l’affondo L’intesa ha seppellito
l’era Maastricht
DI GIUSEPPE PENNISI
« P eace for Our Times». Con questa frase il Premier britannico Neville Chamberlain commentò, il 30 settembre 1938, l’accordo appena raggiunto a Monaco, grazie alla mediazione di Benito Mussolini e con la Germania sui confini del Terzo Reich. L’accordo fu di breve durata. E la stessa frase con cui il primo ministro britannico aprì il proprio discorso alla Camera dei Comuni conteneva un punta d’ironia.
«Peace for Our Times» è ciò che si può dire dell’intesa raggiunta la mattina del 28 giugno al Consiglio Europeo. È un’intesa a cui occorre ancora dare contenuti puntuali, come le modalità degli interventi dei Fondi salva-Stati (e forse anche della Banca centrale europea) per calmierare gli spread , le soglie e i tetti previsti, l’esigenza o meno di politiche di stabilizzazione e crescita sottostanti gli interventi, il sistema di monitoraggio. La messa a punto è in corso in questi giorni e la sua formalizzazione è stata rinviata alla riunione dei ministri dell’Economia e delle Finanze del 9 luglio. Il Diavolo si nasconde nei dettagli. Tanto più che l’intesa è stata raggiunta in un clima di diffidenza.
Tuttavia, già da adesso è chiaro che ove non si fosse raggiunto un’intesa, l’area dell’euro sarebbe finita nel caos; sarebbe rimasta in esistenza una moneta unica per Germania, Austria, Finlandia, Slovenia , Olanda, Lussemburgo e forse Francia, mentre il resto della zona sarebbe stato travolto da insolvenze e da possibili uscite dall’euro per tornare a svalutazioni competitive. Secondo stime, ancora inedite, di William Cline del Peterson Institute for International Economics, il fabbisogno finanziario complessivo di Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e Italia assomma ora a 1.250 miliardi di euro e avrebbe minacciato di crescere velocemente senza un meccanismo per calmierare gli
spread .
Deve, però, essere anche chiaro a tutti che l’Eurozona quale definita con il Trattato di Maastricht (firmato in un’atmosfera di reciproca fiducia) è stata così profondamente modificata da non esistere più. Pochi, pure tra gli esperti, hanno metabolizzato questo punto. Il Trattato di Maastricht e quelli ad esso successivi vietano interventi come quelli alla base dell’intesa del 28 giugno, e non per un capriccio, ma per un’esigenza precisa: una politica unica della moneta (in mano alla Bce) e politiche di bilancio entro i parametri concordati dovrebbero non richiedere interventi di salvataggio o di calmiere se tutti operano lealmente secondo le regole del gioco.
Così pare non essere stato.
Il sistema che sta emergendo è analogo a quello detto «di Bretton Woods» che ha retto per 29 anni. Gli spread hanno il ruolo che avevano le oscillazioni 'moderate' dal Fondo monetario internazionale. Gli interventi dei salva-Stati quelli del Fmi. L’euro-Berlino (l’àncora rispetto ai cui titoli si misurano gli spread e si cercherà di calmierarli) quello del dollaro Usa. Tuttavia, il regime «di Bretton Woods» operava in un contesto di controlli valutari e il consiglio d’amministrazioni del Fmi (che si riunisce tre volte la settimana) gestiva collegialmente i tassi di cambio decidendo su svalutazioni e rivalutazioni. All’interno di un’unione monetaria non sono possibili né controlli valutari né svalutazioni o rivalutazioni. Se, però, divergono produttività e competitività si verificano 'svalutazioni fiscali' o 'rivalutazioni fiscali' interne dei livelli di potere d’acquisto. Secondo la Commissione Europea, l’Italia ha subito dal 1999 una 'svalutazione fiscale' del 30% . L’intesa del 28 giugno, questo è il suo limite maggiore, non fa nulla per curarla.
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Un’unica politica monetaria e limiti ai bilanci pubblici non hanno evitato il bisogno di salvataggi Ora si va verso una nuova Bretton Woods
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