Il libro dei sette sigilli
La Germania nazista
tra musica e politica
di Giuseppe Pennisi
La musica classificata come “degenerata” in epoca nazista è tornata ad essere eseguita. Come quella di Franz Schmidt ascoltata nei giorni scorsi alla Sala Santa Cecilia di Roma. Mentre quella italiana dello stesso periodo sta ricominciando solo ora a tornare sulle scene.
Nella foto: Franz Schmidt
La sera del 15 giugno 1938 la Vienna nazista tremò. Ascoltando il portentoso “Hallelujah!” che veniva dalla Sala d’Oro del Musikverein dove era in corso un concerto per i cinquant’anni dalla fondazione dell’Associazione degli Amici della Musica. Con l’ “Hallelujah!” terminava, dopo due ore senza intervallo, Das Buch mit sieben Siegeln (Il libro dei sette sigilli, dall’Apocalisse) di Franz Schmidt che si è ascoltato nelle settimane scorse alla Sala Santa Cecilia del Parco della Musica a Roma. Una vera sorpresa, raramente eseguita in Italia, e pure nel mondo di cultura germanica. Par di ricordare che nella Penisola si è ascoltata in Vaticano, alla presenza di Pio XII negli anni Cinquanta, e successivamente nel 2003 per inaugurare il Festival di Musica Sacra Anima Mundi a Pisa. Al di là degli aspetti musicali, l’oratorio (di cui esistono due pregevoli edizioni discografiche) svela alcuni lati poco conosciuti nei rapporti tra musica e politica negli anni Trenta (e nei loro riflessi ancora oggi).
Chi scrive ha dedicato al tema un breve saggio nell’ultimo numero de La Nuova Antologia senza, però, trattare il punto della «minoranza silenziosa ma che morde» di cui l’oratorio di Schmidt è un esempio importante. L’11 febbraio, in una Roma paralizzata dalla neve e con il divieto di circolare senza catene o pneumatici all’uopo, non c’erano più di mille persone nella Sala Santa Cecilia (che ne contiene 2.832) ma ci sono stati quindici minuti di applausi- segno che il lavoro affascina ancora.
Torniamo alle circostanze della sua prima esecuzione. Erano passate poche settimane dal referendum-farsa del 10 aprile con cui si era consumata l’annessione dell’Austria al Reich; con l’oratorio, Schmidt volle dare un carattere ecumenico all’appello all’Alto contro le dittature, un chiaro e forte “non ci sto” a nome di tutta la cristianità. Lo diedero anche i soci del Musikverein. Il musicista, cattolico praticante che aveva da poco perso la figlia e la cui moglie malata sarebbe stata uccisa nel programma nazista di eugenetica, utilizzava il testo dell’Apocalisse di San Giovanni nella traduzione di Martin Lutero. Pochi mesi prima, Schmidt, rettore del Accademia Musicale di Vienna, aveva raccomandato (lo racconta Micheal Steinberg in The Symphony, Oxford University Press 1995) ad un gruppo di suoi allievi di chiare tendenze naziste di studiare le Variazioni su un tema ebraico di Israel Brandman; i ragazzi restarono stupefatti e chiesero (con garbo, ma con fermezza) un’altra esercitazione. Nella Vienna degli anni Venti e Trenta gran parte dei suoi amici erano ebrei. Oskar Adler, forse il suo collega più caro, racconta come venne aiutato da Schmidt a scappare poche settimane prima del debutto del Das Buch mit sieben Siegeln e come altri ebrei riuscirono a passare il confine grazie all’intervento del compositore che godeva di grande autorevolezza grazie al suo ruolo istituzionale.
Perché i nazisti, allora al Governo a Vienna, non solo non bloccarono l’esecuzione di Das Buch mit sieben Siegeln ma anzi offrirono a Schmidt di comporre una cantata sulla Resurrezione Tedesca,, lavoro che mai completò e che, dopo la sua morte l’11 febbraio del 1939, venne terminato da Robert Wagner? Schmidt pur se ancora relativamente giovane (era nato il 22 dicembre 1874 in quella che allora era la parte ungherese della Duplice Monarchia), ma severamente ammalato di cuore, riversò le sue energie in un quintetto piuttosto che nella Cantata che sarebbe stata lautamente compensata ma anche strumentalizzata come adesione al Reich.
In breve, i nazisti non lo infastidirono perché esponente di spicco del mondo intellettuale cristiano. Tentarono senza esito di stabilire una coesistenza pacifica. Come avevano fatto con Wilhelm Furtwängler a Berlino (i dettagli sono descritti in L’Orchestra del Reich di Misha Aster, Zecchini Editore 2011) o con Richard Strauss a Monaco (si veda La Serpe al Seno di Mario Bortolotto, Adelphi 2007). Furtwängler fu abilissimo a non compromettere la “sua” orchestra (e a porre al riparo strumentisti ebrei) e a tenere rapporti cordiali con i “potere costituiti”.
Al Nationaltheater di Monaco, Strauss, presidente della Federazione dei Musicisti Tedeschi, a 78 anni, il 28 ottobre del 1942, con la sua ultima opera (anzi una “conversazione in musica”) Capriccio, proclamava al mondo che qualsiasi scelta avrebbe dovuto avere come stella polare la libertà. Tale minoranza intellettuale silenziosa era un tallone d’Achille per un regime autoritario ma debole e corrotto (Hans Adler, diventato vicedirettore del Bilancio dell’Amministrazione Eisenhower ricorda come, con il denaro, sua madre riuscì a far rilasciare cugini internati a Auschwitz). I nazisti erano consapevoli di non potere avere l’appoggio solo del “compositore di Corte”, Carl Orff, il cui lavoro più noto (Carmina Burana) viene oggi suonato spesso ai Festival dell’Unità, dimenticando che è stato scritto per un’adunata dei giovani hitleriani.
L’intreccio tra musica e politica era complesso nella Germania nazista, così come nell’Italia fascista (lo documenta Stefano Biguzzi in L’orchestra del Duce Utet 2003). Quasi tutta la musica classificata come “degenerata” in epoca nazista è tornata nelle sale e nei teatri. Quella italiana dello stesso periodo sta ricominciando solo ora ad essere eseguita grazie ad un programma dell’Orchestra Sinfonica di Roma sostenuto dalla Fondazione Roma.
Torniamo a Das Buch mit sieben Siegeln. Su Schmidt, autore di un paio di opere (di cui una molto rappresentata all’inizio del secolo scorso) e alcune sinfonie, è gravata per anni la maledizione di aver avuto la commissione (mai completata) per la cantata sulla Resurrezione Tedesca. Inoltre, pur se aveva dimestichezza con musica atonale e dodecafonica (era grande amico di Schoenberg e Berg), per la composizione scelse un linguaggio basato su Bruckner, un lessico musicale immaginifico, nobile, profondo e soprattutto di grande impatto emotivo. Ma considerato “datato” negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale. Appartiene alla musica “obliata” di un periodo che si vuole accantonare come se non ci fosse mai stato.
L’esecuzione richiede un enorme organico orchestrale e corale, un organista solista e tra le voci un tenore dalla tessitura altissima per dar corpo a San Giovanni (che è in scena per tutto il tempo e canta quasi sempre). È un lavoro cupo, specialmente nella prima parte, quando i quattro cavalieri dell’Apocalisse sembrano presagire la seconda guerra mondiale; Schmidt aveva vissuto e sofferto la prima. L’Accademia ha curato una produzione di grande livello: la bacchetta di Leopold Hager; Herbert Lippert (uno strepitoso Giovanni), Günther Groissböck (La voce di Dio), e Maureen Mc Kay, Stephanie Atanasov , Timothy Oliver Jacques-Greg Belobo in vari ruoli; all’organo Michael Schönheit. Speriamo ne esca un Cd.
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