sabato 11 febbraio 2012

Perché la Grecia non può permettersi di fallire in Avvenire 12 febbraio

Perché la Grecia non può permettersi di fallire


DI GIUSEPPE PENNISI

C on lo stesso piglio con cui Filumena Martura¬no dice, nella commedia di Edoardo De Filip¬po, a Don Mimì Soriano «i figli non se compra¬no » , la Repubblica Ellenica non può fallire perché «gli Stati non possono fare fallimento». Al più possono per¬dere pezzi, come avvenne alla Francia che nel Seicen¬to diede ad uno dei suoi maggiori creditori – i Savoia – l’espansione del Ducato sino al Piemonte (dove ven¬ne costruita la nuova capitale, Torino, al posto di Cham¬bery) e successivamente il Regno di Sardegna. Senza dubbio, le banche creditrici di Atene non vogliono in cambio del rimborso dei loro prestiti centinaia di et¬tari nel Peloponneso o le banlieues di Atene e Salo¬nicco.

La possibilità di 'fallimenti' di Stati sovrani – di pro¬cedure che salvaguardino entro certi limiti sia credi¬tori sia debitori e consentano di ripartire su un sentiero di sviluppo – è stata esaminata a fondo in occasione della crisi debitoria dell’America Latina nel 1987-90 quando fu il Messico a chiedere che qualcosa del ge¬nere le venisse applicato. Allora , si concluse (in am¬bito Onu, Banca mondiale, Fondo monetario, Ocse, Club di Londra, Club di Parigi) che la strada non sa¬rebbe stata percorribile in mancanza di regole, di un tribunale dove depositare le carte, di una giurisdizio¬ne internazionale e via discorrendo. Due anni fa la possibilità di 'fallimenti' di Stati semi¬sovrani nell’Ue (i 17 in cui la sovranità monetaria è sta¬ta trasferita alla Bce ed all’Eurogruppo) è stata solle¬vata dall’ex presidente della Banca nazionale polacca (ed ex primo ministro) Leszek Balcerowicz in un

pamphlet dal titolo accattivante tradotto in italiano dall’Istituto Bruno Leoni. Una lettura attenta mostra che il 'fallimento' proposto nel titolo altro non è che una vasta gamma di ristrutturazioni coordinate.

Il nodo si è posto in Federazioni come gli Usa, anche a ragione delle pesanti insolvenze di alcuni Stati del-l’Unione. All’inizio del 2012, uno studio di Anne Gel¬pen pubblicato sul Yale Law Journal nega che negli Stati Uniti esistano regole per il «coordinamento di ob¬blighi contrattuali» (ossia di procedure fallimentari) per debiti 'semi-sovrani' (come quelli degli Stati del¬l’Unione) e sottolinea che ove ci fossero, «non sareb-bero la strada migliore per riabilitare gli Stati coinvol¬ti e permettere loro di avere accesso al mercato del credito». Tali regole esistono, a livello dei singoli Stati, per enti locali: negli anni ’70, il banchiere di origine au¬striaca Felix Rohatyn ebbe poteri di commissario per ristrutturare il debito di New York City (come riuscì a fare) o avviare procedure di chiusura dei servizi non essenziali e vendita dei beni del comune.

Sempre in un contesto federale (da cui l’Ue è lontana) l’autorevole Stanford Law School ha pubblicato lo scor¬so ottobre un libro di George G. Triantis (uno dei mag¬giori esperti giuridici in materia) in cui si spezza una lancia contro un’eventuale istituzione di diritto falli¬mentare federale (per gli Usa): la competenza assolu-ta dei singoli Stati dell’Unione è il deterrente migliore contro la speculazione di chi presta a rischio speran¬do in una rete di sicurezza federale.

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l’analisi

Un conto è un percorso di ristrutturazione controllata del debito, un altro è la procedura d’insolvenza, che favorirebbe la speculazione

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