritter (Blonde), Cosmin Ifrim (Pedrillo)
e Jaco Huijpen (Osmin). Ottima l’idea di affidare ad un cantante (il bassobaritono
Rodney Clarke) la parte recitante di Selim.
Si sono accostate queste produzioni così differenti perché, Die
Entführung è un lavoro la cui bellezza sta nella sua ambiguità. Mentre Pedrillo,
Osmin e Blonde appartengono al mondo della turquerie, Konstanze
e Belmonte sono cugini dell’Idamante, dell’Ilia e dell’Elettra di Idomeneo;
nella sua tremenda tolleranza, per certi aspetti terrificante, la voce recitante
Selim il pascià è il mostro-Dio dell’opera di un anno e mezzo prima. Il
finale è aperto; non sappiamo se dopo la liberazione da parte del magnanimo
Selim, Konstanze non rimpiangerà di non avergli ceduto (per restare
fedele al bello ma debole Belmonte). Die Entführung si svolge quindi in un
serraglio pieno di segreti; per svelarli, l’esecuzione richiede un equilibrio
156 Giuseppe Pennisi
sempre dinamico e sempre instabile tra la buffa umanità di questo mondo
e le vette rivolte all’Alto.
Ci sono riferimenti alla «triste scienza»? Come si vedrà meglio analizzando
Le nozze di Figaro c’è un confronto tra tre modi di vedere il mondo:
Pedrillo, Osmin e Blonde appartengono ad un settecento mercantile (dove
si compra, si vende e si corrompe), Kostanze e Belmonte sono in quello di
un’aristocrazia intellettuale (distante dal mercato e in cammino verso una
sfera di superiore saggezza individuale e di coppia), e Selim, la cui nobiltà
d’animo supera la grave offesa subita e assurge a elogio della tolleranza
(come Hans Sachs nel wagneriano Die Meistersinger von Nürnberg). La
tolleranza diventa il mastice coesivo del mondo di gerarchie e mercati già
visto in Idomeneo con una differenza marcata: Osmin (uno dei due «buffi»
ma anche il personaggio negativo per eccellenza) ha la pelle nera (forse
uno schiavo africano), mentre Selim sembra essere un berbero, un sultano
della costa nordafricana o anche del Corno d’Africa. In Die Entführung c’è
accanto al nazionalismo – la ricerca del cammino di quell’opera nazionale
tedesca che sarebbe esplosa qualche decennio più tardi con Weber, Marschner,
Schumann, Lortzing, fino a Wagner – quel razzismo che sarà ancora
più esplicito in Die Zauberflöte e che rispecchia le tematiche della
massoneria cattolica del mondo tedesco meridionale. Anche il razzismo
(contro gli africani) è parte del percorso che porta alla assolutista, pur se
benevola, «clemenza» intrisa di socialismo paradisiaco bavarese, in cui il
mercato è assoggettato al principe equanime che sa distribuirne i benefici
tra i suoi sudditi.
Dall’epistolario, si vede come Mozart fosse così impegnato nella preparazione
ed anche allestimento di Die Entführung, molto attento ai costi
(ed alle bizzarrie dei cantanti) ed ai prospettati ricavi, quasi da non sfiorare
le trasformazioni economiche del mondo a lui intorno. Non così il
padre, ormai nonno-babysitter. La lettera alla figlia del novembre 1784
(manca la data) contiene una breve lezione sulla differenza (in tempi turbolenti
come quelli) tra beni «materiali» e «immateriali»: «I primi restano
e nessuno ve li può prendere; i secondi uno li può spendere, perdere, esserne
derubato, ecc.».
In questo clima, arriva la proposta di Haydn: il successo di «Die Zauberflöte
» inebria Wolfgang (nel 1785 – ci informa una lettera del padre – il
compositore è in grado di saldare i propri debitori), le prospettive di aprire
la strada all’opera nazionale tedesca lo entusiasma ancora di più (a Londra,
si voleva opera all’italiana ed in italiano), da Salisburgo giungono segnali
di rappacificamento (ma il compositore scrive al padre che i calci di Arco
gli fanno ancora «bruciare il ‘culo’»). Quindi, il diniego.
L’economia politica di Wolfgang Amadeus Mozart 157
Più intrigante di Die Entführung, ma per certi aspetti più lineare, Die
Zauberflöte, ultima opera di Mozart rappresentata, ma penultima composta.
Al pari di Die Entführung è un Singspiel che, nel mondo di cultura tedesca,
ha continuato ad essere rappresentata nell’Ottocento e nella prima metà del
Novecento, nonostante fosse anni luce distante dal melodramma romantico,
dal verismo, dal «gran opéra», dalla «literaturoper» e da tutte le forme e
convenzioni che si affermavano. In Italia arrivò solamente negli anni Trenta
(anche a ragione delle «opere fantastiche» – si pensi a Casella, a Malipiero
ed a Mascagni che avevano un certo successo in quel periodo). Al teatro
dell’Opera di Roma – che allora non era secondo alla Scala in termini di
titoli rappresentati ogni stagione e di carica di innovazione, non arrivò che
nel 1937 (per sole tre rappresentazioni dirette da Vittorio Gui).
Su Die Zauberflöte grava l’onere di essere considerata il «testamento
massone» di Mozart. Nasce, indubbiamente, nel clima della loggia massonica
a cui appartenevano sia Wolfgang sia il librettista Emanuel Schikaneder
sia molti cantanti. Tuttavia, era destinata ad un teatro popolare (il Theater
auf der Wieden), di piccole dimensioni e con l’obiettivo di «fare cassetta»
– rivolta, quindi, ad un pubblico non necessariamente massone (poiché la
massoneria era privilegio dell’aristocrazia e della nascente borghesia. Nel
lavoro non manca la simbologia massonica: il numero tre (i protagonisti
sono tre coppie, aiutati da tre dame e da tre fanciulli), il mappamondo, il
serpente, la lotta tra luce e tenebre e richiami nelle parti corali alle convenzioni
dei riti di alcune logge, il percorso di iniziazione alla base del lavoro.
In effetti, la prima volta che la ascoltai dal vivo nel 1956 (a 14 anni), l’allestimento
(in tedesco e senza sovratitoli ma con le parti parlate in – pessimo
italiano) mi annoiò mortalmente, nonostante Vittorio Gui concertasse
ed il cast fosse di livello (Frick, Wunderlick, Stich, Hallin): il Singspiel si
svolgeva in un cupo Egitto massone dove tre piramidi dominavano la scena
e per tre ore si era immersi in una simbologia ossessiva.
Die Zauberflöte è stato recuperato al suo proprio significato di favola
e di allegoria (dai molteplici significati) negli anni Settanta. Ed in terre
lontane dal mondo tedesco. Da citare, l’allestimento di Ingmar Bergman
per il piccolo teatro barocco nel palazzo di Drottingholm per la televisione
svedese e successivamente distribuito nel 1975 come film di grande successo,
e la magnifica edizione curata da Maurice Sendak, scrittore ed illustratore
di libri per bambini, per la Houston Gran Opera nel 1980. Mentre
Bergman (la cui produzione è in svedese e lascia piuttosto a desiderare per
la parte musicale) modifica leggermente il libretto al fine di rendere più
credibile la vicenda, Sendak non cambia un verso ed una nota ma trasforma
Die Zauberflöte in una fantasmagorica favola per bambini. In ambedue,
158 Giuseppe Pennisi
l’apologo riguarda la crescita – dall’infanzia all’età adulta. Altro allestimento
memorabile, quello di Stéphane Braunschweig che nel 1999 dai festival
di Aix-en-Provence ed Edimburgo ha girato in tutto il mondo, anche grazie
ad un’estrema economia di mezzi scenici (una serie di monitor televisivi,
un grande letto): l’apologo è l’iniziazione all’eros per le due coppie giovani
e la stanchezza dell’eros (e dei rapporti in generale) per quella anziana (in
cui i due partner sono ormai giunti ai ferri corti). Di grande rilievo, l’allestimento
curato dal regista scozzese David McVicar per la Royal Opera
House (ROH) di Londra nel 2003, già ripreso tre volte in Gran Bretagna e
portato per la prima volta oltre Manica a Roma nel marzo 2012 (nonché
oggetto di un Dvd di successo): in un’elegante fantasia di luci e di colori,
la simbologia massonica c’è ma è de-enfatizzata. Il tema centrale diventa il
confronto ed il passaggio generazionale con la mantella e lo scettro del
potere che vanno da Sarastro (truccato e vestito come Giuseppe II) al giovane
Tamino; non solo la principessa Pamina viene ammessa, con pari
rango, in un mondo precedentemente solo di uomini (il «femminismo mozartiano
» già esploso ne Le nozze di Figaro, come vedremo nel prossimo
paragrafo) ma (aspetto discutibile) al fine di essere politically correct, Monastatos
è un bianco (e le battute contro i «neri» vengono eliminate).
Ci sono elementi di economia politica in Die Zauberflöte? L’epistolario
aiuta poco: mostra un Wolfgang assillato da problemi di sopravvivenza economica
e preoccupato per la moglie, a Baden per cure termali. Meno esplicitamente
di quanto non avvenga nel Don Giovanni (di circa cinque anni
prima) sono a confronto vari «mondi economici». Quello di Papageno dove
impera il mercato, si tenta qualche imbroglietto ma si è in una piazza plurale:
specialmente nella prima scena del primo atto, nella sua canzone strofica
ascendente d’introduzione, nella scena con le tre dame e nell’ammissione
(contrita) di avere goffamente tentato di barare, e nelle parti del secondo
atto in cui fa il furbetto di fronte alle prove sino al raggiungimento dell’agognato
obiettivo (trovare una Papagena da portare sotto le lenzuola). C’è
quello di Tamino e Pamina dove il mercato è leale e premia chi segue le sue
regole (quali definite dalla collettività a cui si appartiene). Ad esso si giustappone
quello della Regina della Notte, delle tre Dame e di Monastatos,
una piazza dove domina l’intrigo e che, per questo, è destinata ad essere
sconfitta. C’è, infine, quello di Sarastro, il «socialismo paradisiaco» dell’Illuminismo
della Baviera, ormai quasi più radicato, in Wolfgang Amadeus,
di quello dell’Italia settentrionale che lo aveva plasmato nella sua adolescenza
e da cui aveva cominciato a distaccarsi con Idomeneo. Forse era diventato
per Wolfgang importante: in quanto indigente e malato voleva aspirare,
per mutuare un celebre duetto verdiano, «ad un mondo migliore».
L’economia politica di Wolfgang Amadeus Mozart 159
La trilogia con Da Ponte – La teoria dei giochi secondo Wolfgang
Il testo fondante della teoria dei giochi – Theory of Games and Economic
Behavior» di John von Neumann e Oscar Morgestern – è del 1944
(anche se altri autori, quali Ernst Zermelo e Arman Bore, avevano scritto,
ante litteram, di teoria dei giochi). Può sembrare ardito interpretare le trilogia
messa in musica su libretti di Lorenzo Da Ponte con la cassetta degli
attrezzi di stilemi economici di detta teoria. Lo è meno fuori dell’ordinario
dell’interpretarle alla luce di un percorso iniziatico nella massoneria cattolica
bavarese, ormai estesa sino a Vienna ed altrove nell’Impero.
In primo luogo, il padre di Da Ponte era un ebreo mercante di pelli
nell’attuale Vittorio Veneto. Era diventato «cattolico» non perché nella
Repubblica Veneta del Settecento ci fosse ancora l’antisemitismo del
Cinquecento o del Seicento (quello per intenderci dipinto da Shakespeare
in Il mercante di Venezia) ma, vedovo quarantenne, per sposare una
ragazza cristiana di 16 anni di cui si era innamorato; secondo l’usanza
tanto il marito quanto i tre figli di primo letto presero il cognome del
vescovo che li aveva battezzati ed aveva officiato le nozze. Così Emanuele
Conegliano diventò Lorenzo Da Ponte, un quattordicenne avido
di donne e di denari, grande amico di Casanova. Le vesti dell’abate gli
servivano come comoda copertura per finire a letto anche con donne
sposate. Travolto dagli scandali, traversò il confine e dopo lunghi soggiorni
a Gorizia ed a Dresda arrivò a Vienna. Portava con sé la conoscenza
di giochi commerciali (tipici nel mercato delle pelli), di giochi
erotici e di giochi per sfuggire ai creditori, alle forze dell’ordine e ai
mariti traditi. Tutti giochi in asimmetria di informazione e di posizione
come quelli di John von Neumann e Oscar Morgestern, ed anche, come
accenneremo, i giochi ad equilibrio dinamico come quelli di John Nash
e della sua beautiful mind.
Veniamo alla loro prima collaborazione, Le nozze di Figaro. Nonostante
Da Ponte lavorò di maestria nel ridurre il testo della commedia di Beaumarchais
(il padre del compositore scriveva alla figlia, l’11 novembre 1785,
di dubitare che sarebbe stato in grado di farlo), e nel togliergli la carica
politica, il lavoro rimase sufficientemente lungo da rendere impossibile
seguire lo schema tradizionale di una opera buffa, cioè due atti. È in quattro
atti anche se, sotto il profilo musicale, ha unicamente due «finali» (il
concertato era di rigore) al termine del secondo e del quarto atto. Nel contempo,
Wolfgang – lo apprendiamo dal carteggio in famiglia – ha scialacquato
i proventi di Die Entführung ed ha urgente bisogno che il nuovo lavoro
sia un successo commerciale.
160 Giuseppe Pennisi
La vicenda è notissima e può essere anche letta, dal punta di vista economico,
con le lenti di Adam Smith. Figaro e Susanna vogliono sposarsi. Ma il
conte d’Almaviva mira ad andare a letto con Susanna, prima di Figaro. L’anziana
Marzellin vuole che Figaro ci vada con lei. Il paggio di casa, Cherubino,
mira a tutte le donne del palazzo – Barbarina, Susanna, la Contessa. Quest’ultima
è l’astuta Rosina de «Il Barbiere di Siviglia» e vuole tornare ad essere lei
l’unica nel letto del Conte. Al termine di una «folle giornata» (il sottotitolo del
lavoro), la «mano invisibile» fa sì che ciascuno finisca nel letto giusto.
Al centro di Le Nozze di Beaumarchais, c’è la rivoluzione di Figaro
contro il Conte. Al centro della versione Mozart-Da Ponte c’è un’asimmetria
informativa che innesca una rivoluzione più profonda: a differenza di Figaro
e degli altri, la Contessa e Susanna sanno cosa il Conte ha in mente e
quale è il suo gioco per centrarlo; hanno accesso a informazioni privilegiate.
Si innesca, grazie a questa asimmetria, un gioco femminista che, in teatro,
precede di cento anni Casa di bambola di Henrik Ibsen e di centocinquanta
Candida di George Bernard Shaw. Una fanciulla-cameriera, Susanna,
ordisce, in combutta con la Contessa di cui è al servizio, una rete di
giochi multipli in modo che, al termine, della «folle giornata», ciascuno finisca
sotto le lenzuola appropriate. All’inizio dell’opera, la mattina di una
giornata qualsiasi, tutti i protagonisti, tranne i due promessi sposi (Figaro
e Susanna), progettano di passare la notte con un partner differente da
quello loro preposto dalle regole e dalle convenzioni. Nel corso del giorno
e nella serata, tra inganni di ogni genere, due donne – la Contessa e per
l’appunto Susanna – riescono a far sì che ciascuno sia all’alba con la persona
giusta. Ponendo al centro della vicenda le due donne la rivoluzione diventa
da politico-sociale nazionale (come intendeva Beaumarchais) a universale.
In aggiunta, Mozart rivoluziona la musica del Settecento: abolisce
«cavatine» (così care a Rossini, a Donizetti ed anche a Verdi) ed altre convenzioni
settecentesche. Scrive una partitura dal ritmo incalzante in cui
quattordici arie si incastrano in ben quattordici pezzi d’insieme in oltre tre
ore di musica. Tra cui vere e proprie gemme come il sestetto andante in fa
maggiore del terzo atto «Riconosci in quest’amplesso» che secondo Michael
Kelly era il numero preferito da Mozart in tutta l’opera.
Strehler – il cui allestimento dell’inizio degli anni Settanta si è rivisto
di recente alla Scala – lesse l’opera in chiave socialista inframmezzata da
forti accenti erotici; Visconti – la cui messa in scena (anch’essa degli anni
Settanta) è tornata una ventina di anni fa al teatro dell’Opera di Roma – la
interpretò come un apologo della decadenza borghese; Chundela come
un’amara black comedy, Bieito (nella versione alla Komische Oper di Berlino)
la vede addirittura come un pretesto per mettere in scena un po’ di
L’economia politica di Wolfgang Amadeus Mozart 161
pornografia non tanto soft. Soprattutto in Italia, solo di recente, (ad esempio,
nell’edizione curata da Gigi Proietti, Quirino Conti e Gianluigi Gelmetti)
nel 2005 al teatro dell’Opera di Roma ed in quella allestita nel 2003 da
Gabriele Dolcini per il Lirico Sperimentale di Spoleto), le letture sceniche
de Le nozze sono state scevre e di chiavi ideologiche e di un numero eccessivo
di gag, lazzi e frizzi. E, quindi, in grado di mostrare la complessità dei
giochi sul palcoscenico ed in buca (sin dal «presto» in la maggiore gaiamente
movimentato dell’ouverture). Sin dal suo primo spettacolo nel 1976 (Faust
o la Quadratura del Cerchio) il regista Mario Martone mostra dimestichezza
con la matematica. Nell’allestimento predisposto nel 2006 per le celebrazioni
mozartiane (ma visto anche a Verona, Modena e Reggio Emilia)
non cede alla sin troppo facile tentazione (da lui lo si sarebbe aspettato) di
dare a Mozart toni rivoluzionari ma offre un’interpretazione acuta in cui
pone al centro de «la folle giornata», l’arguzia di Susanna ed il tentativo,
coronato da successo, della Contessa di riconquistare il Conte (con il marchingegno
che si è riassunto). Il Conte, poi, non è la consueta caricatura del
tombeur de femmes di provincia, ma una complessa personalità, scavata in
profondità, di uomo di potere e di cure gestionali (il quale nel fare la corte
a tutte le fanciulle del castello cerca uno sfogo di relax). Il complicato intreccio
(in cui non solo il Conte e la Contessa ma tutti i personaggi hanno
una forte carica di umanità) è immerso in un Settecento melanconico e
crepuscolare, dove dominano tutte le sfumature del grigio e del beige (facendo
risaltare ancora di più, quindi, l’abito rosso del Conte e quello blu
chiaro della Contessa). Essenziale la scena: una doppia scalinata ed un
grande tavolo, nonché una pedana che circonda l’orchestra e con pochi
gradini porta i cantanti tra le poltrone della platea, coinvolgendo ancora di
più il pubblico. In breve, circa quattro ore (intervallo compreso) di grande
emozione. Naturalmente il risultato complessivo non sarebbe tale senza una
parte musicale di grande livello grazie a Jeffrey Tate.
Veniamo adesso al Don Giovanni, opera che nelle classifiche redatte
periodicamente dal «Metropolitan Opera News» (il periodico del tempio
della lirica di New York) ha superato Carmen come la più rappresentata al
mondo. La political economy ci aiuta a comprendere le ragioni di tale successo,
se la si coniuga con un pizzico di cultura musicale. Don Giovanni di
Da Ponte-Mozart rispecchia la tensione tra «zeloti» (ancorati al passato ed
alle sue regole sia scritte sia implicite) ed «erodiani» (rivolti, invece, verso
la modernizzazione) – tensione specialmente forte in un’epoca a cavallo tra
due secoli, come la fine del Settecento (e questo inizio di XXI Secolo). Circa
tre lustri fa, ad un convegno di economisti una relazione, rimasta inedita,
di Antonio Cognata (Università di Palermo e da sette anni sovrintendente
162 Giuseppe Pennisi
del teatro Massimo di Palermo) e di Pasquale Lucio Scandizzo (Università
di Roma, Tor Vergata) proponeva una lettura di Don Giovanni e del Commendatore
in termini di teoria dei giochi in un contesto di informazioni
fortemente imperfette (il «dilemma del prigioniero») e suddivideva i personaggi
dell’opera in due categorie, i «falchi» e le «colombe». I primi (il Don
ed il Commendatore) pronti, in una fase di transizione (quasi da Verwandlung
della tradizione tedesca), alle estreme conseguenze (ossia a farsi uccidere)
per facilitare l’affermarsi delle nuove regole. Le seconde (tutti gli altri) caratterizzate
da gradualismo di fronte al cambiamento. Tuttavia, mentre i
«falchi» e le «colombe» differiscono in materia di tempi e modi per affrontare
il cambiamento, nell’ipotesi suggerita in questo articolo gli «zeloti» il
cambiamento non lo vogliono affatto, mentre gli «erodiani» sono pronti
all’estremo per recepire habits and rules altrui (ad esempio quelle del liberismo
anglosassone) pur di favorire il cambiamento.
La distinzione tra «zeloti» ed «erodiani» viene dai Vangeli; è stata
utilizzata da Luciano Pellicani in analisi sociologiche stimolanti. Non rileva
per tutte le interpretazioni del mito di Don Giovanni. Non per quelle
di Tirso da Molina o di José Zorilla – due «moralisti» bigotti, ai quali
interessava mettere a nudo «la malvagità punita» del «burlador». Non per
quella di Molière, «immoralista» di finezza e di rango, con una punta di
ammirazione per il Don. Neppure per quella di Da Ponte (se non ci fosse
la musica di Mozart). Nella vita privata era un abate «immoralista ben
temperato» sempre in bolletta che versificò, per fini solo mercenari, una
contaminatio delle più note versioni precedenti con intenzioni vagamente
didascaliche. Vecchio e malato ma tornato a Santa Romana Chiesa,
scelse il Don Giovanni (e non il suo vero capolavoro scenico – l’«immoralissimo
» Così Fan Tutte) come prima opera da rappresentare a New York
(dove era, ormai anziano, approdato e dove si poteva organizzarne una
produzione quasi casalinga nelle condizioni della Manhattan dell’epoca).
Lo schema esplicativo degli «zeloti» e degli «erodiani» è anche appropriato
per alcune interpretazioni più recenti del mito del Don, da quella di
Kierkegaard a quelle elaborate nel periodo tra le due guerre mondiali –
all’insegna della Verwandlung per eccellenza.
Dato a Da Ponte quel che è di Da Ponte, cerchiamo di vedere come gli
aspetti più strettamente mozartiani possano essere esaminati con la «cassetta
degli attrezzi» dell’analisi economica. L’opera ha specificità musicali che
la rendono molto più pregnante del libretto (cosa mai ne avrebbero fatto un
Piccini, un Paisiello o un Salieri?). In primo luogo, sin dalla ouverture avvertiamo
che siamo di fronte a qualcosa che non è né una «opera buffa» né un
«dramma giocoso»: dalle prime battute si avverte il fuoco dell’inferno in fa
L’economia politica di Wolfgang Amadeus Mozart 163
(che, tre ore più tardi, concluderà il lavoro). In secondo luogo, il trattamento
musicale del protagonista non è né una caricatura del libertino quale
tracciata da Tirso de Molina e José Zorrilla né un protoilluminista come
scolpito da Molière. Le note di Mozart, avvolgono Don Giovanni in un clima
luciferino; lo ritroveremo, ad esempio, pochi lustri più tardi nell’«opera nazionale
» tedesca per sottolineare il carattere demoniaco di Kaspar in Der
Freischütz (un punto afferrato nella recente regia di Claus Guth a Salisburgo)
oppure, un secolo più tardi, della Nutrice di Die Frau ohne Schatten di Richard
Strauss. È luciferino lo stesso brindisi alla libertà del «finale primo»,
giustapposto, simmetricamente, alla scena, pure essa luciferina, con il Commendatore
nel «finale secondo». Luciferianamente, né il Don né il Commendatore
hanno una «cavatina» (aria di ingresso nelle convenzioni operistiche
dell’epoca) o «cabalette» oppure «legati».
Proprio questo aspetto luciferino fa sì che l’interazione «economica» tra
il Don ed il Commendatore non è assimilabile a quella di due giocatori di
pari livello ma a quella del primo rispetto al secondo giocatore in un «gioco
ad ultimatum»; viene, perciò, caratterizzata da dissonanze e da anticipazioni
cromatiche. Don Giovanni vuole tornare a quell’inferno da dove è venuto
– come dettoci sin dall’ouverture. Il Commendatore è uno strumento per
compiere questa marcia all’indietro, più efficace dei tentativi di seduzione
(tutti «in bianco», come esplicitato dai «diminuendi» che li chiudono). Pure
il Commendatore appartiene, come il Don, al mondo musicale della futura
opera nazionale tedesca (si pensi a Der Vampyr di Marschner) con ottave
quasi mai sperimentate prima di allora. Anch’egli è segnato dal destino sin
dal «do» con cui appare in scena ed è costretto al «gioco ad ultimatum» fin
dall’inizio dell’opera. Inoltre, il «gioco ad ultimatum» viene ripetuto – con
inversione dei ruoli (il Commendatore in quello del primo giocatore ed il
Don quello del secondo) – nella sequenza finale dell’opera. Sotto il profilo
musicale, il Don ed il Commendatore sono ambedue protesi, da «erodiani»,
verso quella che sarebbe diventata l’opera tedesca del XIX e del XX secolo.
Sulla scena soccombono proprio per eccesso di modernizzazione.
Gli altri personaggi vivono, invece, nel mondo musicale dell’opera
settecentesca «all’italiana» fatto di cavatine, arie, cabalette, duetti, terzetti,
concertati e di tutte le altre convenzioni di un’epoca che volgeva al tramonto
(anche se non se ne accorgevano). Regole ben definite che assicurano,
agli «zeloti», certezze – informazioni simmetriche e costi di transazione
contenuti. In questo mondo, il pay-off, pur se limitato, conviene a tutti, da
«utilitarismo delle regole» pacioccone. Si guardi, in particolare, a Don Ottavio,
un baritenorino, caricatura dei tenori (Mozart, come più tardi Richard
Strauss, non li ha mai amati) di Idomeneo, di Così e di Die Entführung.
164 Giuseppe Pennisi
Musicalmente, i due mondi, i due set di habits and rules, restano distinti e
distanti: si incontrano nel lungo finale primo. Con grande raffinatezza, sono
due mondi in «re»: re minore quello luciferino, ma modernizzatore (quindi
«erodiano»), del Don e del Commendatore; re maggiore quello perbenista
(e «zelota») di Don Ottavio e del resto della brigata (Leporello, Donna
Anna, Donna Elvira, Masetto, Zerlina e compagnia cantante).
Mozart non avverte laVerwandlung socio-politica (quindi, economica)
in atto negli anni in cui componeva Don Giovanni; gli è stata offerta l’occasione
almeno in due libretti potenzialmente rivoluzionari – Le nozze di
Figaro e La clemenza di Tito – ma si rifiuta di coglierlo; fa diventare il primo
una grande commedia umana ed il secondo un inno alla quality of
mercy. Sente forse inconsapevolmente, la Verwandlung nel teatro in musica:
la rappresenta in pieno nel Don Giovanni, tenendo separati il mondo
«vecchio» degli «zeloti» dal mondo «nuovo» degli «erodiani». C’è un’analogia
con il capolavoro estremo di Richard Wagner, Parsifal: il mondo
diatonico del Graal contrapposto a quello cromatico del castello di Klingsor
con Kundry in funzione di cerniera tra i due. È anche esso un lavoro teso
verso l’innovazione, verso la stessa dodecafonia, ma intriso dei ricordi pure
della polifonia di Palestrina. A differenza di Mozart, Wagner aveva piena
contezza della Verwandlung socio-politica (e forse pure di quella economica);
era un «super erodiano».
Dopo avere scavato tanto in Don Giovanni, cosa presentano Wolfgang
e Lorenzo nel loro ultimo lavoro concepito insieme, quel Così fan tutte
presentato al Burgtheater di Vienna il 26 gennaio 1790 (quando il compositore
era già molto malato), poco considerata dal librettista (che neanche
la menzionò nella propria autobiografia), detestata per tutto l’Ottocento in
quanto considerata, secondo Edward Dent, «di insopportabile stupidità»,
adattata a commedia spagnola (in tedesco) a Dresda all’inizio del Novecento
nel tentativo di riproporla e diventata, negli ultimi sessanta anni, uno dei
lavori di Mozart più rappresentati? Richiede solo sei cantanti, un piccolo
coro, un organico orchestrale modesto. È stata ambientata nei contesti più
diversi: da terme romane prima dell’eruzione del Vesuvio a Pompei (Roma,
teatro dell’Opera), a giardini cinesi e persiani (due differenti edizioni a Aixen-
Provence), dalla contemporaneità stile Armani (vari teatri); la Francia
prerivoluzionaria del Marchese de Sade (Bologna); graziosa oleografia partenopea,
come vista da turisti (Metropolitan); e via discorrendo. Funziona
quasi sempre anche se a mio avviso la produzione di Così fan tutte ovvero
La scuola degli amanti di Wolfang Amadeus Mozart più affascinante è
quella che nel 2005 ha segnato il ritorno alla regia lirica, dopo dieci anni,
di Patrice Chéreau, in compagnia di Richard Peduzzi (suo scenografo abi-
L’economia politica di Wolfgang Amadeus Mozart 165
tuale ed allora direttore dell’Istituto Francese di Cultura a villa Medici di
Roma), di Daniel Harding e di in un cast di giovani, in cui l’allora sessantaquattrenne
Ruggero Raimondi affrontava il ruolo di Don Alfonso da lui
raramente interpretato in oltre quarant’anni di carriera, l’altra «anziana»
Barbara Bonney interpretava quello della servetta quindicenne Despina. Lo
spettacolo ha debuttato a Aix-en-Provence nel 2005, nel 2006-2007 si è
visto a Parigi, Vienna, New York, Baden-Baden ed altre città.
L’intreccio è noto. Su invito del loro precettore, per l’appunto Don Alfonso,
due bei giovani napoletani fidanzati a due belle sorelle ferraresi, le
mettono alla prova travestendosi da ricchi albanesi e corteggiando l’uno la
ragazza dell’altro; hanno successo (tanto più che Despina invita le fanciulle
a «fare all’amore come assassine») sino ad un doppio matrimonio: ciascuno
con la fidanzata iniziale che ha tradito e di cui sa di essere stato tradito con
il suo migliore amico. La principale difficoltà di realizzazione (sia scenica
sia musicale) di Così consiste nel fatto che mentre la prima parte è brillante
ed ironica, la seconda è un’amara riflessione in cui ciascuno è, al tempo
stesso, infedele e geloso. L’idea di fondo di Chéreau è quella di porre l’accento
sul sottile ricamo di finzioni sin dalla prima battuta. L’intreccio si
svolge sul palcoscenico nudo di un teatro – è in effetti, quello del teatro
Valle a Roma – quasi a voler accennare al teatro-nel-teatro (finzione per
eccellenza), senza, però, svelarlo a pieno. Alla «scuola degli amanti» si apprende
che l’amore è libertà, ma che proprio in quanto libertà non può non
comportare dolore ed inganno. Chéreau ha chiesto, ed ottenuto, otto settimane
di prove (un record per l’opera lirica) prima del debutto e ha ritoccato
ancora lo spettacolo tra una replica e l’altra. Harding ha assecondato
questa chiave di lettura guidando la Mahler Chamber Orchestra in modo
che si vada con grande dolcezza (e senza quasi avvertirne il passaggio) dai
recitativi, alle arie, ai duetti, ai terzetti, ai quartetti ed ai concertati.
Ma andiamo alla «teoria dei giochi» quale emerge dal lavoro (e dall’appassionante
lettura di Chéreau-Harding). C’è, come in Le nozze di Figaro,
asimmetria: Don Alfonso e Despina «sanno» più delle due coppie e sono,
quindi, in grado di condurre il gioco. Il punto centrale, però, è che il «gioco»
di ciascun componente del quartetto delle due coppie è multiplo: su un
tavolo giocano la «reputazione» (di essere fedeli al fidanzato/a) su un altro
l’«abilità» (di sedurre/essere sedotti dal fidanzato/a del miglior amico/a).
L’esito: un equilibrio dinamico alla Nash, quindi sempre instabile. Come
quello del complesso finale – oltre venti minuti, articolati in varie sezioni
(un allegro assai di apertura, un vivace, un andante, un quartetto larghetto,
un nuovo allegro ed un vivace sestetto). L’epistolario ci dice poco sull’effettiva
comprensione da parte dei due autori di ciò che nascondesse il
166 Giuseppe Pennisi
«dramma giocoso», scritto e composto guardando al botteghino. Da Ponte
era molto attivo alla ricerca di donne, ai tavoli da gioco d’azzardo e a sfuggire
i creditori. Mozart era in bolletta, con una famiglia da mantenere, e già
sofferente.
Conclusione
Wolfgang Amadeus Mozart non era certo un economista e non ha lasciato
un manuale di economia politica. In questo articolo, mi sono proposto
di dimostrare come il vasto epistolario e le sue opere più rappresentative
per il teatro in musica, nonché alcune scelte di vita del tutto inconsuete
per chi in quell’epoca era un musicista, mostrano nella famiglia Mozart e
nel compositore una buona dimestichezza con concetti non banali di economia
politica: dalla formazione dei prezzi, all’inflazione, alla necessità di
regole perché il fragile strumento del mercato funzioni, fino alla teoria dei
«giochi ad ultimatum» ed a più livelli. Molto interessante in tutto l’epistolario
è l’enfasi sui beni immateriali e sul capitale umano – tema fondamentale
del pensiero economico degli ultimi settanta anni ma poco considerato
in Italia sino agli anni Sessanta del Novecento, quando «La Rivista di Politica
Economica» rispondeva con un declino alle proposte di saggi su questi
argomenti in quanto «troppo innovativi e non chiaramente economici».
Alla fine del Settecento a Vienna si cominciava ad annusare quel gran
rigoglio di pensiero, pure economico, che avrebbe caratterizzato la vita
intellettuale della città dei decenni successivi. E alcuni musicisti, Wolfgang
Amadeus Mozart ed i suoi corrispondenti epistolari, ne erano precursori.
Giuseppe Pennisi
L’attenta lettura dell’epistolario è stata fatta da mia moglie Patrice Poupon. Ho avuto utili commenti
dall’Ing. Franco Debenedetti. Errori ed omissioni sono mia sola responsabilità.
Nuova Antologia
Rivista di lettere, scienze ed arti
Serie trimestrale fondata da
Giovanni Spadolini
Aprile-Giugno 2012
Vol. 608° - Fasc. 2262
Le Monnier – Firenze
ESTRATTO: Giuseppe Pennisi, L’economia politica di Wolfgang Amadeus Mozart
Un insolito successo editoriale
Nessuno se lo aspettava. Meno di tutti l’editore: una piccola casa di
Varese specializzata in collane musicali (la Zecchini Editore) che pubblica
uno dei cinque periodici del settore (l’unico che non si vende con gadget
come dischi o Dvd). In anni in cui non c’è alcuna ricorrenza mozartiana e
tutti coloro che appartengono al mondo della musica sono intenti a predisporre
i 200 anni dalla nascita di Verdi e Wagner (ambedue cadono nel
2013), l’edizione italiana in tre volumi dell’epistolario integrale di Wolfgang
Amadeus Mozart e della sua famiglia è diventato uno dei successi editoriali
a cavallo tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012. Per i musicologi non è
una novità, in quanto giunge con cinquanta anni di ritardo dall’edizione
originale in tedesco pubblicata da Bärenrieter sotto gli auspici del Mozarteum
di Salisburgo. In breve, coloro del mestiere, che leggono il tedesco, da lustri
hanno gustato il carteggio (o se ne sono annoiati perché tratta poco di musica
ma molto di faccende personali). Ora è nelle mani di coloro che un
tempo venivano chiamati «persone colte». La prima tornata è sparita in
poche settimane e si è prodotta subito una ristampa giunta a metà gennaio
nelle librerie o che si può richiedere all’editore (info@zecchini.com).
Come spiegare il successo? Tanto più che poca pubblicità è stata fatta
e l’opera non costa poco: il prezzo di copertina è 89 euro. Il cofanetto è
elegante; i tre tomi (quasi duemila pagine) sono ben rilegati e stampati su
carta fine e con grafica preziosa. Possono sembrare un soprammobile in
un’abitazione di chi voglia essere considerato «intellettuale» oppure solamente
«una persona colta». Non mancano antologie dell’epistolario di
Mozart, in gran misura basate sull’opera dell’editore Bärenrieter del 1962.
L’ECONOMIA POLITICA
DI WOLFGANG AMADEUS mozart
L’economia politica di Wolfgang Amadeus Mozart 141
La più importante è un volume curato da Elisa Ranucci e pubblicato nel
1981 dalla casa editrice Guanda, ma è limitata e carente per quanto riguarda
le note. Gran parte delle lettere, poi, è di carattere familiare; la metà
circa tra Wolfgang Amadeus ed il padre Leopoldo, con cui il compositore
aveva un rapporto complicato. Utilizzando questa antologia e lettere tradotte
dal tedesco dal direttore d’orchestra Francesco La Vecchia, in ottobre
2011, l’Orchestra Sinfonica di Roma (con la partecipazione di Giorgio
Albertazzi) ha inaugurato la stagione 2011-2012 con un concerto di cui si
avrà presto un Dvd.
A differenza di quanto hanno scritto altri (ad esempio, Norbert Elias)
non credo che la «psicologia» o la «sociologia» di un genio interessino più
di tanto gli italiani di oggi. Ancor meno il suo lessico a volte sguaiato e
cosa gli piacesse fare sotto le lenzuola. Ciò che ha attratto un economista
melofilo alla lettura dei tre volumi – ovviamente una lettura da centellinare
– è la possibilità di utilizzare l’epistolario come chiave interpretativa di
una società in rapida trasformazione (le ultime decadi del Settecento) in
cui il riformismo dell’Illuminismo (delle varie sette massoni-cattoliche a
cui Mozart ed il suo mondo appartenevano) si scontrava con una reazione
oscurantistica. Sfogliando le lettere e soffermandosi su alcune di esse si
comprende meglio l’età di Mozart.
Alcuni anni fa, Mozart fu al centro di un altro insolito successo editoriale
Mozart massone e rivoluzionario di Lidia Bramani (Bruno Mondadori,
2005). Giunto tempestivamente in libreria in occasione dei 250 anni
dalla nascita del compositore – quell’anno al festival di Salisburgo vennero
messe in scena tutte le sue 22 opere per il teatro –, il saggio (500 pagine a
stampa fitta e frutto di anni di lavoro) sembrava interessare unicamente i
cultori della materia. Ci furono ben cinque ristampe.
La lettura delle lettere (certamente studiate da Livia Bramani nell’edizione
Bärenrieter) permette di fare alcune correzioni di tiro significative.
Questo Wolfgang Amadeus era «massone e rivoluzionario» o piuttosto «illuminista
e riformatore»? E consente, almeno in parte, di spiegare perché il
giovane compositore, che, dopo la definitiva rottura con il principe-arcivescovo
di Salisburgo Hyeronymus von Colleredo, aveva spesso difficoltà a
mettere insieme il pranzo con la cena, rifiutò due ingaggi a lungo termine
ben remunerati da parte rispettivamente di Haydn per conto di un impresario
londinese (alla ricerca di un nuovo Händel, dopo la morte di quest’ultimo)
e del re di Prussia (per l’incarico a cui sarebbe approdato Gaspare Spontini).
La «massoneria» a cui Mozart fu affiliato (ne era lo stesso Imperatore)
e di cui Lidia Bramani traccia un interessante quadro nel primo capitolo del
suo libro non era composta di sette segrete, atee e vagamente repubblicane.
142 Giuseppe Pennisi
In Baviera, Austria e Lombardo-Veneto (allora un unico mondo ed un’unica
cultura in cui il ceto istruito era bilingue oppure trilingue) era composta di
gruppi di cattolici imbevuti d’illuminismo. La Loggia in cui Mozart si iscrisse
come «apprendista» a Vienna il 14 dicembre 1784 si chiamava «La Beneficenza
» ed aveva chiare finalità solidaristiche. Il cattolicesimo di Mozart
esplode dalla lettera da Parigi al padre del 9 luglio 1778 in cui lo informa
della morte della madre, «così semplice e così bella» e della propria «completa
e fiduciosa rassegnazione alla volontà di Dio». Nella lettera, riflette
sulla sua stessa futura morte: «quando Dio lo vorrà, lo vorrò anche io». In
un’altra lettera da Vienna, il 13 giugno 1981, fornisce al padre i dettagli di
come segua i «precetti» come «il non mangiar carne in tutti i giorni di magro».
Quasi a corollario, nella lettera straziante dell’11 dicembre 1791 (a
pochi giorni dalla morte del compositore) in cui la moglie Constanze si rivolge
all’Imperatore per avere una pensione per la sussistenza sua e dei figli,
c’è un riferimento esplicito ai pochi anni sia di servizio presso la camera
musicale imperiale sia di partecipazione ad una società mutualistica per
potere fruire di un trattamento previdenziale – non aveva quindi ciò che
oggi in termine tecnico economico si chiama il vesting per avere titolo ad
una pensione, e tanto meno ad una pensione di reversibilità per i superstiti
(moglie e figli minorenni).
Le lettere mostrano, soprattutto, come Wolfgang Amadeus fosse a
lungo influenzato, più che dagli «Illuminati» della «cattolicissima Baviera»,
da quelli che vengono chiamati «Gli Illuministi Settentrionali» (presso le
librerie telematiche o dai rigattieri si può trovare ancora la bella antologia
curata da Sergio Romagnoli ed edita da Rizzoli nel 1962) come i fratelli
Verri, Cesare Beccaria, Gian Rinaldo Carli, Francesco Algarotti, Salerio
Bettinelli, Carlo Denina. Non dimentichiamo che gran parte del suo teatro
in musica è su testi in italiano, che si era immerso nella cultura italiana nei
tre viaggi effettuati negli anni formativi di passaggio dall’adolescenza alla
giovinezza. Aveva avuto certamente accesso a «Il Caffè» – punto di riferimento
dell’Illuminismo riformista italiano (anche in quanto alcuni articoli
erano dedicati esplicitamente alla «commedia» ed alla «musica»), conosceva
il saggio di Francesco Algarotti sull’opera lirica, e le «meditazioni» di
Pietro Verri sull’economia politica e sulla politica tout court.
Nella vastità della produzione di Mozart (l’edizione discografica pubblicata
per il duecentocinquantenario dalla nascita comprende 150 Cd), il
teatro musicale esprime un Mozart «rivoluzionario» unicamente ne Le
nozze di Figaro (dove contessa e cameriera cambiano abito per complottare
contro i rispettivi mariti); lo stesso «rivoluzionario» Don Giovanni viene
punito. Mostra invece un Mozart riformista, specialmente in Lucio Silla,
L’economia politica di Wolfgang Amadeus Mozart 143
Idomeneo, La clemenza di Tito favorevole ad un ordine costituito ma progressista,
alla maniera del circolo de «Il Caffè». O meglio che da «Il Caffè»
andava verso il «socialismi paradisiaco» dell’Illuminismo bavarese.
Dalle lettere traspare la sua scelta di abbracciare la libera professione
(decisione rarissima per un musicista dell’epoca) e di declinare gli inviti da
Londra e Berlino per un amore per l’economia di mercato e di competizione
(anch’essa singolare in un’economia dove si era o in mera sussistenza o
sotto il controllo dell’intervento della burocrazia del sovrano) – approccio
molto più vicino alle «meditazioni» economiche di Pietro Verri che agli
scritti degli «Illuminati» bavaresi, i quali si interessarono di medicina, psicologia,
diritto e filosofia. Gli unici che sfiorarono l’economia (Franz Heinrich
Ziegenhagen, Rudolf Blumauer) lo fecero con una visione di «socialismo
paradisiaco», presente unicamente negli ultimi due lavori per la scena di
Mozart, La clemenza di Tito e, soprattutto, Die Zauberflöte. Significativo,
a riguardo, l’intenso carteggio con il padre nella primavera del 1781, quando,
dopo i viaggi in Italia, dopo Parigi, Mannheim e Monaco in Baviera,
decide di passare il resto della propria vita a Vienna. Nelle lettere si respira
l’entusiasmo per la città e per il suo «sconfinato» potenziale – quasi che
Wolfgang Amadeus presagisse, cosa sarebbe diventata nell’Ottocento e
nella prima parte del Novecento quella che ai suoi tempi non era una delle
capitali europee né a più alto reddito né a maggiore sviluppo tecnologico o
artistico: da un lato, un laboratorio musicale (più per sinfonica e cameristica
che per teatro in musica), da un altro un laboratorio intellettuale (dalla
culla della psicoanalisi a quella «scuola austriaca» di pensiero economica
che aveva il proprio perno nell’«individualismo metodologico»).
In questo articolo non propongo un’esegesi dell’epistolario ma di accostare
le lettere ad alcuni gruppi di opere – le «opere serie», i maggiori Singspiel,
e la trilogia su libretti di Lorenzo Da Ponte. Anche all’interno dei tre gruppi
si devono fare scelte, dato che l’universo mozartiano è sterminato. Delle
«opere serie», ad esempio, ne tratto solamente quattro – Mitridate, re di
Ponto, Lucio Silla, Idomeneo, Re di Creta e La Clemenza di Tito – non solamente
perché sono le più significative ma perché ripercorrono l’esistenza
di Mozart dall’adolescenza alla morte. Dei Singspiel, i due più noti (specialmente
al pubblico italiano) Die Entfürung aus dem Serail e Die Zauberflöte.
Naturalmente, le tre opere della trilogia con Da Ponte vengono trattate nella
loro integrità concettuale e musicale.
Una premessa: dall’epistolario risulta che Mozart non si interessasse
quasi affatto di questioni di denaro (anche per questo aveva sempre le tasche
vuote), tranne che negli ultimi due anni, quando il compositore e la famiglia
sopravvivevano in miseria). Il compositore tratta relativamente poco di
144 Giuseppe Pennisi
economia in maniera diretta; invece, il mondo che lo circondava soprattutto
il padre Leopold era molto attento alle vicende economiche ed alla loro
interpretazione. Tale interpretazione veniva in parte riversata, più o meno
consapevolmente, nei lavori del figlio. Ne emerge un quadro interessante:
più o meno quando in Scozia dalla filosofia morale nasceva l’economia
politica, nella piccola Salisburgo e nella grande Vienna, musicisti, imbevuti
di «Illuminismo Settentrionale» milanese formulavano non certo teoremi
ma considerazioni analoghe. Mentre in Baviera l’Illuminismo prendeva la
corsia del «socialismo paradisiaco», una forma estrema di quello che Karl
Marx avrebbe etichettato «socialismo scientifico».
Le opere serie: il principe e la mano invisibile
Le principali «opere serie» di Mozart hanno un fil rouge che le lega
nonostante il passare degli anni ed il cambiamento delle stesse «convenzioni
» del teatro in musica: la prima è andata in scena a Milano il 26 dicembre
1770 (data importante perché in occasione di Santo Stefano iniziava «la
stagione» principale del teatro, stagione che si sarebbe protratta sino alla
fine del Carnevale) e l’ultima il 6 settembre 1791 a Praga, appena otto
settimane prima della morte del compositore. Il fil rouge è nei libretti ma
ancor più nella musica: il contrasto tra la supposta onnipotenza, ove non
onniscienza del principe (o del dittatore), e la «mano invisibile» che lo costringe
a mutare obiettivi e strategia, con veri e propri «colpi di scena».
Tale «mano invisibile» è rappresentata in certi casi dai «cittadini» o dal
«popolo»; in altri da una cerchia più ristretta di familiari, ove non dai propri
figli (i cui obiettivi sono «particolaristici», come quelli del droghiere di
Adam Smith, ma portano alla ricomposizione finale) – quell’«armonia sociale
» che è connaturata nel «lieto fine» di rigore nell’«opera seria» del
Settecento e dei primi decenni dell’Ottocento (prima che venisse travolta
in Italia dal melodramma donizettiano e verdiano, in Francia dalla «tragédie
lyrique» e in Germania dall’«opera romantica tedesca»).
Mitridate, re di Ponto è un remake per Milano di un’opera dallo stesso
titolo e, in linea di massima, con lo stesso libretto (di Vittorio Maria Cigna-
Scotti) andata in scena a Torino nel 1767 per la musica dell’ormai dimenticato
Quirino Gasparini. Ambedue hanno origine nella tragedia di Racine
Mythridate tradotta in italiano da quel Giuseppe Parini, elegante poeta ed
ironista – per decenni nei licei italiani si è studiato il suo capolavoro
Il Giorno – imbevuto più di molti altri dell’«Illuminismo Settentrionale».
Nelle tragedie di Racine, il lato più importante è l’eleganza del verso; lo
L’economia politica di Wolfgang Amadeus Mozart 145
sviluppo psicologico dei personaggi è invece modesto e la stessa drammaturgia
elementare. Parini, pur raffinatissimo, mise, nel tradurre, un po’
della sua ironia; Cigna-Scotti era un librettista da dozzina. Dall’epistolario
risulta come per l’adolescente Wolfgang Amadeus la preparazione di quello
che sarebbe dovuto essere il debutto più importante, fu una vera sofferenza:
il libretto venne consegnato tardi, i cantanti, scelti dall’impresario,
facevano le bizze, Wolfgang Amadeus a 14 anni li giudicava da fine critico
musicale e si dava poco conto degli aspetti amministrativi (e compone serenate
per le belle fanciulle che incontra, musica per la madre lontana e via
discorrendo). Da una lettera di Leopold alla moglie del 24 marzo 1770
apprendiamo che la «scrittura» (ossia il contratto d’ingaggio) è finalmente
fatta, anche se a prezzi di saldo rispetto a quanto ottenevano musicisti allora
famosi ma già obliati pochi anni più tardi. La «scrittura» è una benedizione
perché i Mozart sono, per così dire, in «aspettativa senza assegni»
dal servizio presso l’Arcivescovado di Salisburgo e nel viaggio in Italia
cercano di risparmiare facendosi ospitare da amici e conoscenti, anche in
quanto le locande sono ricettacoli di borseggiatori e ladroni.
Mentre l’opera viene composta, Leopold documenta nella lettera del
21 agosto 1770 da Bologna quanto gli economisti tedeschi (anche quelli
della Baviera) negavano nel loro approccio «storicistico» alla «triste scienza»:
l’economia ha le sue proprie leggi. Un terremoto nella lontana Santo Domingo
fa sì che «i signori commercianti coglieranno l’occasione per aumentare
il prezzo dello zucchero dato che laggiù le piantagioni di canna da
zucchero sono andate distrutte». Ma grazie al suolo della Pianura padana,
mangiano, «con moderazione», «fichi, meloni e altri frutti». Al giovane
Wolfgang non manca il fruttosio, pur se prima di concentrarsi su Mitridate
compone a destra ed a manca tante altre cose (spesso per il corteggiamento
di fanciulle – è un quattordicenne precoce).
Veniamo all’opera: l’anziano Re di Ponto si è fidanzato con la bella e
giovanissima Aspasia, desiderata però dai due suoi figli, e pretendenti al
trono, Sifare e Farnace. Quest’ultimo è desiderato anche da Ismene, figlia
del re dei Parti, ma pur di avere Aspasia, tradisce i suoi e trama con i romani.
Battaglia finale: Mitridate ferito a morte da il trono e la mano di
Aspasia a Sifare e perdona il traditore Farnace che sposa Ismene (e presumibilmente
lascia con lei il Ponto per insediarsi nel Regno dei Parti). L’opera
viene raramente rappresentata in Italia; ne ricordo una bella esecuzione
al teatro Olimpico di Vicenza negli anni Ottanta con la regia di Jean-Pierre
Ponnelle e la direzione musicale di Nikolaus Harnoncourt. Ne è stato tratto
un interessante Dvd. Ne ascoltai una versione integrale quando ero liceale,
grazie all’AGIMUS, nell’auditorium della Rai a Roma curata dai Vir-
146 Giuseppe Pennisi
tuosi di Roma diretti da Renato Fasano. Un’esecuzione sfiora, con due intervalli,
le cinque ore. Nella recente produzione a Monaco (un successo
tale che verrà ripresa al festival nel luglio 2012) dura tre ore e mezzo ed è
attualizzata a vicenda di amore ed eros tra ragazzi dei giorni nostri. Il quattordicenne
Mozart sapeva di dovere dare maggiore attenzione ai cantanti (i
veri «divi» dell’«opera seria») che alla vicenda di passioni e tradimenti sulle
sponde del Mar Nero (di cui non si avverte l’onda neanche in un unico
accordo). Invece, si sente subito una forte carica di innovazione: una rapida
sinfonia in tre tempi (allegro-andante-presto), recitativi secchi vivaci
corrispondenti alle esigenze del testo (non semplici interludi tra arie), nelle
arie più importanti («Nel sen mi palpita il dolente cor» di Aspasia) una
linea vocale drammatica senza cedimenti alla fin troppo facile tentazione
della coloratura, e nel finale momenti che, correttamente, secondo il musicologo
inglese Charles Osborne, anticipano il durchkomponiert wagneriano.
È in questo finale, così insolito per il 1770, che si avverte come l’opera (che
ebbe un travolgente successo, di cui Leopold è accurato cronista nella sue
lettere) non è saggio scolastico di un adolescente ma un piccolo gioiello; la
«mano invisibile» sconvolge sia i piani di Farnace (che si ravvede) sia la
scrittura vocale ed orchestrale: alla consueta composizione di archi, due
oboi e due corni, Wolfgang aggiunge le trombe.
Lucio Silla viene commissionata dal teatro Ducale di Milano sulla scia
dell’esito trionfale di Mitridate. È un’altra «opera seria», di successo nell’ultimo
scorcio del Settecento ma poco apprezzata sino a tempi recenti quando
nel 1983, in un allestimento scaligero Patrice Chéreau mostrò come le
pulsioni del quattordicenne autore di Mitridate erano diventate, due anni
dopo, una vera e propria esplosione ormonale. Nel 2006 in una coproduzione
con il festival di Salisburgo, Jürgen Flimm (uno dei più noti registi
tedeschi; anzi il metteur en scène preferito dal compianto Giuseppe Sinopoli)
ne mostrò la valenza politica. Il librettista, Giovanni da Gamerra, era
un poetucolo che valeva poco e nulla. Silla non è il sadico e crudele dittatore
delle Vite parallele di Plutarco o il simbolo stesso del potere assoluto
del De tirannide di Seneca. Poco o niente ha a che fare il libretto di da
Gamerra con la storia romana e con lo stesso inspiegabile ritiro del tiranno
a vita rurale. Nell’opera di Mozart, Silla è un ragazzone cresciuto male ed
educato peggio; per lui il potere politico è soltanto uno strumento per portarsi
a letto le donne che sul momento desidera: si è invaghito della casta
Giunia, sposa di Cecilio (spedito al confino). D’intesa con Cinna e Clelia,
però, Giunia (tutta d’un pezzo come la Leonore del Fidelio di Beethoven)
decide di pugnalare il tirannico giovanotto non appena sono sotto le lenzuola
(e Silla non ha né mutande né tanto meno spada). L’improvviso arri-
L’economia politica di Wolfgang Amadeus Mozart 147
vo di Cecilio a tutela della moglie fa saltare tutto. Ma, dopo avere fatto
loro passare una notte in galera, Silla perdona i congiurati poiché in effetti
è logoro del troppo potere e delle troppe donne. Attenzione, nella drammaturgia
di Flimm (che si può gustare in un ottimo Dvd), dopo avere perdonato
tutti e messosi quasi in pensione, il tiranno Silla viene ucciso da uno
dei popolani che hanno sofferto sotto la sua tirannide. Ciò coglie bene lo
spirito di una partitura in cui il sedicenne Mozart rispetta tutte le convenzioni
dell’«opera seria» settecentesca (sinfonia tripartita, diciotto arie, un
duetto, un terzetto ed un concertato, lieto fine) ma utilizza in modo mirabile
gli strumenti a fiato e le percussioni, infonde una straordinaria dose di
sensualità nella scrittura orchestrale e vocale e rende Giunia un personaggio
di grande complessità psicologica e musicale (quasi un anticipo della
«tragédie lyrique» francese preromantica).
Non solo, la passione è anche politica; a Milano, dove si respira «Illuminismo
Settentrionale» si può trattare un tema – il tirannicidio – centrale,
ad esempio, all’opera di Vittorio Alfieri ma vietatissimo a Vienna (ed ancor
più a Monaco) e che, dopo il congresso di Vienna, sarebbe diventato off
limits pure nel Lombardo-Veneto (come ben apprese Verdi tramite le traversie
per mettere in scena Rigoletto, Un Ballo in Maschera e le varie versioni
de Les Vêpres Siciliennes). Il tirannicidio, inoltre, viene orchestrato
in una Roma «repubblicana» dove il popolo ed il Senato hanno un ruolo
crescente. E con essi la consapevolezza del mercato e delle ineguaglianze
che esso comporta se non è ben funzionante.
Ancora una volta, occorre rifarsi al carteggio tra Leopold e la moglie
per toccare con mano temi che dovevano essere di conversazione corrente
nell’entourage di Wolfgang: i prezzi a Salisburgo crescevano rapidamente
ed i salari reali diminuivano, creando povertà ed emigrazione di talenti
(1° settembre 1770); la classe politica bada a sé stessa e si spartisce «rendite
» (sempre 1° settembre 1770); anche accanto alla Curia papale i giochi
si fanno duri ed hanno come oggetto potere e denaro (22 settembre 1770):
«che ne sarà di Salisburgo se non si pensa al mezzo di stabilire un regime
più sano?» (27 ottobre 1770); «in Italia va tutto in modo folle» (1° dicembre
1770); il mercato non funziona perché l’imbroglio è sovrano (primo
marzo 1771); il travisamento dell’informazione relativamente a «una guerra
italiana di cui si parla tanto in Germania» anche se «non c’è nulla di
vero» (Wolfgang alla madre, 7 novembre 1772); la scoperta di un «nuovo
gioco che qui si chiama ‘mercante in fiera’» (Wolfgang alla sorella 5 dicembre
1772) e che esalta l’azzardo. In questo clima, tra capricci di prime
donne e di tenori, ritardi nei pagamenti, va in scena un Lucio Silla attesissimo
(«alle 5 il teatro era tutto pieno», 2 gennaio 1773) e Mozart illustra
148 Giuseppe Pennisi
la formazione dei prezzi, il funzionamento del mercato, le sua disfunzioni
e la sua antitesi alla «tirannide».
Passano circa otto anni tra Silla e Idomeneo, Re di Creta. Tra le due si
situano opere semi-serie all’italiana (Il Re Pastore» e La Finta Giardiniera),
un’incompiuta (e non si sa da chi commissionata) «opera seria» in tedesco
(Zaide), le musiche di scena per Thamos ed un numero vastissimo di sinfonie,
concerti, serenate e quant’altro. Secondo Paolo Isotta, Idomeneo, re di
Creta «rappresenta, nonostante tutto quello che Mozart vi fece seguire, Die
Zauberflöte compreso, il più strenuo e più riuscito sforzo del musicista per
toccare la sublimità tragica e la potenza espressiva». Edward J. Dent dà un
giudizio analogo nella sua opera fondamentale sul teatro di Mozart. Wolfgang
la compose nel 1780. Dopo un periodo di oblio, è oggi una delle opere mozartiane
più amate dal pubblico. Se ne sono viste di recente edizioni in tutti
i maggiori teatri italiani e stranieri. Apprezzabile una produzione, frutto
della collaborazione di numerosi teatri (Torino, Bologna, Modena, Reggio
Emilia, Ferrara e Ravenna) a ragione dei mezzi che l’allestimento richiede,
che ha girato per mezza Italia. Il libretto, apparentemente una parabola
edificante, del modesto abate Gian Battista Varesco è di stampo metastasiano.
Quindi, già rétro quando venne scritto. Di ritorno dalla guerra di Troia
(nella vita di Mozart e nelle sue opere, i viaggi non mancano mai), Idomeneo,
re di Creta, nel corso di una tempesta marina, promette a Nettuno di sacrificare
la prima persona che incontrerà all’approdo. Questi è il principe
reggente, l’avvenente Idamante, suo figlio, conteso tra la troiana Ilia e la
greca Elettra, ambedue vogliose di portarlo a letto prima e all’altare poi (le
donne mozartiane, va ricordato, sono tutt’altro che fragili). Per amore paterno,
il re non mantiene la promessa. Nettuno invia un mostro che minaccia
di divorare tutti i cretesi. Idamante, per amor di patria, lo uccide, ma i sacerdoti
reclamano, comunque, il sacrificio. Il giovane principe è pronto a
farsi sgozzare. Mentre Idomeneo sta per farlo, Ilia si sostituisce a Idamante
e chiede di essere immolata al posto suo. Nettuno perdona tutti; Idamante
ascende al trono coniugato a Ilia; Elettra si dispera in isterica follia, mentre
si celebra il nuovo re.
Come riuscì da questo pasticcio, un ventiquattrenne (o giù di lì) quale
era allora Mozart, in procinto di lasciare un impiego sicuro ed a tempo
indeterminato a Salisburgo (dove lo offendeva dover pranzare e cenare con
la servitù (lettera al padre del 17 marzo 1780), per una dura scoperta del
mondo da musicista libero professionista, a tirare fuori un capolavoro sommo?
Neanche nella più nota trilogia dapontiana, il compositore austriaco
ritrovò la compattezza musicale di Idomeneo. Mai la musica per teatro di
Mozart, neanche nelle ultime opere, ebbe un’orchestrazione, al tempo stes-
L’economia politica di Wolfgang Amadeus Mozart 149
so, così complessa e così smagliante, nonché parti vocali tanto innovative,
quali il grande quartetto del terzo atto, in cui si fondono un recitativo secco,
un duetto, un recitativo accompagnato e un concertato a quattro voci,
oppure l’ultima aria di Elettra in cui si rompe la consueta divisione in numeri.
Per un quartetto analogo a quello del terzo atto di Idomeneo si sarebbe
dovuto aspettare il Rigoletto circa 70 anni più tardi e per un’aria simile
si deve giungere quasi all’ultimo Giuseppe Verdi – quello di Aida, se presentata
in versione intimista – o a Richard Strauss. Ci si chiede spesso cosa
abbia portato Mozart a una vetta così alta partendo da un libretto convenzionale
di «opera seria», pur se fortemente marcato dalla rivoluzione gluckiana
allora in corso e dai canoni della «tragédie lyrique». Al giovane
adulto, che componeva Idomeneo, stava stretta la cappa protettiva del padre.
Ed ancora di più gli stavano strettissime le regole di Palazzo imposte
dal camerlengo conte Karl Joseph Felix von Arco passato alla storia per le
pedate nel fondoschiena che fecero da contrappunto al licenziamento di
Wolfang Amadeus dai servigi presso l’Arciverscovado. Aveva, inoltre, una
vita sentimental-erotica complicata ed era già in cammino verso il «praticantato
», per così dire, della massoneria. In quel lavoro, quindi, riversò e
sublimò le proprie tensioni interiori, sia quelle nevrotiche sia quelle politiche.
Nella partitura abbiamo le nevrosi dei rapporti con il padre-padrone
Leopold nell’interazione tra Idomeneo ed Idamante; le nevrosi delle relazioni
anche sessuali con le donne nel triangolo Idamante-Ilia-Elettra; le
nevrosi del nesso con Dio (il burrascoso rapporto tra Idomeneo e Nettuno).
In Idomeneo, dette ai propri conflitti interiori uno spessore universale e
atemporale, tanto che si sono visti allestimenti dell’opera con scene e costumi
di epoca bonapartiana e anche da secondo dopoguerra. Sotto il profilo
politico, il ventiquattrenne Mozart aveva già le idee chiare. Non un
«rivoluzionario», ma un «riformista» che adorava l’armonia della monarchia
(non per nulla si iscrisse alla loggia più vicina alla Corte), ma la voleva
temperata (in Idomeneo come in Lucio Silla, il sovrano assoluto perde lo
scettro). Aveva pregiudizi vagamente razzisti (nei confronti dei turchi e di
coloro dalla pelle nera – che sarebbero stati evidenziati con maggior forza
in Die Zauberflöte), avvertiva ma non approvava la forza interiore e l’astuzia
delle donne e in un unico lavoro (Le Nozze di Figaro) espresse un punto
di vista politicamente tutt’altro che corretto, con la «doppia rivoluzione»
delle donne e della servitù.
Nella coproduzione che ha girato per sei teatri italiani, l’«opera seria»
viene presentata in una versione non filologica: si segue essenzialmente la
prima edizione, approntata per Monaco di Baviera dove andò in scena nel
1781, ma viene eliminato (anche per ragioni di economia) il lungo balletto
150 Giuseppe Pennisi
finale e vengono incorporati alcuni passaggi della edizione predisposta
dalla stesso Mozart nel 1786 per Vienna, dove, a quel che si sa, non andò
mai in scena. Il ruolo di Idamante, originariamente scritto per un castrato,
è interpretato da un mezzo soprano. Nell’edizione per Vienna venne riscritto
per un tenore leggero e inclusa, per chi cantava il ruolo, un’aria con solo
accompagnamento di violino che è un vero splendore. Lo spettacolo dura
complessivamente circa tre ore e mezzo con i due intervalli. Nel teatro in
musica di Mozart, come si è detto, Idomeneo ha avuto un lungo periodo di
oblio. Dopo una tornata di rappresentazioni a Monaco nel 1781 e la revisione
eseguita per Vienna, l’opera di fatto sparì dai repertori. Nell’Ottocento,
veniva rappresentata solo in Germania e tradotta in tedesco dalla versione
originale in italiano. Fu quel genio di Richard Strauss a riproporla nel
Novecento con una sua propria riorchestrazione. Soltanto negli ultimi
trent’anni, e in particolare dal 1980 (o giù di lì), è entrata tra i lavori mozartiani
rappresentati con frequenza nei teatri italiani nell’orchestrazione
originaria. Eppure – come si è visto – da molti viene considerata il capolavoro
assoluto di Mozart per il teatro: l’opera in cui più precorre i tempi
sotto il profilo musicale e nella quale svela meglio, al tempo stesso, il proprio
credo politico e le sue nevrosi più intime. L’allestimento citato (il più visto
di recente in Italia) pone l’accento sugli aspetti «politici»: la centralità della
persona e del perseguimento della felicità. Sulla scena (realizzata da
Santi Centineo con i costumi di Giusi Giustino) si svolge un dramma atemporale
di sentimenti, eros e interazione con sé stessi. La scena è stilizzata
con il mare sempre presente, l’attrezzeria è composta unicamente da un
grande letto a due piazze e una decapottabile americana anni Cinquanta in
malo arnese. Il primo è il talamo che Ilia sogna per sé ed Idamante; il secondo
l’auto con cui Elettra si trascina nell’arcipelago greco e in cui nel
secondo atto toglie la verginità al giovane principe. Nettuno è lo specchio
freudiano di Idomeneo, di cui il re riesce a liberarsi solo quando, dopo le
traversie dei suoi cari, acquista contezza della sofferenza. È una lettura che
regge drammaturgicamente molto meglio di quella fortemente politica (di
«scontro di civiltà» alla Samuel Huntington) che nello stesso periodo è
partita da Aix-en-Provence per raggiungere Brema, Vienna, Lussemburgo
e vari teatri francesi – un altro Idomeneo viaggiante.
Da queste letture «politiche», si può giungere anche a letture di economia
politica? A livello astratto, ed inespresso, Idomeneo ci mostra una visione
economiche di «mercati e gerarchie», quale quella che ottanta anni dopo
avrebbe teorizzato Alfred Marshall e in tempi più recenti, Oliver Williamson,
nonché in Italia, tutta la scuola di economia istituzionale interessata ai «distretti
industriali». Non si può certo pensare che il ventiquattrenne Wolfgang
L’economia politica di Wolfgang Amadeus Mozart 151
precorresse la visione di quelli che sarebbe stati «i distretti marshalliani»
(quali teorizzati da uno dei maestri della scuola americana di diritto pubblico
dell’economia) e la letteratura ad essi attinenti, ma il ritorno dell’armonia
a Creta in un sistema gerarchico dove un re eletto dal popolo, Idamante,
tempera il mercato fornisce una chiave di lettura interessante. La conoscenza
di microeconomia, e di una microeconomia di mercati e gerarchie, è
nell’epistolario: il 2 febbraio 1778 (mentre Idomeneo era in fattura) Leopold
esterna alla moglie la preoccupazione per quella che si chiamerebbe oggi la
«governance» dell’Impero dopo la conquista delle miniere di sale bavaresi
da parte dell’Austria; il 7 febbraio 1778 è Wolfgang a scrivere alla madre un
mini trattato su economia e matrimonio (di convenienza nei ceti ad altro
reddito, mentre «noi povera gente comune non soltanto dobbiamo prendere
una donna che amiamo e che ci ama, ma dobbiamo, possiamo e vogliamo
prenderla così poiché non siamo nobili, né altolocati, né aristocratici, né
ricchi, ma piuttosto umili, miseri e poveri; perciò non abbiamo bisogno di
una moglie ricca»); ancora sempre il 7 febbraio 1778, l’apodittico: «la nostra
ricchezza muore con noi perché ce la abbiamo nella testa» (un’anticipazione
della «teoria del capitale umano») ; infine, l’«economia dei bordelli», di cui
ha contezza nella città libertina per eccellenza (Parigi), ma da cui si tiene
lontano, scrivendo al padre il 22 febbraio 1778: «sono un Mozart, ma un
giovane Mozart benpensante», modo elegante per dire che far sesso gli piace
molto, ma non va con prostitute. E, su tutto, il peso della nuova imposizione
fiscale che là dove il principe non è saggio, e le gerarchie non correggono
le imperfezioni del mercato ma le aggravano, distruggono la crescita e
portano alle «maledizioni della gente» (da Leopold a Salisburgo a Wolfgang
a Parigi il 28 maggio 1778).
Indubbiamente, in terra di Baviera, ciò che dai Mozart (padre e figlio)
era stato assorbito dagli «Illuministi Settentrionali» comincia a colorarsi del
«socialismo paradisiaco» degli illuministi bavaresi ricordati nella prima
sezione di questo articolo – nella congerie dei socialismi chiamati «utopistici
» da Marx. Comincia pure l’avvicinamento verso la massoneria cattolica
del mondo di lingua tedesco – il percorso iniziatico di Mozart sarebbe
stato formalmente avviato quattro anni dopo, come si è ricordato. In Idomeneo,
c’è un punto importante: il nesso sia drammaturgico (il passaggio
da potere carismatico a potere fondato sul consenso di aristocratici e «popolo
» in senso lato, nonché da una generazione all’altra) che musicale (in
«pianissimo») – una coincidenza tra il finale di Idomeneo e quello della
terza versione del verdiano Simon Boccanegra (cento anni dopo). Non
credo che Verdi conoscesse le versioni in tedesco di Idomeneo che circolavano,
non molto frequentemente e fortemente modificate rispetto all’origi-
152 Giuseppe Pennisi
nale, in terre al di là delle Alpi e del Reno. Specialmente in quella fase,
però, era fortemente imbevuto (anche grazie al sodalizio con Arrigo Boito)
in antiassolutismo ed in riscoperta del pensiero illuminista lombardo.
Passano anni, prima de La clemenza di Tito, ultima opera di Mozart in
termini di composizione, anche se penultima in tema di debutto sulle scene.
Composta in appena 18 giorni, nel 1791, in occasione dell’incoronazione
di Leopoldo II come re di Boemia. Attanagliato da debiti (molto esplicito
il carteggio del periodo quasi interamente dedicato alle ristrettezze finanziarie
e con pochi cenni al lavoro di composizione oppure ancora al mondo
politico ed economico che lo circonda) ed afflitto dalla nefrite (o dalla sifilide?)
che lo avrebbe presto portato alla tomba, Wolfgang sperava di avere
in tal modo ripianata, almeno in parte, la propria situazione finanziaria e
di trovare un posto (ed uno stipendio fisso) a Corte, dopo avere declinato
le offerte di Londra e Berlino. Lontani i tempi di quando da Vienna il 5
settembre 1781 scriveva al padre, con orgoglio, di essere l’unico musicista
della capitale che è «riuscito a fare grazie ai (propri) sforzi» mentre gli altri
«facevano ricorso al loro salario». Ora Tito serve a tendere la mano se non
per un salario, per incarichi ben remunerati in quanto è a capo di una famiglia
indigente ed il padre non ha modo di aiutarlo (preso tra l’altro a
fare il nonno al figlio della figlia).
È una «opera seria celebrativa», ideata proprio quando il genere stava
sparendo, sostituito dalla «tragédie lyrique», prima, e dal melodramma, poi.
Può essere chiamata, scherzosamente, una «divina marchetta» in quanto
anche un lavoro di mera celebrazione diventava, nelle sue mani, divina. La
clemenza utilizza un vecchio libretto del Metastasio (riscritto, però, dal
mestierante Caterino Mazzolà), a sua volta, elaborato per l’onomastico di
Carlo VI (nonno di Leopoldo II) e messo in musica, nel 1734, da Antonio
Caldara e successivamente da una mezza dozzina di altri compositori (tra
cui Gluck). Opera stilizzata, che piaceva a Brecht perché i personaggi esprimono
temi: Tito è la clemenza, Vitellia la vendetta, Sesto il tradimento
tormentato, Annio l’amicizia, Servilia l’amore, Publio la burocrazia. La
«marchetta» è «divina» in quanto avvolta dalla musica sontuosa di Mozart,
ma resta tale. Tra le «opere serie» di Wolfgang Amedeus non ha la sensualità
di Mitridate, re di Ponto e di Lucio Silla. Non è un capolavoro sommo
come Idomeneo, Re di Creta.
Come eseguirla oggi? Non è facile metterla in scena: non ci sono riusciti
né Luca Ronconi nel 2010 al San Carlo né lo stesso pluripremiato
David McVicar nell’allestimento presentato a Aix-en-Provence ed a Londra
(nonché in altre città) nel 2011. Esemplare l’edizione presentata una decina
di anni fa al Maggio Musicale Fiorentino. A Firenze, nella Roma in
L’economia politica di Wolfgang Amadeus Mozart 153
modellini di gesso in miniatura (Maurizio Balò), Federico Tiezzi interpreta
con leggera ironia i personaggi-tema (brechtianamente parlando) in
costumi settecenteschi (Vera Marzot). La recitazione non è mai enfatica;
la vicenda di tradimenti e contro-tradimenti, di perdoni e di oblii resta
stilizzata (pur se avvolta da una leggera ironia). È una lettura discutibile
(ed è stata, infatti, discussa) ma plausibile. Pur se concepita per Praga e
per ingraziarsi il nuovo Regnante, è forse, una delle opere dove più si avverte
l’«Illuminismo paradisiaco» bavarese, in cui la grande armonia (e
quindi i mercati) è fortemente gestito da un «dittatore benevolo» ed altruista.
C’è, però, un nesso con la visione politica e l’economia politica assorbita
in Italia: il (tentativo di) tirannicidio nel finale del primo atto, strettamente
legato al pensiero italiano di fine settecento, ed anche alla letteratura
in italiano di quel periodo, e poco riscontrabile nel pensiero e nella
letteratura dell’Austria e della Baviera.
Il Singspiel – Dall’Illuminismo dell’Italia settentrionale al socialismo «paradisiaco
» della Baviera
Die Entfürung aus dem Serail debutta un anno e mezzo dopo Idomeneo
ma molte cose erano cambiate tanto nella vita e nella professione di Mozart
quanto nel contesto politico dell’Impero d’Austria. Wolfgang era stata
cacciato, letteralmente a calci nel sedere, dal conte Arco, ciambellano
dell’arcivescovo di Salisburgo sia dal servizio presso il principe-arcivescovo
(che gli procurava, oltre ad un piccolo stipendio, vitto ed alloggio a
Vienna) sia dall’abitazione in affitto nella capitale, aveva trovato ospitalità
presso la signora Weber (una vedova di cui avrebbe sposato la figlia) e,
convinto della sua bravura, si lanciava come musicista libero professionista.
L’imperatore Giuseppe II (massone cattolico) si era lasciato entusiasmare
dalla possibilità di varare un teatro in musica nazionale; aveva abrogato la
prassi di affittare il teatro Imperiale a impresari (per lo più italiani) per
farlo diventare parte integrale della Casa «Imperiale e della Nazione»; incoraggiava
le opere in tedesco, iniziando dal Singspiel (già molto diffuso
nel Nord) in cui l’azione si dipanava recitata ma era interrotta da numeri
musicali (ben differente dall’opera «buffa» italiana in cui i «recitativi»
erano cantati ed accompagnati dal clavicembalo). Aveva anche lanciato il
«Giuseppinismo», un tentativo di riforma della Chiesa alla britannica,
mantenendo i riti ma sostituendo il papa con la propria «Imperial persona»;
molti conventi di suore vennero chiusi e le religiose, spesso addestrate
come cantanti, si diedero al teatro.
154 Giuseppe Pennisi
In questo clima, un po’ confuso e disorientante per non pochi sudditi
dell’Impero (nonché caratterizzato da tensioni con la Santa Sede), nasce
Die Entfühung. Presentata al Burgtheater (teatro del Borgo, quindi del
popolo, lontano dalla pompa di quello imperiale) fu, lui vivente, l’opera di
maggior successo di Mozart (purtroppo allora i «diritti d’autore» non erano
regolamentati così efficacemente come lo sarebbero stati nell’Italia della
seconda metà dell’Ottocento (in gran misura, grazie a Giuseppe Verdi ed
alla Casa Ricordi ed alle loro iniziative contro «la pirateria musicale»). Se
lo fossero stati, Mozart avrebbe potuto vivere sereno l’ultima fase della sua
breve esistenza terrena. Fu una delle poche opere mozartiane che restarono
in repertorio durante l’Ottocento e la prima metà del Novecento, anche se
in Italia arrivò solo nel 1935. Mozart era un sostenitore della necessità di
un teatro d’opera nazionale tedesco (si veda l’appassionata lettera al padre
del 5 febbraio 1783) e non era nuovo al Singspiel – il giovanile Bastien und
Bastienne e l’incompiuto Zaire – ma era alle prese con un libretto pasticciato
di Gottlied Stephanie, tratto da una commedia di Christoph Friederich
Bretzner, tratto a sua volta da fonti inglesi (tra cui una vera e propria commedia
musicale). In aggiunta, Mozart aveva a disposizione cantanti di
maturo successo che imponevano le loro regole: l’aria più nota del soprano
(Martern der Arten) era un’aria di bravura per concerto dalla Caterina Cavalieri
protagonista della prima rappresentazione. Sotto il profilo musicale,
il lavoro presenta una mescolanza di stili incompatibili tra loro: dal «vaudeville
» ai duetti ed ai terzetti da opera comica, a numeri da opera seria, ad
echi di cantate di chiesa.
Sotto il profilo drammaturgico viene di solito interpretato come una
settecentesca «turquerie», commedia in musica buffa vagamente antiorientale;
quindi, lazzi, frizzi e allusioni sessuali a volte anche pesanti, e con più
di un pizzico di razzismo. In alcune letture, questo stile viene mescolato a
quello di una «pièce à sauvetage», dramma in prosa o in musica basato su
un «salvataggio», genere teatrale che sarebbe diventato di moda una decina
di anni più tardi, all’epoca della Rivoluzione francese, e di cui l’esempio più
grande è Fidelio di Beethoven. In una lettura in repertorio da anni alla Komische
Oper di Berlino, il regista Calixto Bieito, il «serraglio» è un bordello
sado-maso; in stanze di plexiglass varie coppie si esibiscono in diverse
posizioni del Kamasutra. I «nostri» scappano rivoltella alla mano facendo
strage dei frequentatori del bordello. Il pascià viene ucciso, mentre tenta
un ultimo abbraccio con Kostanze, che nella confusione generale si suicida
(probabilmente pensando che a letto Belmonte è inferiore al pascià). L’interpretazione
tenta di risolvere la discrasia tra un libretto insulso da turquerie
ed una musica, nei momenti centrali, drammaticissima. La predilezione
L’economia politica di Wolfgang Amadeus Mozart 155
di Bieito per i fondo-schiena e per i genitali (specialmente maschili), già
esibita in Un Ballo in Maschera a Madrid, si accompagna con una lettura
musicale – Kirill Petrenko – piena di brio. Eccezionali comunque i cantanti
attori – tutti giovani e di belle fattezze.
In altra edizione, proposta a Roma nel 2011 da Graham Vick e Gabriele
Ferro, si parte dall’assunto che, dopo Idomeneo, Die Entführung aus
dem Serail è il primo capolavoro in cui il giovane compositore entrò nella
stesura del libretto, suggerendo in prima persona dialoghi, doppi sensi
(anche i più espliciti) e arie. Difficile per il nostro pubblico latino catturarne
e capirne l’ambiguità. Si ricordano unicamente poche edizioni di
livello: quella del 1969, con regia di Giorgio Strehler e scene e costumi di
Luciano Damiani e quella affidata a Zubin Metha (direzione musicale) e
Elike Grams (regia) a Firenze nel 2002. Nel 2011 c’erano ben tre allestimenti
differenti in giro per l’Italia. Senza dubbio, il migliore è stato quello
romano: la vicenda si svolge in un ambiente astratto, dominato da un
grande cubo (ormai quasi un marchio di fabbrica di Graham Vick); elegante
e raffinato, lo spettacolo è molto «British» ma perde parte dell’ambiguità.
La si ritrova, invece, nell’accurata concertazione di Ferro, dove
brio e ironia incorniciano un vero dramma che è al centro dell’opera e
nelle belle voci dei protagonisti (su cui eccellono Maria Grazia Schiavo e
Charles Castronovo). La Schiavo, apprezzata principalmente nel teatro
barocco e nei ruoli di coloratura, conferma di essere un «soprano assoluto»
dall’ampio registro, destrezza nell’ascendere e discendere da acuti terrificanti
e grandi capacità sceniche. Castronovo è un giovane tenore lirico
americano, molto affermato, oltre che negli Usa , in Germania, Austria e
Francia: rare le sue apparizioni in Italia. Il Teatro dell’Opera ha fatto bene
a farlo conoscere: timbro chiaro, fraseggio elegante, «do» acuti senza difficoltà.
Buoni professionisti Beate Ritter (Blonde), Cosmin Ifrim (Pedrillo)
e Jaco Huijpen (Osmin). Ottima l’idea di affidare ad un cantante (il bassobaritono
Rodney Clarke) la parte recitante di Selim.
Si sono accostate queste produzioni così differenti perché, Die
Entführung è un lavoro la cui bellezza sta nella sua ambiguità. Mentre Pedrillo,
Osmin e Blonde appartengono al mondo della turquerie, Konstanze
e Belmonte sono cugini dell’Idamante, dell’Ilia e dell’Elettra di Idomeneo;
nella sua tremenda tolleranza, per certi aspetti terrificante, la voce recitante
Selim il pascià è il mostro-Dio dell’opera di un anno e mezzo prima. Il
finale è aperto; non sappiamo se dopo la liberazione da parte del magnanimo
Selim, Konstanze non rimpiangerà di non avergli ceduto (per restare
fedele al bello ma debole Belmonte). Die Entführung si svolge quindi in un
serraglio pieno di segreti; per svelarli, l’esecuzione richiede un equilibrio
156 Giuseppe Pennisi
sempre dinamico e sempre instabile tra la buffa umanità di questo mondo
e le vette rivolte all’Alto.
Ci sono riferimenti alla «triste scienza»? Come si vedrà meglio analizzando
Le nozze di Figaro c’è un confronto tra tre modi di vedere il mondo:
Pedrillo, Osmin e Blonde appartengono ad un settecento mercantile (dove
si compra, si vende e si corrompe), Kostanze e Belmonte sono in quello di
un’aristocrazia intellettuale (distante dal mercato e in cammino verso una
sfera di superiore saggezza individuale e di coppia), e Selim, la cui nobiltà
d’animo supera la grave offesa subita e assurge a elogio della tolleranza
(come Hans Sachs nel wagneriano Die Meistersinger von Nürnberg). La
tolleranza diventa il mastice coesivo del mondo di gerarchie e mercati già
visto in Idomeneo con una differenza marcata: Osmin (uno dei due «buffi»
ma anche il personaggio negativo per eccellenza) ha la pelle nera (forse
uno schiavo africano), mentre Selim sembra essere un berbero, un sultano
della costa nordafricana o anche del Corno d’Africa. In Die Entführung c’è
accanto al nazionalismo – la ricerca del cammino di quell’opera nazionale
tedesca che sarebbe esplosa qualche decennio più tardi con Weber, Marschner,
Schumann, Lortzing, fino a Wagner – quel razzismo che sarà ancora
più esplicito in Die Zauberflöte e che rispecchia le tematiche della
massoneria cattolica del mondo tedesco meridionale. Anche il razzismo
(contro gli africani) è parte del percorso che porta alla assolutista, pur se
benevola, «clemenza» intrisa di socialismo paradisiaco bavarese, in cui il
mercato è assoggettato al principe equanime che sa distribuirne i benefici
tra i suoi sudditi.
Dall’epistolario, si vede come Mozart fosse così impegnato nella preparazione
ed anche allestimento di Die Entführung, molto attento ai costi
(ed alle bizzarrie dei cantanti) ed ai prospettati ricavi, quasi da non sfiorare
le trasformazioni economiche del mondo a lui intorno. Non così il
padre, ormai nonno-babysitter. La lettera alla figlia del novembre 1784
(manca la data) contiene una breve lezione sulla differenza (in tempi turbolenti
come quelli) tra beni «materiali» e «immateriali»: «I primi restano
e nessuno ve li può prendere; i secondi uno li può spendere, perdere, esserne
derubato, ecc.».
In questo clima, arriva la proposta di Haydn: il successo di «Die Zauberflöte
» inebria Wolfgang (nel 1785 – ci informa una lettera del padre – il
compositore è in grado di saldare i propri debitori), le prospettive di aprire
la strada all’opera nazionale tedesca lo entusiasma ancora di più (a Londra,
si voleva opera all’italiana ed in italiano), da Salisburgo giungono segnali
di rappacificamento (ma il compositore scrive al padre che i calci di Arco
gli fanno ancora «bruciare il ‘culo’»). Quindi, il diniego.
L’economia politica di Wolfgang Amadeus Mozart 157
Più intrigante di Die Entführung, ma per certi aspetti più lineare, Die
Zauberflöte, ultima opera di Mozart rappresentata, ma penultima composta.
Al pari di Die Entführung è un Singspiel che, nel mondo di cultura tedesca,
ha continuato ad essere rappresentata nell’Ottocento e nella prima metà del
Novecento, nonostante fosse anni luce distante dal melodramma romantico,
dal verismo, dal «gran opéra», dalla «literaturoper» e da tutte le forme e
convenzioni che si affermavano. In Italia arrivò solamente negli anni Trenta
(anche a ragione delle «opere fantastiche» – si pensi a Casella, a Malipiero
ed a Mascagni che avevano un certo successo in quel periodo). Al teatro
dell’Opera di Roma – che allora non era secondo alla Scala in termini di
titoli rappresentati ogni stagione e di carica di innovazione, non arrivò che
nel 1937 (per sole tre rappresentazioni dirette da Vittorio Gui).
Su Die Zauberflöte grava l’onere di essere considerata il «testamento
massone» di Mozart. Nasce, indubbiamente, nel clima della loggia massonica
a cui appartenevano sia Wolfgang sia il librettista Emanuel Schikaneder
sia molti cantanti. Tuttavia, era destinata ad un teatro popolare (il Theater
auf der Wieden), di piccole dimensioni e con l’obiettivo di «fare cassetta»
– rivolta, quindi, ad un pubblico non necessariamente massone (poiché la
massoneria era privilegio dell’aristocrazia e della nascente borghesia. Nel
lavoro non manca la simbologia massonica: il numero tre (i protagonisti
sono tre coppie, aiutati da tre dame e da tre fanciulli), il mappamondo, il
serpente, la lotta tra luce e tenebre e richiami nelle parti corali alle convenzioni
dei riti di alcune logge, il percorso di iniziazione alla base del lavoro.
In effetti, la prima volta che la ascoltai dal vivo nel 1956 (a 14 anni), l’allestimento
(in tedesco e senza sovratitoli ma con le parti parlate in – pessimo
italiano) mi annoiò mortalmente, nonostante Vittorio Gui concertasse
ed il cast fosse di livello (Frick, Wunderlick, Stich, Hallin): il Singspiel si
svolgeva in un cupo Egitto massone dove tre piramidi dominavano la scena
e per tre ore si era immersi in una simbologia ossessiva.
Die Zauberflöte è stato recuperato al suo proprio significato di favola
e di allegoria (dai molteplici significati) negli anni Settanta. Ed in terre
lontane dal mondo tedesco. Da citare, l’allestimento di Ingmar Bergman
per il piccolo teatro barocco nel palazzo di Drottingholm per la televisione
svedese e successivamente distribuito nel 1975 come film di grande successo,
e la magnifica edizione curata da Maurice Sendak, scrittore ed illustratore
di libri per bambini, per la Houston Gran Opera nel 1980. Mentre
Bergman (la cui produzione è in svedese e lascia piuttosto a desiderare per
la parte musicale) modifica leggermente il libretto al fine di rendere più
credibile la vicenda, Sendak non cambia un verso ed una nota ma trasforma
Die Zauberflöte in una fantasmagorica favola per bambini. In ambedue,
158 Giuseppe Pennisi
l’apologo riguarda la crescita – dall’infanzia all’età adulta. Altro allestimento
memorabile, quello di Stéphane Braunschweig che nel 1999 dai festival
di Aix-en-Provence ed Edimburgo ha girato in tutto il mondo, anche grazie
ad un’estrema economia di mezzi scenici (una serie di monitor televisivi,
un grande letto): l’apologo è l’iniziazione all’eros per le due coppie giovani
e la stanchezza dell’eros (e dei rapporti in generale) per quella anziana (in
cui i due partner sono ormai giunti ai ferri corti). Di grande rilievo, l’allestimento
curato dal regista scozzese David McVicar per la Royal Opera
House (ROH) di Londra nel 2003, già ripreso tre volte in Gran Bretagna e
portato per la prima volta oltre Manica a Roma nel marzo 2012 (nonché
oggetto di un Dvd di successo): in un’elegante fantasia di luci e di colori,
la simbologia massonica c’è ma è de-enfatizzata. Il tema centrale diventa il
confronto ed il passaggio generazionale con la mantella e lo scettro del
potere che vanno da Sarastro (truccato e vestito come Giuseppe II) al giovane
Tamino; non solo la principessa Pamina viene ammessa, con pari
rango, in un mondo precedentemente solo di uomini (il «femminismo mozartiano
» già esploso ne Le nozze di Figaro, come vedremo nel prossimo
paragrafo) ma (aspetto discutibile) al fine di essere politically correct, Monastatos
è un bianco (e le battute contro i «neri» vengono eliminate).
Ci sono elementi di economia politica in Die Zauberflöte? L’epistolario
aiuta poco: mostra un Wolfgang assillato da problemi di sopravvivenza economica
e preoccupato per la moglie, a Baden per cure termali. Meno esplicitamente
di quanto non avvenga nel Don Giovanni (di circa cinque anni
prima) sono a confronto vari «mondi economici». Quello di Papageno dove
impera il mercato, si tenta qualche imbroglietto ma si è in una piazza plurale:
specialmente nella prima scena del primo atto, nella sua canzone strofica
ascendente d’introduzione, nella scena con le tre dame e nell’ammissione
(contrita) di avere goffamente tentato di barare, e nelle parti del secondo
atto in cui fa il furbetto di fronte alle prove sino al raggiungimento dell’agognato
obiettivo (trovare una Papagena da portare sotto le lenzuola). C’è
quello di Tamino e Pamina dove il mercato è leale e premia chi segue le sue
regole (quali definite dalla collettività a cui si appartiene). Ad esso si giustappone
quello della Regina della Notte, delle tre Dame e di Monastatos,
una piazza dove domina l’intrigo e che, per questo, è destinata ad essere
sconfitta. C’è, infine, quello di Sarastro, il «socialismo paradisiaco» dell’Illuminismo
della Baviera, ormai quasi più radicato, in Wolfgang Amadeus,
di quello dell’Italia settentrionale che lo aveva plasmato nella sua adolescenza
e da cui aveva cominciato a distaccarsi con Idomeneo. Forse era diventato
per Wolfgang importante: in quanto indigente e malato voleva aspirare,
per mutuare un celebre duetto verdiano, «ad un mondo migliore».
L’economia politica di Wolfgang Amadeus Mozart 159
La trilogia con Da Ponte – La teoria dei giochi secondo Wolfgang
Il testo fondante della teoria dei giochi – Theory of Games and Economic
Behavior» di John von Neumann e Oscar Morgestern – è del 1944
(anche se altri autori, quali Ernst Zermelo e Arman Bore, avevano scritto,
ante litteram, di teoria dei giochi). Può sembrare ardito interpretare le trilogia
messa in musica su libretti di Lorenzo Da Ponte con la cassetta degli
attrezzi di stilemi economici di detta teoria. Lo è meno fuori dell’ordinario
dell’interpretarle alla luce di un percorso iniziatico nella massoneria cattolica
bavarese, ormai estesa sino a Vienna ed altrove nell’Impero.
In primo luogo, il padre di Da Ponte era un ebreo mercante di pelli
nell’attuale Vittorio Veneto. Era diventato «cattolico» non perché nella
Repubblica Veneta del Settecento ci fosse ancora l’antisemitismo del
Cinquecento o del Seicento (quello per intenderci dipinto da Shakespeare
in Il mercante di Venezia) ma, vedovo quarantenne, per sposare una
ragazza cristiana di 16 anni di cui si era innamorato; secondo l’usanza
tanto il marito quanto i tre figli di primo letto presero il cognome del
vescovo che li aveva battezzati ed aveva officiato le nozze. Così Emanuele
Conegliano diventò Lorenzo Da Ponte, un quattordicenne avido
di donne e di denari, grande amico di Casanova. Le vesti dell’abate gli
servivano come comoda copertura per finire a letto anche con donne
sposate. Travolto dagli scandali, traversò il confine e dopo lunghi soggiorni
a Gorizia ed a Dresda arrivò a Vienna. Portava con sé la conoscenza
di giochi commerciali (tipici nel mercato delle pelli), di giochi
erotici e di giochi per sfuggire ai creditori, alle forze dell’ordine e ai
mariti traditi. Tutti giochi in asimmetria di informazione e di posizione
come quelli di John von Neumann e Oscar Morgestern, ed anche, come
accenneremo, i giochi ad equilibrio dinamico come quelli di John Nash
e della sua beautiful mind.
Veniamo alla loro prima collaborazione, Le nozze di Figaro. Nonostante
Da Ponte lavorò di maestria nel ridurre il testo della commedia di Beaumarchais
(il padre del compositore scriveva alla figlia, l’11 novembre 1785,
di dubitare che sarebbe stato in grado di farlo), e nel togliergli la carica
politica, il lavoro rimase sufficientemente lungo da rendere impossibile
seguire lo schema tradizionale di una opera buffa, cioè due atti. È in quattro
atti anche se, sotto il profilo musicale, ha unicamente due «finali» (il
concertato era di rigore) al termine del secondo e del quarto atto. Nel contempo,
Wolfgang – lo apprendiamo dal carteggio in famiglia – ha scialacquato
i proventi di Die Entführung ed ha urgente bisogno che il nuovo lavoro
sia un successo commerciale.
160 Giuseppe Pennisi
La vicenda è notissima e può essere anche letta, dal punta di vista economico,
con le lenti di Adam Smith. Figaro e Susanna vogliono sposarsi. Ma il
conte d’Almaviva mira ad andare a letto con Susanna, prima di Figaro. L’anziana
Marzellin vuole che Figaro ci vada con lei. Il paggio di casa, Cherubino,
mira a tutte le donne del palazzo – Barbarina, Susanna, la Contessa. Quest’ultima
è l’astuta Rosina de «Il Barbiere di Siviglia» e vuole tornare ad essere lei
l’unica nel letto del Conte. Al termine di una «folle giornata» (il sottotitolo del
lavoro), la «mano invisibile» fa sì che ciascuno finisca nel letto giusto.
Al centro di Le Nozze di Beaumarchais, c’è la rivoluzione di Figaro
contro il Conte. Al centro della versione Mozart-Da Ponte c’è un’asimmetria
informativa che innesca una rivoluzione più profonda: a differenza di Figaro
e degli altri, la Contessa e Susanna sanno cosa il Conte ha in mente e
quale è il suo gioco per centrarlo; hanno accesso a informazioni privilegiate.
Si innesca, grazie a questa asimmetria, un gioco femminista che, in teatro,
precede di cento anni Casa di bambola di Henrik Ibsen e di centocinquanta
Candida di George Bernard Shaw. Una fanciulla-cameriera, Susanna,
ordisce, in combutta con la Contessa di cui è al servizio, una rete di
giochi multipli in modo che, al termine, della «folle giornata», ciascuno finisca
sotto le lenzuola appropriate. All’inizio dell’opera, la mattina di una
giornata qualsiasi, tutti i protagonisti, tranne i due promessi sposi (Figaro
e Susanna), progettano di passare la notte con un partner differente da
quello loro preposto dalle regole e dalle convenzioni. Nel corso del giorno
e nella serata, tra inganni di ogni genere, due donne – la Contessa e per
l’appunto Susanna – riescono a far sì che ciascuno sia all’alba con la persona
giusta. Ponendo al centro della vicenda le due donne la rivoluzione diventa
da politico-sociale nazionale (come intendeva Beaumarchais) a universale.
In aggiunta, Mozart rivoluziona la musica del Settecento: abolisce
«cavatine» (così care a Rossini, a Donizetti ed anche a Verdi) ed altre convenzioni
settecentesche. Scrive una partitura dal ritmo incalzante in cui
quattordici arie si incastrano in ben quattordici pezzi d’insieme in oltre tre
ore di musica. Tra cui vere e proprie gemme come il sestetto andante in fa
maggiore del terzo atto «Riconosci in quest’amplesso» che secondo Michael
Kelly era il numero preferito da Mozart in tutta l’opera.
Strehler – il cui allestimento dell’inizio degli anni Settanta si è rivisto
di recente alla Scala – lesse l’opera in chiave socialista inframmezzata da
forti accenti erotici; Visconti – la cui messa in scena (anch’essa degli anni
Settanta) è tornata una ventina di anni fa al teatro dell’Opera di Roma – la
interpretò come un apologo della decadenza borghese; Chundela come
un’amara black comedy, Bieito (nella versione alla Komische Oper di Berlino)
la vede addirittura come un pretesto per mettere in scena un po’ di
L’economia politica di Wolfgang Amadeus Mozart 161
pornografia non tanto soft. Soprattutto in Italia, solo di recente, (ad esempio,
nell’edizione curata da Gigi Proietti, Quirino Conti e Gianluigi Gelmetti)
nel 2005 al teatro dell’Opera di Roma ed in quella allestita nel 2003 da
Gabriele Dolcini per il Lirico Sperimentale di Spoleto), le letture sceniche
de Le nozze sono state scevre e di chiavi ideologiche e di un numero eccessivo
di gag, lazzi e frizzi. E, quindi, in grado di mostrare la complessità dei
giochi sul palcoscenico ed in buca (sin dal «presto» in la maggiore gaiamente
movimentato dell’ouverture). Sin dal suo primo spettacolo nel 1976 (Faust
o la Quadratura del Cerchio) il regista Mario Martone mostra dimestichezza
con la matematica. Nell’allestimento predisposto nel 2006 per le celebrazioni
mozartiane (ma visto anche a Verona, Modena e Reggio Emilia)
non cede alla sin troppo facile tentazione (da lui lo si sarebbe aspettato) di
dare a Mozart toni rivoluzionari ma offre un’interpretazione acuta in cui
pone al centro de «la folle giornata», l’arguzia di Susanna ed il tentativo,
coronato da successo, della Contessa di riconquistare il Conte (con il marchingegno
che si è riassunto). Il Conte, poi, non è la consueta caricatura del
tombeur de femmes di provincia, ma una complessa personalità, scavata in
profondità, di uomo di potere e di cure gestionali (il quale nel fare la corte
a tutte le fanciulle del castello cerca uno sfogo di relax). Il complicato intreccio
(in cui non solo il Conte e la Contessa ma tutti i personaggi hanno
una forte carica di umanità) è immerso in un Settecento melanconico e
crepuscolare, dove dominano tutte le sfumature del grigio e del beige (facendo
risaltare ancora di più, quindi, l’abito rosso del Conte e quello blu
chiaro della Contessa). Essenziale la scena: una doppia scalinata ed un
grande tavolo, nonché una pedana che circonda l’orchestra e con pochi
gradini porta i cantanti tra le poltrone della platea, coinvolgendo ancora di
più il pubblico. In breve, circa quattro ore (intervallo compreso) di grande
emozione. Naturalmente il risultato complessivo non sarebbe tale senza una
parte musicale di grande livello grazie a Jeffrey Tate.
Veniamo adesso al Don Giovanni, opera che nelle classifiche redatte
periodicamente dal «Metropolitan Opera News» (il periodico del tempio
della lirica di New York) ha superato Carmen come la più rappresentata al
mondo. La political economy ci aiuta a comprendere le ragioni di tale successo,
se la si coniuga con un pizzico di cultura musicale. Don Giovanni di
Da Ponte-Mozart rispecchia la tensione tra «zeloti» (ancorati al passato ed
alle sue regole sia scritte sia implicite) ed «erodiani» (rivolti, invece, verso
la modernizzazione) – tensione specialmente forte in un’epoca a cavallo tra
due secoli, come la fine del Settecento (e questo inizio di XXI Secolo). Circa
tre lustri fa, ad un convegno di economisti una relazione, rimasta inedita,
di Antonio Cognata (Università di Palermo e da sette anni sovrintendente
162 Giuseppe Pennisi
del teatro Massimo di Palermo) e di Pasquale Lucio Scandizzo (Università
di Roma, Tor Vergata) proponeva una lettura di Don Giovanni e del Commendatore
in termini di teoria dei giochi in un contesto di informazioni
fortemente imperfette (il «dilemma del prigioniero») e suddivideva i personaggi
dell’opera in due categorie, i «falchi» e le «colombe». I primi (il Don
ed il Commendatore) pronti, in una fase di transizione (quasi da Verwandlung
della tradizione tedesca), alle estreme conseguenze (ossia a farsi uccidere)
per facilitare l’affermarsi delle nuove regole. Le seconde (tutti gli altri) caratterizzate
da gradualismo di fronte al cambiamento. Tuttavia, mentre i
«falchi» e le «colombe» differiscono in materia di tempi e modi per affrontare
il cambiamento, nell’ipotesi suggerita in questo articolo gli «zeloti» il
cambiamento non lo vogliono affatto, mentre gli «erodiani» sono pronti
all’estremo per recepire habits and rules altrui (ad esempio quelle del liberismo
anglosassone) pur di favorire il cambiamento.
La distinzione tra «zeloti» ed «erodiani» viene dai Vangeli; è stata
utilizzata da Luciano Pellicani in analisi sociologiche stimolanti. Non rileva
per tutte le interpretazioni del mito di Don Giovanni. Non per quelle
di Tirso da Molina o di José Zorilla – due «moralisti» bigotti, ai quali
interessava mettere a nudo «la malvagità punita» del «burlador». Non per
quella di Molière, «immoralista» di finezza e di rango, con una punta di
ammirazione per il Don. Neppure per quella di Da Ponte (se non ci fosse
la musica di Mozart). Nella vita privata era un abate «immoralista ben
temperato» sempre in bolletta che versificò, per fini solo mercenari, una
contaminatio delle più note versioni precedenti con intenzioni vagamente
didascaliche. Vecchio e malato ma tornato a Santa Romana Chiesa,
scelse il Don Giovanni (e non il suo vero capolavoro scenico – l’«immoralissimo
» Così Fan Tutte) come prima opera da rappresentare a New York
(dove era, ormai anziano, approdato e dove si poteva organizzarne una
produzione quasi casalinga nelle condizioni della Manhattan dell’epoca).
Lo schema esplicativo degli «zeloti» e degli «erodiani» è anche appropriato
per alcune interpretazioni più recenti del mito del Don, da quella di
Kierkegaard a quelle elaborate nel periodo tra le due guerre mondiali –
all’insegna della Verwandlung per eccellenza.
Dato a Da Ponte quel che è di Da Ponte, cerchiamo di vedere come gli
aspetti più strettamente mozartiani possano essere esaminati con la «cassetta
degli attrezzi» dell’analisi economica. L’opera ha specificità musicali che
la rendono molto più pregnante del libretto (cosa mai ne avrebbero fatto un
Piccini, un Paisiello o un Salieri?). In primo luogo, sin dalla ouverture avvertiamo
che siamo di fronte a qualcosa che non è né una «opera buffa» né un
«dramma giocoso»: dalle prime battute si avverte il fuoco dell’inferno in fa
L’economia politica di Wolfgang Amadeus Mozart 163
(che, tre ore più tardi, concluderà il lavoro). In secondo luogo, il trattamento
musicale del protagonista non è né una caricatura del libertino quale
tracciata da Tirso de Molina e José Zorrilla né un protoilluminista come
scolpito da Molière. Le note di Mozart, avvolgono Don Giovanni in un clima
luciferino; lo ritroveremo, ad esempio, pochi lustri più tardi nell’«opera nazionale
» tedesca per sottolineare il carattere demoniaco di Kaspar in Der
Freischütz (un punto afferrato nella recente regia di Claus Guth a Salisburgo)
oppure, un secolo più tardi, della Nutrice di Die Frau ohne Schatten di Richard
Strauss. È luciferino lo stesso brindisi alla libertà del «finale primo»,
giustapposto, simmetricamente, alla scena, pure essa luciferina, con il Commendatore
nel «finale secondo». Luciferianamente, né il Don né il Commendatore
hanno una «cavatina» (aria di ingresso nelle convenzioni operistiche
dell’epoca) o «cabalette» oppure «legati».
Proprio questo aspetto luciferino fa sì che l’interazione «economica» tra
il Don ed il Commendatore non è assimilabile a quella di due giocatori di
pari livello ma a quella del primo rispetto al secondo giocatore in un «gioco
ad ultimatum»; viene, perciò, caratterizzata da dissonanze e da anticipazioni
cromatiche. Don Giovanni vuole tornare a quell’inferno da dove è venuto
– come dettoci sin dall’ouverture. Il Commendatore è uno strumento per
compiere questa marcia all’indietro, più efficace dei tentativi di seduzione
(tutti «in bianco», come esplicitato dai «diminuendi» che li chiudono). Pure
il Commendatore appartiene, come il Don, al mondo musicale della futura
opera nazionale tedesca (si pensi a Der Vampyr di Marschner) con ottave
quasi mai sperimentate prima di allora. Anch’egli è segnato dal destino sin
dal «do» con cui appare in scena ed è costretto al «gioco ad ultimatum» fin
dall’inizio dell’opera. Inoltre, il «gioco ad ultimatum» viene ripetuto – con
inversione dei ruoli (il Commendatore in quello del primo giocatore ed il
Don quello del secondo) – nella sequenza finale dell’opera. Sotto il profilo
musicale, il Don ed il Commendatore sono ambedue protesi, da «erodiani»,
verso quella che sarebbe diventata l’opera tedesca del XIX e del XX secolo.
Sulla scena soccombono proprio per eccesso di modernizzazione.
Gli altri personaggi vivono, invece, nel mondo musicale dell’opera
settecentesca «all’italiana» fatto di cavatine, arie, cabalette, duetti, terzetti,
concertati e di tutte le altre convenzioni di un’epoca che volgeva al tramonto
(anche se non se ne accorgevano). Regole ben definite che assicurano,
agli «zeloti», certezze – informazioni simmetriche e costi di transazione
contenuti. In questo mondo, il pay-off, pur se limitato, conviene a tutti, da
«utilitarismo delle regole» pacioccone. Si guardi, in particolare, a Don Ottavio,
un baritenorino, caricatura dei tenori (Mozart, come più tardi Richard
Strauss, non li ha mai amati) di Idomeneo, di Così e di Die Entführung.
164 Giuseppe Pennisi
Musicalmente, i due mondi, i due set di habits and rules, restano distinti e
distanti: si incontrano nel lungo finale primo. Con grande raffinatezza, sono
due mondi in «re»: re minore quello luciferino, ma modernizzatore (quindi
«erodiano»), del Don e del Commendatore; re maggiore quello perbenista
(e «zelota») di Don Ottavio e del resto della brigata (Leporello, Donna
Anna, Donna Elvira, Masetto, Zerlina e compagnia cantante).
Mozart non avverte laVerwandlung socio-politica (quindi, economica)
in atto negli anni in cui componeva Don Giovanni; gli è stata offerta l’occasione
almeno in due libretti potenzialmente rivoluzionari – Le nozze di
Figaro e La clemenza di Tito – ma si rifiuta di coglierlo; fa diventare il primo
una grande commedia umana ed il secondo un inno alla quality of
mercy. Sente forse inconsapevolmente, la Verwandlung nel teatro in musica:
la rappresenta in pieno nel Don Giovanni, tenendo separati il mondo
«vecchio» degli «zeloti» dal mondo «nuovo» degli «erodiani». C’è un’analogia
con il capolavoro estremo di Richard Wagner, Parsifal: il mondo
diatonico del Graal contrapposto a quello cromatico del castello di Klingsor
con Kundry in funzione di cerniera tra i due. È anche esso un lavoro teso
verso l’innovazione, verso la stessa dodecafonia, ma intriso dei ricordi pure
della polifonia di Palestrina. A differenza di Mozart, Wagner aveva piena
contezza della Verwandlung socio-politica (e forse pure di quella economica);
era un «super erodiano».
Dopo avere scavato tanto in Don Giovanni, cosa presentano Wolfgang
e Lorenzo nel loro ultimo lavoro concepito insieme, quel Così fan tutte
presentato al Burgtheater di Vienna il 26 gennaio 1790 (quando il compositore
era già molto malato), poco considerata dal librettista (che neanche
la menzionò nella propria autobiografia), detestata per tutto l’Ottocento in
quanto considerata, secondo Edward Dent, «di insopportabile stupidità»,
adattata a commedia spagnola (in tedesco) a Dresda all’inizio del Novecento
nel tentativo di riproporla e diventata, negli ultimi sessanta anni, uno dei
lavori di Mozart più rappresentati? Richiede solo sei cantanti, un piccolo
coro, un organico orchestrale modesto. È stata ambientata nei contesti più
diversi: da terme romane prima dell’eruzione del Vesuvio a Pompei (Roma,
teatro dell’Opera), a giardini cinesi e persiani (due differenti edizioni a Aixen-
Provence), dalla contemporaneità stile Armani (vari teatri); la Francia
prerivoluzionaria del Marchese de Sade (Bologna); graziosa oleografia partenopea,
come vista da turisti (Metropolitan); e via discorrendo. Funziona
quasi sempre anche se a mio avviso la produzione di Così fan tutte ovvero
La scuola degli amanti di Wolfang Amadeus Mozart più affascinante è
quella che nel 2005 ha segnato il ritorno alla regia lirica, dopo dieci anni,
di Patrice Chéreau, in compagnia di Richard Peduzzi (suo scenografo abi-
L’economia politica di Wolfgang Amadeus Mozart 165
tuale ed allora direttore dell’Istituto Francese di Cultura a villa Medici di
Roma), di Daniel Harding e di in un cast di giovani, in cui l’allora sessantaquattrenne
Ruggero Raimondi affrontava il ruolo di Don Alfonso da lui
raramente interpretato in oltre quarant’anni di carriera, l’altra «anziana»
Barbara Bonney interpretava quello della servetta quindicenne Despina. Lo
spettacolo ha debuttato a Aix-en-Provence nel 2005, nel 2006-2007 si è
visto a Parigi, Vienna, New York, Baden-Baden ed altre città.
L’intreccio è noto. Su invito del loro precettore, per l’appunto Don Alfonso,
due bei giovani napoletani fidanzati a due belle sorelle ferraresi, le
mettono alla prova travestendosi da ricchi albanesi e corteggiando l’uno la
ragazza dell’altro; hanno successo (tanto più che Despina invita le fanciulle
a «fare all’amore come assassine») sino ad un doppio matrimonio: ciascuno
con la fidanzata iniziale che ha tradito e di cui sa di essere stato tradito con
il suo migliore amico. La principale difficoltà di realizzazione (sia scenica
sia musicale) di Così consiste nel fatto che mentre la prima parte è brillante
ed ironica, la seconda è un’amara riflessione in cui ciascuno è, al tempo
stesso, infedele e geloso. L’idea di fondo di Chéreau è quella di porre l’accento
sul sottile ricamo di finzioni sin dalla prima battuta. L’intreccio si
svolge sul palcoscenico nudo di un teatro – è in effetti, quello del teatro
Valle a Roma – quasi a voler accennare al teatro-nel-teatro (finzione per
eccellenza), senza, però, svelarlo a pieno. Alla «scuola degli amanti» si apprende
che l’amore è libertà, ma che proprio in quanto libertà non può non
comportare dolore ed inganno. Chéreau ha chiesto, ed ottenuto, otto settimane
di prove (un record per l’opera lirica) prima del debutto e ha ritoccato
ancora lo spettacolo tra una replica e l’altra. Harding ha assecondato
questa chiave di lettura guidando la Mahler Chamber Orchestra in modo
che si vada con grande dolcezza (e senza quasi avvertirne il passaggio) dai
recitativi, alle arie, ai duetti, ai terzetti, ai quartetti ed ai concertati.
Ma andiamo alla «teoria dei giochi» quale emerge dal lavoro (e dall’appassionante
lettura di Chéreau-Harding). C’è, come in Le nozze di Figaro,
asimmetria: Don Alfonso e Despina «sanno» più delle due coppie e sono,
quindi, in grado di condurre il gioco. Il punto centrale, però, è che il «gioco»
di ciascun componente del quartetto delle due coppie è multiplo: su un
tavolo giocano la «reputazione» (di essere fedeli al fidanzato/a) su un altro
l’«abilità» (di sedurre/essere sedotti dal fidanzato/a del miglior amico/a).
L’esito: un equilibrio dinamico alla Nash, quindi sempre instabile. Come
quello del complesso finale – oltre venti minuti, articolati in varie sezioni
(un allegro assai di apertura, un vivace, un andante, un quartetto larghetto,
un nuovo allegro ed un vivace sestetto). L’epistolario ci dice poco sull’effettiva
comprensione da parte dei due autori di ciò che nascondesse il
166 Giuseppe Pennisi
«dramma giocoso», scritto e composto guardando al botteghino. Da Ponte
era molto attivo alla ricerca di donne, ai tavoli da gioco d’azzardo e a sfuggire
i creditori. Mozart era in bolletta, con una famiglia da mantenere, e già
sofferente.
Conclusione
Wolfgang Amadeus Mozart non era certo un economista e non ha lasciato
un manuale di economia politica. In questo articolo, mi sono proposto
di dimostrare come il vasto epistolario e le sue opere più rappresentative
per il teatro in musica, nonché alcune scelte di vita del tutto inconsuete
per chi in quell’epoca era un musicista, mostrano nella famiglia Mozart e
nel compositore una buona dimestichezza con concetti non banali di economia
politica: dalla formazione dei prezzi, all’inflazione, alla necessità di
regole perché il fragile strumento del mercato funzioni, fino alla teoria dei
«giochi ad ultimatum» ed a più livelli. Molto interessante in tutto l’epistolario
è l’enfasi sui beni immateriali e sul capitale umano – tema fondamentale
del pensiero economico degli ultimi settanta anni ma poco considerato
in Italia sino agli anni Sessanta del Novecento, quando «La Rivista di Politica
Economica» rispondeva con un declino alle proposte di saggi su questi
argomenti in quanto «troppo innovativi e non chiaramente economici».
Alla fine del Settecento a Vienna si cominciava ad annusare quel gran
rigoglio di pensiero, pure economico, che avrebbe caratterizzato la vita
intellettuale della città dei decenni successivi. E alcuni musicisti, Wolfgang
Amadeus Mozart ed i suoi corrispondenti epistolari, ne erano precursori.
Giuseppe Pennisi
L’attenta lettura dell’epistolario è stata fatta da mia moglie Patrice Poupon. Ho avuto utili commenti
dall’Ing. Franco Debenedetti. Errori ed omissioni sono mia sola responsabilità.
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