A Lastra a Signa (Fi), Villa Bellosguardo
Scampagnata a Casa Caruso
Giuseppe Pennisi
Se vivete in Italia Centrale perché non pensare a una scampagnata a Casa Caruso?
Sabato 25 febbraio (anniversario della nascita del tenore avvenuta a Napoli nel 1873) ha riaperto al pubblico Villa Bellosguardo di Lastra a Signa, presso Firenze, l’unico museo dedicato in Italia al tenore.
Caruso acquistò la dimora cinquecentesca per vivervi la storia d’amore con la cantante Ada Giachetti.
Villa Bellosguardo rimase il “buen retiro” del tenore (che viveva però prevalentemente negli Stati Uniti) fino alla morte.
L’imponente complesso è formato da due edifici principali, collegati fra loro da un suggestivo giardino all’italiana e da terreni agricoli e boschivi. Al piano nobile della Villa, che ospita anche la camera da letto originale, trovano ora degna collocazione migliaia di cimeli donati al museo dal Centro studi carusiani di Milano, fondato da Luciano Pituello, da sempre fervente ammiratore dell’artista, di cui ha collezionato ogni genere di testimonianze: oggetti quotidiani, foto, cartoline, disegni del cantante, che era anche ottimo e pungente caricaturista, premi ricevuti, costumi di scena, programmi di sala, spartiti. E naturalmente dischi: Caruso fu il primo a credere nell’importanza del nuovo mezzo e a incidere interpretazioni liriche e canzoni che lo consacrarono primo autentico divo dei due mondi.
Oltre a presentare una collezione di grammofoni d’epoca, il percorso espositivo è integrato da due sale che offrono un’inedita esperienza emotiva e percettiva: grazie a sofisticate tecnologie, i visitatori possono infatti attivare l’ascolto individuale della voce.
info: http://www.comune.lastra-a-signa.fi.it/
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mercoledì 29 febbraio 2012
GIOACCHINO ROSSINI/ Dal Barbiere di Siviglia a Google: la storia di un patriota bisestile da Il Sussidiario di oggi
GIOACCHINO ROSSINI/ Dal Barbiere di Siviglia a Google: la storia di un patriota bisestile
Giuseppe Pennisi
mercoledì 29 febbraio 2012
Immagine d'archivio (Infophoto)
Approfondisci
RITRATTI/ Gustav Leonhardt, il gentiluomo barocco al servizio di J.S. Bach
BERNARDINI SOSTIENE CHE/ Il perdono divino nel Requiem di Mozart (anche per Celentano)
GIOACCHINO ROSSINI, DAL BARBIERE DI SIVIGLIA A GOOGLE: STORIA DI UN PATRIOTA BISESTILE - Compirebbe 220 anni oggi il compositore pesarese Gioacchino Rossini. Rossini era bisestile (nato a Pesaro il 29 gennaio 1792). Quindi la sua nascita viene commemorata ogni quattro anni. Noi de IlSussidiario.net non vogliamo però, come gli altri, ricordarlo solo per il suo apporto alla musica europea e mondiale, per un lato poco conosciuta, ma per il suo contributo (pur vivendo a Parigi per gran parte della sua vita) al movimento di unità nazionale. Lo ha messo in luce il Rossini Opera Festival (Rof), l’unico festival musicale monografico italiano tale da essere diventato (come quello wagneriano di Bayreuth).
Rossini nacque a Pesaro, ma ci visse pochissimo (la sua residenza più lunga e preferita è stata a Passy, sobborgo elegante di Parigi) e non espresse neanche il desiderio di tornarci da morto (pur se, non avendo altri eredi, legò alla città il suo cospicuo patrimonio): dopo avere soggiornato per alcuni lustri nel cimitero di Père Lachaîse a Montmartre a Parigi, i suoi resti sono stati inumati, più per decisione del Governo italiano dell’epoca che per suo volere, a Santa Croce a Firenze nel 1887.
Per i musicologi, il risultato principale del Festival è la riscoperta delle “opere serie” di Rossini in gran misura ignorate o manipolate per tenere conto dei nuovi gusti (romanticismo, verismo) del pubblico dalla seconda metà dell’Ottocento alla seconda metà del secolo scorso. Per chi si interessa anche agli aspetti sociali e politici nel cui contesto questa o quell’opera vengono concepite, c’è una riscoperta almeno ugualmente interessante: quella di un Rossini che, durante i prodromi del movimento di unità nazionale nel corso del Risorgimento pur scegliendo di vivere nella capitale francese, si è sempre sentito fortemente italiano e ha partecipato, nel modo in cui poteva, al movimento di unità nazionale, il Risorgimento.
Lo avevano già notato suoi biografi stranieri come Stendhal (1824) oppure scrittori italiani come Bacchelli (1968) oppure ancora studi di musicologi come Carli Balolla (2009). Lo mostrano, però, in modo eloquente diverse sue opere - da alcune tra le più note (e rimaste nei cartelloni anche nei lunghi decenni in cui, con l’eccezione di qualche titolo Rossini sembrava “passato di moda”), ad alcune virtualmente ignote come “Adelaide di Borgogna”, titolo quasi mai rappresentato in forma scenica dal 1817 – una sola edizione per solamente due sere nel 1984 a Martina Franca, peraltro di un’edizione da non considerarsi critica e che ha inaugurato il 10 agosto, il Rof 2011.
È un lato che merita di essere sottolineato perché nella vulgata corrente, Rossini viene considerato un “bon vivant” interessato alle belle donne e alla buona cucina, timoroso dei moti di piazza (addirittura terrorizzato da quelli bolognesi del 1848 quando vietò alla servitù di avvicinarsi alle finestre chiuse per timore di contagio da parte dei “rivoluzionari” i quali lo contraccambiavano con gli epiteti più coloriti) nonché tanto astuto di poter mettersi in pensione (e con quale trattamento!) ad appena 37 anni (dopo avere, però, composto sino ad allora gran parte della musica a noi rimasta e tutta quella per il teatro).
Non solo, però, nel suo salon parigino era in contatto frequente con con coloro che, in veste ufficiale, lavoravano per l’unità d’Italia (come Costantino Nigra) o con coloro che fuoriusciti erano “ospiti fissi” del suo salon a Passy, un vero e proprio Gotha dell’intellighentsia europea a cui mancò (come nota Carli Balolla) solo Wagner ma molte sue opere trasudano di amor di Patria – da l’”Italiana in Algeri” a “Adelaide di Borgogna”, a “Tancredi” a soprattutto “Guillaume Tell”.
Giuseppe Pennisi
mercoledì 29 febbraio 2012
Immagine d'archivio (Infophoto)
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RITRATTI/ Gustav Leonhardt, il gentiluomo barocco al servizio di J.S. Bach
BERNARDINI SOSTIENE CHE/ Il perdono divino nel Requiem di Mozart (anche per Celentano)
GIOACCHINO ROSSINI, DAL BARBIERE DI SIVIGLIA A GOOGLE: STORIA DI UN PATRIOTA BISESTILE - Compirebbe 220 anni oggi il compositore pesarese Gioacchino Rossini. Rossini era bisestile (nato a Pesaro il 29 gennaio 1792). Quindi la sua nascita viene commemorata ogni quattro anni. Noi de IlSussidiario.net non vogliamo però, come gli altri, ricordarlo solo per il suo apporto alla musica europea e mondiale, per un lato poco conosciuta, ma per il suo contributo (pur vivendo a Parigi per gran parte della sua vita) al movimento di unità nazionale. Lo ha messo in luce il Rossini Opera Festival (Rof), l’unico festival musicale monografico italiano tale da essere diventato (come quello wagneriano di Bayreuth).
Rossini nacque a Pesaro, ma ci visse pochissimo (la sua residenza più lunga e preferita è stata a Passy, sobborgo elegante di Parigi) e non espresse neanche il desiderio di tornarci da morto (pur se, non avendo altri eredi, legò alla città il suo cospicuo patrimonio): dopo avere soggiornato per alcuni lustri nel cimitero di Père Lachaîse a Montmartre a Parigi, i suoi resti sono stati inumati, più per decisione del Governo italiano dell’epoca che per suo volere, a Santa Croce a Firenze nel 1887.
Per i musicologi, il risultato principale del Festival è la riscoperta delle “opere serie” di Rossini in gran misura ignorate o manipolate per tenere conto dei nuovi gusti (romanticismo, verismo) del pubblico dalla seconda metà dell’Ottocento alla seconda metà del secolo scorso. Per chi si interessa anche agli aspetti sociali e politici nel cui contesto questa o quell’opera vengono concepite, c’è una riscoperta almeno ugualmente interessante: quella di un Rossini che, durante i prodromi del movimento di unità nazionale nel corso del Risorgimento pur scegliendo di vivere nella capitale francese, si è sempre sentito fortemente italiano e ha partecipato, nel modo in cui poteva, al movimento di unità nazionale, il Risorgimento.
Lo avevano già notato suoi biografi stranieri come Stendhal (1824) oppure scrittori italiani come Bacchelli (1968) oppure ancora studi di musicologi come Carli Balolla (2009). Lo mostrano, però, in modo eloquente diverse sue opere - da alcune tra le più note (e rimaste nei cartelloni anche nei lunghi decenni in cui, con l’eccezione di qualche titolo Rossini sembrava “passato di moda”), ad alcune virtualmente ignote come “Adelaide di Borgogna”, titolo quasi mai rappresentato in forma scenica dal 1817 – una sola edizione per solamente due sere nel 1984 a Martina Franca, peraltro di un’edizione da non considerarsi critica e che ha inaugurato il 10 agosto, il Rof 2011.
È un lato che merita di essere sottolineato perché nella vulgata corrente, Rossini viene considerato un “bon vivant” interessato alle belle donne e alla buona cucina, timoroso dei moti di piazza (addirittura terrorizzato da quelli bolognesi del 1848 quando vietò alla servitù di avvicinarsi alle finestre chiuse per timore di contagio da parte dei “rivoluzionari” i quali lo contraccambiavano con gli epiteti più coloriti) nonché tanto astuto di poter mettersi in pensione (e con quale trattamento!) ad appena 37 anni (dopo avere, però, composto sino ad allora gran parte della musica a noi rimasta e tutta quella per il teatro).
Non solo, però, nel suo salon parigino era in contatto frequente con con coloro che, in veste ufficiale, lavoravano per l’unità d’Italia (come Costantino Nigra) o con coloro che fuoriusciti erano “ospiti fissi” del suo salon a Passy, un vero e proprio Gotha dell’intellighentsia europea a cui mancò (come nota Carli Balolla) solo Wagner ma molte sue opere trasudano di amor di Patria – da l’”Italiana in Algeri” a “Adelaide di Borgogna”, a “Tancredi” a soprattutto “Guillaume Tell”.
martedì 28 febbraio 2012
Grecia, Messico e Corea: le "bombe" che fanno vacillare l’Europa in Il Sussidiario del 29 febbraio
Grecia, Messico e Corea: le "bombe" che fanno vacillare l’Europa
Giuseppe Pennisi
mercoledì 29 febbraio 2012
Foto Imagoeconomica
Approfondisci
FINANZA & POLITICA/ Mediobanca e le sfide aperte dal "caso Fonsai", di G. Credit
SPREAD/ Arrigo: vi spiego il "grande abbaglio" di Berlusconi e Monti
vai allo speciale Crisi Grecia
vai allo speciale Euro e Italia: quale destino?
“Non puoi più essere quello che eri”. Questo verso di Charles Ramuz in quella “Histoire du soldat” scritta durante la Prima guerra mondiale e messa in musica da Igor Stravinskij, dovrebbe essere lo slogan dell’eurozona, se non della stessa Unione europea, a una settimana dal secondo accordo per “salvare” (non si comprende bene da cosa e da chi) la Grecia. Nei primi giorni si è bevuto molto “Cremant”, il prosecco francese che si produce in Alsazia, Borgogna e nella regione di Bordeuax, ma non dello Champagne (bottiglie di “Veuve Clicquot” non sarebbero state in linea con ‘”austerity” di rigore). Adesso, però, è il momento di riflettere sulle implicazioni.
Il primo accordo - quello del 9 maggio 2009 - era un brutto colpo alla carta fondamentale dell’eurozona (il Trattato di Maastricht) che vieta salvataggi e, se fosse stata in vigore, avrebbe costretto il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia a chiudere i battenti, svendere gli immobili e portare dal rigattiere i mobili di ufficio e le macchine da scrivere. Dopo il secondo, l’eurozona è un “ferito a morte”, come il titolo del romanzo che rese celebre l’allora giovane Raffaele La Capria.
La ristrutturazione del debito della Grecia è la più vasta effettuata in epoca moderna in tempo di pace in uno Stato industriale a economia di mercato. I creditori subiranno mediamente una perdita del 75%, rispetto al 76,8% accusato con la ristrutturazione del debito dell’Argentina e all’89% con quella dell’Iraq. I calcoli sono stati inviati ai propri clienti da Gramercy, la finanziaria americana maggiormente coinvolta nella ristrutturazione del debito argentino. Quindi, un gruppo che se ne intende. Se la ristrutturazione va in porto (mancano alcuni tasselli, di cui stranamente la stampa, anche quella economica, non scrive), la Grecia potrà, d’un sol colpo, tagliare 106 miliardi di euro da uno stock totale di debito di 373 miliardi di debito.
Altri Stati dell’eurozona sono alla ricerca di un “taglia-debito” (Irlanda, Portogallo, Spagna e - perché no? - Italia). Visto il precedente della Grecia, cosa impedisce loro di chiedere un trattamento analogo? L’orgoglio nazionale, si potrebbe rispondere. Ma con l’orgoglio non si frena la piazza e non si cede, alle prime elezioni, il governo all’opposizione. Soprattutto, non si mangia.
Tanto più che i precedenti non mancano. Quando nel 1987 scoppiò la crisi del debito messicano, da Città del Messico si tentò, dapprima, un’impossibile procedura fallimentare (non esiste un diritto commerciale internazionale che regola i fallimenti di Stati) e, successivamente, una maxi-operazione di salvataggio, poiché l’insolvenza avrebbe travolto il fior fiore delle grandi banche americane. Altri Stati dell’America Latina, prima, e di altri continenti, poi, si accodarono sino a giungere a una soluzione articolata su flessibilità dei cambi - in certi casi ritorno all’inconvertibilità - e programmi di insolvenze pilotate con i “Brady Bonds” e altri strumenti. Dieci anni dopo, vicende analoghe ci furono con lo scoppio della bomba del debito della Corea del Sud - da locale la crisi divenne “asiatica”, con cambi fluttuanti e quant’altro.
In un’unione monetaria imperfetta e traballante come quella europea, ciò vorrebbe dire intonare il “Requiem”, sempre che non si faccia ricorso a proposte astute, come quella di André Cabanne, di avere un sistema duale: monete nazionali per la transazioni interne e l’euro per quelle con il resto dell’eurozona e del mondo. In effetti, dell’unione monetaria tanto cara a Delors, Ciampi e altri resterebbe ben poco: un capitolo nei libri di storia economica.
L’alternativa consisterebbe nel fare un doppio salto mortale con capriola: correre all’unione politica (andando ben al di là del Fiscal Compact) e definire trasferimenti di lungo periodo dalle aree ad alto reddito a quelle in ritardo di sviluppo. Come in Italia si fa da sempre nei confronti del Mezzogiorno e in Francia (per la Corsica e l’Auvergne) in base e meccanismi democratici.
Con lingue, culture e secoli di storia differenti, è l’Europa pronta a farlo? C’è da dubitarne.
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Giuseppe Pennisi
mercoledì 29 febbraio 2012
Foto Imagoeconomica
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FINANZA & POLITICA/ Mediobanca e le sfide aperte dal "caso Fonsai", di G. Credit
SPREAD/ Arrigo: vi spiego il "grande abbaglio" di Berlusconi e Monti
vai allo speciale Crisi Grecia
vai allo speciale Euro e Italia: quale destino?
“Non puoi più essere quello che eri”. Questo verso di Charles Ramuz in quella “Histoire du soldat” scritta durante la Prima guerra mondiale e messa in musica da Igor Stravinskij, dovrebbe essere lo slogan dell’eurozona, se non della stessa Unione europea, a una settimana dal secondo accordo per “salvare” (non si comprende bene da cosa e da chi) la Grecia. Nei primi giorni si è bevuto molto “Cremant”, il prosecco francese che si produce in Alsazia, Borgogna e nella regione di Bordeuax, ma non dello Champagne (bottiglie di “Veuve Clicquot” non sarebbero state in linea con ‘”austerity” di rigore). Adesso, però, è il momento di riflettere sulle implicazioni.
Il primo accordo - quello del 9 maggio 2009 - era un brutto colpo alla carta fondamentale dell’eurozona (il Trattato di Maastricht) che vieta salvataggi e, se fosse stata in vigore, avrebbe costretto il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia a chiudere i battenti, svendere gli immobili e portare dal rigattiere i mobili di ufficio e le macchine da scrivere. Dopo il secondo, l’eurozona è un “ferito a morte”, come il titolo del romanzo che rese celebre l’allora giovane Raffaele La Capria.
La ristrutturazione del debito della Grecia è la più vasta effettuata in epoca moderna in tempo di pace in uno Stato industriale a economia di mercato. I creditori subiranno mediamente una perdita del 75%, rispetto al 76,8% accusato con la ristrutturazione del debito dell’Argentina e all’89% con quella dell’Iraq. I calcoli sono stati inviati ai propri clienti da Gramercy, la finanziaria americana maggiormente coinvolta nella ristrutturazione del debito argentino. Quindi, un gruppo che se ne intende. Se la ristrutturazione va in porto (mancano alcuni tasselli, di cui stranamente la stampa, anche quella economica, non scrive), la Grecia potrà, d’un sol colpo, tagliare 106 miliardi di euro da uno stock totale di debito di 373 miliardi di debito.
Altri Stati dell’eurozona sono alla ricerca di un “taglia-debito” (Irlanda, Portogallo, Spagna e - perché no? - Italia). Visto il precedente della Grecia, cosa impedisce loro di chiedere un trattamento analogo? L’orgoglio nazionale, si potrebbe rispondere. Ma con l’orgoglio non si frena la piazza e non si cede, alle prime elezioni, il governo all’opposizione. Soprattutto, non si mangia.
Tanto più che i precedenti non mancano. Quando nel 1987 scoppiò la crisi del debito messicano, da Città del Messico si tentò, dapprima, un’impossibile procedura fallimentare (non esiste un diritto commerciale internazionale che regola i fallimenti di Stati) e, successivamente, una maxi-operazione di salvataggio, poiché l’insolvenza avrebbe travolto il fior fiore delle grandi banche americane. Altri Stati dell’America Latina, prima, e di altri continenti, poi, si accodarono sino a giungere a una soluzione articolata su flessibilità dei cambi - in certi casi ritorno all’inconvertibilità - e programmi di insolvenze pilotate con i “Brady Bonds” e altri strumenti. Dieci anni dopo, vicende analoghe ci furono con lo scoppio della bomba del debito della Corea del Sud - da locale la crisi divenne “asiatica”, con cambi fluttuanti e quant’altro.
In un’unione monetaria imperfetta e traballante come quella europea, ciò vorrebbe dire intonare il “Requiem”, sempre che non si faccia ricorso a proposte astute, come quella di André Cabanne, di avere un sistema duale: monete nazionali per la transazioni interne e l’euro per quelle con il resto dell’eurozona e del mondo. In effetti, dell’unione monetaria tanto cara a Delors, Ciampi e altri resterebbe ben poco: un capitolo nei libri di storia economica.
L’alternativa consisterebbe nel fare un doppio salto mortale con capriola: correre all’unione politica (andando ben al di là del Fiscal Compact) e definire trasferimenti di lungo periodo dalle aree ad alto reddito a quelle in ritardo di sviluppo. Come in Italia si fa da sempre nei confronti del Mezzogiorno e in Francia (per la Corsica e l’Auvergne) in base e meccanismi democratici.
Con lingue, culture e secoli di storia differenti, è l’Europa pronta a farlo? C’è da dubitarne.
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domenica 26 febbraio 2012
Madama Butterfly, una vera "tragedia" giapponese in tre atti il Il Sussidiario 27 Febbraio
OPERA/ Madama Butterfly, una vera "tragedia" giapponese in tre atti
Giuseppe Pennisi
lunedì 27 febbraio 2012
Madama Butterfly
Approfondisci
OPERA/ A Roma quel Pierrot Lunaire che diede inizio alla musica contemporanea
OPERA/ Trenitalia in svendita ai russi, ma nella "cantata ferroviaria"
“Madama Butterfly” viene chiamata “tragedia giapponese in tre atti” di Luigi Illica e Giuseppe Giocosa basata sull’elegante racconto di John Luther Long, letto però attraverso gli occhiali del drammone nazional-popolare di David Belasco che Puccini vide probabilmente al “Lirico” di Milano (non a Londra, come dicono le leggende). Essere considerata una “tragedia”, per di più “giapponese” ed essere eseguita “in tre atti”, è una iattura che perseguita l’opera di Giacomo Puccini da quando, dopo il tonfo alla prima rappresentazione alla Scala nel febbraio 1904, cominciò, riveduta e corretta, il cammino trionfale nell’edizione presentata a Brescia (molto vicina all’assestamento definitivo nel 1906). In effetti, nella concezione modernissima di Puccini (molto più innovativa di quanto compreso da Belasco, Illica e Giacosa, nonché da tanti interpreti pure dei giorni nostri), sotto l’aspetto drammaturgico e musicale “Butterfly” è divisa in due parti molto distinte: la prima da commedia borghese (molto poco “giapponese”, cugina anzi delle commedie borghesi di inizio Novecento in quanto anche con brevi scene “buffe”), la seconda da dramma in cui dimensioni intimistiche acquistano valenza universale (tramite una progressiva scoperta della verità, in delicato equilibrio, quindi, tra Pirandello e Sofocle- quindi una vera e propria “tragedia”). Dal contrasto (soprattutto musicale) tra la prima e la seconda parte nasce la bellezza e la modernità di un’opera spesso invecchiata, negli allestimenti, dall’orientaleggiare “art nouveau” di maniera e dall’intervallo salottiero dopo il coro a bocche chiuse (magnifico nesso tra i due quadri della seconda parte). Il Teatro dell’Opera di Roma, dove è in scena fino al 28 febbraio (per poi andare al “Massimo” di Palermo che la coproduce, fa quindi benissimo a presentare il lavoro in due parti, come è d’altronde prassi nei maggiori teatri stranieri.
Sotto molti punti di vista, “Butterfly” è sorella di “Jenufa” di Léos Janaceck; tre settimane prima, nel gennaio 1904, quest’ultima vedeva la luce in un teatrino allestito per l’occasione nella sala da tè della piccola città di Brno e avrebbe dovuto attendere dodici anni prima di essere conosciuta come uno capolavori assoluti del Novecento. Il merito principale dell’esecuzione del Teatro dell’Opera di Roma è l’aver colto tutta la modernità di “Butterfly”. Spetta in primo luogo a Pinchas Steinberg che ha un orecchio fino per la musica contemporaneo: da eccellente concertatore, scava sia nelle notazioni orchestrali da commedia borghese della prima parte sia in quelle di dramma, al tempo stesso intimista e universale, della seconda; l’abile scrittura di Puccini, spezzettata (altro accostamento con “Jenufa”) e densa di citazioni orientali ed americane ma al tempo stesso fluida in un flusso orchestrale ininterrotto, viene esaltata a tutto tondo, mantenendo sempre un grande equilibrio con le voci. Pochi sanno infatti che in “Butterfly” ci sono circa 50 leit motive intrecciati in una maniera che ricorda più Debussy che Wagner.
La direzione musicale di Pinchas Steinberg sottolinea la modernità di una partitura tra le più innovative di Puccini, specialmente nell’intermezzo tra i due quadri della seconda parte, e tiene bene l’equilibrio tra buca e voci. Daniela Dessì è una veterana del ruolo e sfoggia grande abilità tecnica. Il giovane siberiano Alexey Dolgov è una vera scoperta per la qualità del timbro e del fraseggio. Ottimo il coro. Buoni gli altri.
La vera novità è che dopo trent'anni il Teatro dell' Opera di Roma ha mandato in pensione l'allestimento di "Madama Butterfly" di Giacomo Puccini curata da Aldo Trionfo, una messa in scena che enfatizzava gli aspetti più decisamente drammatici, puntando sull’azione e inserendo, soprattutto nella prima parte, elementi folkloristici. Una lettura molto “popolare” ma datata . La sostituisce con il quasi debutto ( nella lirica- ha in passato diretto due atti unici al Festival di Spoleto di cui sovrintendente) di un regista cinematografico e teatrale, Giorgio Ferrara. La regia (di Ferrara), le scene (di Gianni Quaranta, Premio Oscar per “Camera con Vista” di James Ivory) ed i costumi (di Maurizio Galante, della scuola di Capucci) prendono alla lettera la dicitura "tragedia giapponese” utilizzata da Luigi Illica e Giuseppe Giacosa per il libretto. Una scena articolata su quinte dorate ed un fondale marino, costumi ispirati a come nell’Europa e negli Usa del primo Novecento si immaginava l'abbigliamento nel Sol Levante, una grande cannoniera stilizzata per indicare il ritorno del protagonista, B.F. Pinkerton, a Nagasaki. In questo quadro tra il liberty ed il visionario, l'azione segue lo stile stilizzato del teatro giapponese; quindi ieratica, elegante ma quasi fredda rispetto alle convezioni del melodramma. Il pubblico di Roma ha gradito.
Giuseppe Pennisi
lunedì 27 febbraio 2012
Madama Butterfly
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OPERA/ A Roma quel Pierrot Lunaire che diede inizio alla musica contemporanea
OPERA/ Trenitalia in svendita ai russi, ma nella "cantata ferroviaria"
“Madama Butterfly” viene chiamata “tragedia giapponese in tre atti” di Luigi Illica e Giuseppe Giocosa basata sull’elegante racconto di John Luther Long, letto però attraverso gli occhiali del drammone nazional-popolare di David Belasco che Puccini vide probabilmente al “Lirico” di Milano (non a Londra, come dicono le leggende). Essere considerata una “tragedia”, per di più “giapponese” ed essere eseguita “in tre atti”, è una iattura che perseguita l’opera di Giacomo Puccini da quando, dopo il tonfo alla prima rappresentazione alla Scala nel febbraio 1904, cominciò, riveduta e corretta, il cammino trionfale nell’edizione presentata a Brescia (molto vicina all’assestamento definitivo nel 1906). In effetti, nella concezione modernissima di Puccini (molto più innovativa di quanto compreso da Belasco, Illica e Giacosa, nonché da tanti interpreti pure dei giorni nostri), sotto l’aspetto drammaturgico e musicale “Butterfly” è divisa in due parti molto distinte: la prima da commedia borghese (molto poco “giapponese”, cugina anzi delle commedie borghesi di inizio Novecento in quanto anche con brevi scene “buffe”), la seconda da dramma in cui dimensioni intimistiche acquistano valenza universale (tramite una progressiva scoperta della verità, in delicato equilibrio, quindi, tra Pirandello e Sofocle- quindi una vera e propria “tragedia”). Dal contrasto (soprattutto musicale) tra la prima e la seconda parte nasce la bellezza e la modernità di un’opera spesso invecchiata, negli allestimenti, dall’orientaleggiare “art nouveau” di maniera e dall’intervallo salottiero dopo il coro a bocche chiuse (magnifico nesso tra i due quadri della seconda parte). Il Teatro dell’Opera di Roma, dove è in scena fino al 28 febbraio (per poi andare al “Massimo” di Palermo che la coproduce, fa quindi benissimo a presentare il lavoro in due parti, come è d’altronde prassi nei maggiori teatri stranieri.
Sotto molti punti di vista, “Butterfly” è sorella di “Jenufa” di Léos Janaceck; tre settimane prima, nel gennaio 1904, quest’ultima vedeva la luce in un teatrino allestito per l’occasione nella sala da tè della piccola città di Brno e avrebbe dovuto attendere dodici anni prima di essere conosciuta come uno capolavori assoluti del Novecento. Il merito principale dell’esecuzione del Teatro dell’Opera di Roma è l’aver colto tutta la modernità di “Butterfly”. Spetta in primo luogo a Pinchas Steinberg che ha un orecchio fino per la musica contemporaneo: da eccellente concertatore, scava sia nelle notazioni orchestrali da commedia borghese della prima parte sia in quelle di dramma, al tempo stesso intimista e universale, della seconda; l’abile scrittura di Puccini, spezzettata (altro accostamento con “Jenufa”) e densa di citazioni orientali ed americane ma al tempo stesso fluida in un flusso orchestrale ininterrotto, viene esaltata a tutto tondo, mantenendo sempre un grande equilibrio con le voci. Pochi sanno infatti che in “Butterfly” ci sono circa 50 leit motive intrecciati in una maniera che ricorda più Debussy che Wagner.
La direzione musicale di Pinchas Steinberg sottolinea la modernità di una partitura tra le più innovative di Puccini, specialmente nell’intermezzo tra i due quadri della seconda parte, e tiene bene l’equilibrio tra buca e voci. Daniela Dessì è una veterana del ruolo e sfoggia grande abilità tecnica. Il giovane siberiano Alexey Dolgov è una vera scoperta per la qualità del timbro e del fraseggio. Ottimo il coro. Buoni gli altri.
La vera novità è che dopo trent'anni il Teatro dell' Opera di Roma ha mandato in pensione l'allestimento di "Madama Butterfly" di Giacomo Puccini curata da Aldo Trionfo, una messa in scena che enfatizzava gli aspetti più decisamente drammatici, puntando sull’azione e inserendo, soprattutto nella prima parte, elementi folkloristici. Una lettura molto “popolare” ma datata . La sostituisce con il quasi debutto ( nella lirica- ha in passato diretto due atti unici al Festival di Spoleto di cui sovrintendente) di un regista cinematografico e teatrale, Giorgio Ferrara. La regia (di Ferrara), le scene (di Gianni Quaranta, Premio Oscar per “Camera con Vista” di James Ivory) ed i costumi (di Maurizio Galante, della scuola di Capucci) prendono alla lettera la dicitura "tragedia giapponese” utilizzata da Luigi Illica e Giuseppe Giacosa per il libretto. Una scena articolata su quinte dorate ed un fondale marino, costumi ispirati a come nell’Europa e negli Usa del primo Novecento si immaginava l'abbigliamento nel Sol Levante, una grande cannoniera stilizzata per indicare il ritorno del protagonista, B.F. Pinkerton, a Nagasaki. In questo quadro tra il liberty ed il visionario, l'azione segue lo stile stilizzato del teatro giapponese; quindi ieratica, elegante ma quasi fredda rispetto alle convezioni del melodramma. Il pubblico di Roma ha gradito.
sabato 25 febbraio 2012
Grossi investimenti per un grande regalo di compleanno al maestro Enrico Caruso. in Artribune del 26 febbraio
Grossi investimenti per un grande regalo di compleanno al maestro Enrico Caruso. Vicino Firenze apre il museo dedicato al tenore. Nella villa in cui visse
Scritto da Giuseppe Pennisi | sabato, 25 febbraio 2012 • Lascia un commento
Riapre al pubblico dal 25 febbraio il Museo Enrico Caruso, l’unico in Italia dedicato al tenore e collocato nella Villa Bellosguardo di Lastra a Signa presso Firenze.
L’anniversario della nascita di Caruso – avvenuta a Napoli nel 1873 – segnerà il traguardo di un percorso iniziato oltre quindici anni fa, quando l’Amministrazione comunale della cittadina decise di puntare sull’acquisto per quasi 4 miliardi di lire della dimora cinquecentesca che la celeberrima voce volle per vivervi la storia d’amore con la cantante Ada Giachetti (dopo avergli dato due figli però l’abbandonò fuggendo con l’autista…), e che rimase il suo buen retiro fino alla morte; altri 2 milioni di euro, di cui 1,2 investiti dalla Regione Toscana, sono stati necessari per il restauro dell’imponente complesso, formato da due edifici principali fra loro collegati, da un suggestivo giardino all’italiana e da terreni agricoli e boschivi.
Al piano nobile della Villa, che ospita anche la camera da letto originale, trovano ora degna collocazione le migliaia di cimeli donati al Museo dal Centro studi carusiani di Milano fondato da Luciano Pituello, da sempre fervente ammiratore dell’artista di cui ha collezionato ogni genere di testimonianze, dagli oggetti quotidiani a lui appartenuti alle foto e cartoline, dai disegni tratteggiati dal cantante, che era anche ottimo e pungente caricaturista, ai premi ricevuti e ai costumi di scena, dai programmi di sala agli spartiti, e naturalmente ai dischi: Caruso fu il primo a credere nell’importanza del nuovo mezzo e ad incidere interpretazioni liriche e canzoni, che lo consacrarono primo autentico divo dei Due Mondi.
Oltre a presentare una collezione di grammofoni d’epoca, il percorso espositivo è integrato da due sale che offrono un’inedita esperienza emotiva e percettiva: grazie a sofisticate tecnologie, i visitatori possono attivare l’ascolto individuale della voce che incantò l’Europa e le Americhe, visualizzare i luoghi toccati dalle tante tournée, farsi avvolgere dalla magìa di un mito inossidabile nel tempo.
- Giusppe Pennisi
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Categoria tribnews • Tags Ada Giachetti
Scritto da Giuseppe Pennisi | sabato, 25 febbraio 2012 • Lascia un commento
Riapre al pubblico dal 25 febbraio il Museo Enrico Caruso, l’unico in Italia dedicato al tenore e collocato nella Villa Bellosguardo di Lastra a Signa presso Firenze.
L’anniversario della nascita di Caruso – avvenuta a Napoli nel 1873 – segnerà il traguardo di un percorso iniziato oltre quindici anni fa, quando l’Amministrazione comunale della cittadina decise di puntare sull’acquisto per quasi 4 miliardi di lire della dimora cinquecentesca che la celeberrima voce volle per vivervi la storia d’amore con la cantante Ada Giachetti (dopo avergli dato due figli però l’abbandonò fuggendo con l’autista…), e che rimase il suo buen retiro fino alla morte; altri 2 milioni di euro, di cui 1,2 investiti dalla Regione Toscana, sono stati necessari per il restauro dell’imponente complesso, formato da due edifici principali fra loro collegati, da un suggestivo giardino all’italiana e da terreni agricoli e boschivi.
Al piano nobile della Villa, che ospita anche la camera da letto originale, trovano ora degna collocazione le migliaia di cimeli donati al Museo dal Centro studi carusiani di Milano fondato da Luciano Pituello, da sempre fervente ammiratore dell’artista di cui ha collezionato ogni genere di testimonianze, dagli oggetti quotidiani a lui appartenuti alle foto e cartoline, dai disegni tratteggiati dal cantante, che era anche ottimo e pungente caricaturista, ai premi ricevuti e ai costumi di scena, dai programmi di sala agli spartiti, e naturalmente ai dischi: Caruso fu il primo a credere nell’importanza del nuovo mezzo e ad incidere interpretazioni liriche e canzoni, che lo consacrarono primo autentico divo dei Due Mondi.
Oltre a presentare una collezione di grammofoni d’epoca, il percorso espositivo è integrato da due sale che offrono un’inedita esperienza emotiva e percettiva: grazie a sofisticate tecnologie, i visitatori possono attivare l’ascolto individuale della voce che incantò l’Europa e le Americhe, visualizzare i luoghi toccati dalle tante tournée, farsi avvolgere dalla magìa di un mito inossidabile nel tempo.
- Giusppe Pennisi
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Categoria tribnews • Tags Ada Giachetti
LA MISSIONE OCSE IN ITALIA E IL MERCATO DEL LAVORO in Il Velino 25 febbraio
LA MISSIONE OCSE IN ITALIA E IL MERCATO DEL LAVORO
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Roma - “Ammorbidire la protezione del lavoro sui contratti standard”. Lo dice l’Ocse all’Italia. L’Italia “non ha ancora intrapreso azioni significative” ma sta “considerando una riforma del mercato del lavoro, mirata ad ammorbidire le tutele sui contratti standard” con “una riforma welfare per migliorare la rete di sicurezza per i disoccupati”.
La missione Ocse in questi giorni in Italia è, per molti aspetti, un adempimento di routine. La sua tempistica, però, è stata studiata accuratamente (ed anche la lunga intervista dell’Amministratore Delegato della FIAT, Sergio Marchionne al ‘Corriere della Sera’): un assist al Governo Monti il cui decreto “Cresci Italia” rischia di impantanarsi in Parlamento e la cui riforma del mercato del lavoro minaccia di venire annacquata da veti reciproci”.
“Ridurre le barriere legislative alla concorrenza” in diversi settori, tra cui “le professioni, il commercio al dettaglio e i servizi locali”. Lo consiglia l’Ocse all’Italia, nel suo rapporto annuale sulla crescita. Il decreto varato a dicembre 2011, sottolinea l’Organizzazione di Château de la Muette, “introduceva misure per liberalizzare il commercio al dettaglio”, ma queste misure “possono essere in parte sorpassate dalle politiche territoriali delle autorità regionali”. Il Governo, scrive ancora l’Ocse, “ha introdotto misure significative per liberalizzare le professioni liberali e i servizi di trasporto”. Sta ora al Parlamento non travisarle o, peggio ancora, neutralizzarle.
L’attuazione delle riforme strutturali può mitigare l’impatto della crisi – sostiene l’Ocse - evitando che la disoccupazione resti “su livelli strutturali” e contribuire a rilanciare “più’ velocemente” il mercato del lavoro. “Un’ampia e ambiziosa agenda di riforme potrebbe portare per i paesi Ocse a una crescita annua del Pil fino all’1%, in media, nei prossimi 10 anni”. Le riforme possono rendere la ripresa “più’ sostenibile e più’ equa”.
Tutte le ipotesi in campo (in materia di mercato del lavoro) partono dall’assunto che i lavoratori considerati atipici (tempo determinato, co.co.pro, e simili) sono prevalentemente giovani vengono delineati percorsi per dare loro un accesso graduale ad un regime di stabilità. Una strada prevede un rapporto di lavoro unico a tempo indeterminato, ma caratterizzato da un primo periodo di protezione solo indennitaria per i licenziamenti per motivi economico-organizzativi (crisi, ristrutturazione dell’azienda) Il secondo è articolato su una flessibilizzazione limitata della tutela contro il licenziamento per motivi economico-organizzativi: un periodo di franchigia allungato fino al massimo di un anno, seguito da un regime di mera incentivazione ad un accordo economico tra le parti per la cessazione del rapporto. Il terzo contempla la possibilità di prima assunzione con un contratto a termine di durata non inferiore a tre anni fruibile dallo stesso lavoratore presso imprese diverse: dunque sperimentazione con il lavoratore a termine, purché sia un esperimento serio. Il primo assetto ricorda molto il passato . Il secondo le regole per il mercato del lavoro ora in vigore in Germania. Il terzo quelle che sta adottando la Francia. Il secondo ed il terzo assetto possono essere in vario modo combinati tra loro. Hanno anche il vantaggio (non secondario) di assicurare a chi ha cominciato a lavorare dopo la riforma delle pensioni del 1995 assegni previdenziali più consistenti di quelli che si possono stimare oggi sulla base di interruzioni di periodi di lavoro, di versamenti contributivi a regimi previdenziali differente ed a regole molto rigide per totalizzare quanto si è contribuito.
L’Ocse non prende posizione esplicita in materia di regole per il funzionamento del mercato del lavoro (se ne occupa l’Organizzazione internazionale del lavoro, Oil) ma non cela preoccupazione rispetto all’ipotesi di tornare al passato o di restare immobili: un mercato del lavoro rigido potrebbe riportare l’Italia di una luna recessione.
In secondo luogo, sono imbarazzanti i dati sui rendimenti dell’istruzione – campo in cui l’Ocse ha fatto lavori pioneristici sin dagli Anni Sessanta. I suoi esperti hanno letto con attenzione un libro appena uscito Istruzione Formazione e mercato del lavoro: I rendimenti del capitale umano in Italia” curato da Andrea Ricci ma frutto del lavoro di numerosi suoi colleghi dell’Isfol (Naticchioni, Devicienti,Piacentini, Croce, Mandrone), istituto con 600 dipendenti ed un Presidente-a-vita i cui studi, quando ottimi, vengono portati a conoscenza di pochi. Sono stati attirati dall’impianto quantitativo del libro, basato su microdati provenienti dal mondo sia del lavoro sia delle imprese. Lo studio conclude che nel mercato del lavoro italiano declinano i rendimenti salariali e occupazionali dell’istruzione, c’è una debolezza strutturale della domanda di lavoro qualificato, un legame “interrotto” tra investimento in istruzione e mobilità sociale, una relazione negativa tra contratti a termine (ovvero instabilità lavorativa e un disincentivo ad accumulare capitale specifico da parte dei lavoratori) e profitti delle imprese. Secondo lo studio, il problema dell’economia reale in Italia è soprattutto il declino della produttività, la natura del sistema delle imprese e della classe imprenditoriale (mediamente vecchia e poco istruita), non le supposte rigidità del mercato del lavoro. (ilVelino/AGV)
(Giuseppe Pennisi) 25 Febbraio 2012 13:38
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Roma - “Ammorbidire la protezione del lavoro sui contratti standard”. Lo dice l’Ocse all’Italia. L’Italia “non ha ancora intrapreso azioni significative” ma sta “considerando una riforma del mercato del lavoro, mirata ad ammorbidire le tutele sui contratti standard” con “una riforma welfare per migliorare la rete di sicurezza per i disoccupati”.
La missione Ocse in questi giorni in Italia è, per molti aspetti, un adempimento di routine. La sua tempistica, però, è stata studiata accuratamente (ed anche la lunga intervista dell’Amministratore Delegato della FIAT, Sergio Marchionne al ‘Corriere della Sera’): un assist al Governo Monti il cui decreto “Cresci Italia” rischia di impantanarsi in Parlamento e la cui riforma del mercato del lavoro minaccia di venire annacquata da veti reciproci”.
“Ridurre le barriere legislative alla concorrenza” in diversi settori, tra cui “le professioni, il commercio al dettaglio e i servizi locali”. Lo consiglia l’Ocse all’Italia, nel suo rapporto annuale sulla crescita. Il decreto varato a dicembre 2011, sottolinea l’Organizzazione di Château de la Muette, “introduceva misure per liberalizzare il commercio al dettaglio”, ma queste misure “possono essere in parte sorpassate dalle politiche territoriali delle autorità regionali”. Il Governo, scrive ancora l’Ocse, “ha introdotto misure significative per liberalizzare le professioni liberali e i servizi di trasporto”. Sta ora al Parlamento non travisarle o, peggio ancora, neutralizzarle.
L’attuazione delle riforme strutturali può mitigare l’impatto della crisi – sostiene l’Ocse - evitando che la disoccupazione resti “su livelli strutturali” e contribuire a rilanciare “più’ velocemente” il mercato del lavoro. “Un’ampia e ambiziosa agenda di riforme potrebbe portare per i paesi Ocse a una crescita annua del Pil fino all’1%, in media, nei prossimi 10 anni”. Le riforme possono rendere la ripresa “più’ sostenibile e più’ equa”.
Tutte le ipotesi in campo (in materia di mercato del lavoro) partono dall’assunto che i lavoratori considerati atipici (tempo determinato, co.co.pro, e simili) sono prevalentemente giovani vengono delineati percorsi per dare loro un accesso graduale ad un regime di stabilità. Una strada prevede un rapporto di lavoro unico a tempo indeterminato, ma caratterizzato da un primo periodo di protezione solo indennitaria per i licenziamenti per motivi economico-organizzativi (crisi, ristrutturazione dell’azienda) Il secondo è articolato su una flessibilizzazione limitata della tutela contro il licenziamento per motivi economico-organizzativi: un periodo di franchigia allungato fino al massimo di un anno, seguito da un regime di mera incentivazione ad un accordo economico tra le parti per la cessazione del rapporto. Il terzo contempla la possibilità di prima assunzione con un contratto a termine di durata non inferiore a tre anni fruibile dallo stesso lavoratore presso imprese diverse: dunque sperimentazione con il lavoratore a termine, purché sia un esperimento serio. Il primo assetto ricorda molto il passato . Il secondo le regole per il mercato del lavoro ora in vigore in Germania. Il terzo quelle che sta adottando la Francia. Il secondo ed il terzo assetto possono essere in vario modo combinati tra loro. Hanno anche il vantaggio (non secondario) di assicurare a chi ha cominciato a lavorare dopo la riforma delle pensioni del 1995 assegni previdenziali più consistenti di quelli che si possono stimare oggi sulla base di interruzioni di periodi di lavoro, di versamenti contributivi a regimi previdenziali differente ed a regole molto rigide per totalizzare quanto si è contribuito.
L’Ocse non prende posizione esplicita in materia di regole per il funzionamento del mercato del lavoro (se ne occupa l’Organizzazione internazionale del lavoro, Oil) ma non cela preoccupazione rispetto all’ipotesi di tornare al passato o di restare immobili: un mercato del lavoro rigido potrebbe riportare l’Italia di una luna recessione.
In secondo luogo, sono imbarazzanti i dati sui rendimenti dell’istruzione – campo in cui l’Ocse ha fatto lavori pioneristici sin dagli Anni Sessanta. I suoi esperti hanno letto con attenzione un libro appena uscito Istruzione Formazione e mercato del lavoro: I rendimenti del capitale umano in Italia” curato da Andrea Ricci ma frutto del lavoro di numerosi suoi colleghi dell’Isfol (Naticchioni, Devicienti,Piacentini, Croce, Mandrone), istituto con 600 dipendenti ed un Presidente-a-vita i cui studi, quando ottimi, vengono portati a conoscenza di pochi. Sono stati attirati dall’impianto quantitativo del libro, basato su microdati provenienti dal mondo sia del lavoro sia delle imprese. Lo studio conclude che nel mercato del lavoro italiano declinano i rendimenti salariali e occupazionali dell’istruzione, c’è una debolezza strutturale della domanda di lavoro qualificato, un legame “interrotto” tra investimento in istruzione e mobilità sociale, una relazione negativa tra contratti a termine (ovvero instabilità lavorativa e un disincentivo ad accumulare capitale specifico da parte dei lavoratori) e profitti delle imprese. Secondo lo studio, il problema dell’economia reale in Italia è soprattutto il declino della produttività, la natura del sistema delle imprese e della classe imprenditoriale (mediamente vecchia e poco istruita), non le supposte rigidità del mercato del lavoro. (ilVelino/AGV)
(Giuseppe Pennisi) 25 Febbraio 2012 13:38
venerdì 24 febbraio 2012
Ue fra Scilla (decrescita) e Cariddi (rigore) in Avvenire 24 aprile
Ue fra Scilla (decrescita) e Cariddi (rigore) l’analisi
La lettera dei 12 contro il valore «politico» del Fiscal Compact
DIGIUSEPPE PENNISI
L a situazione ha del pa¬radossale: 25 Stati del¬l’Unione europea si apprestano a firmare il trat¬tato sul «Fiscal Compact» (coordinamento delle poli¬tiche di bilancio), mentre 12 Capi di Stato e di Governo (tra i 25) hanno rivolto un appello in favore di politiche di crescita del reddito e del¬l’occupazione, ossia in dire¬zione asimmetrica rispetto al Fiscal Compact, di cui tut¬ti riconoscono una portata recessiva da far tremare an¬che gli Usa.
Come spiegare il pa¬radosso?
C’è una let¬tura puramente poli¬tica: l’accordo, ora diventa¬to 'trattato' (ossia alzato di rango), serve a Angela Merkel (nei confronti di Par¬lamento ed elettorato) e so¬prattutto a Nicolas Sarkozy in vista delle imminenti ele¬zioni presidenziali in Fran¬cia. L’attuale inquilino del¬l’Eliseo non ha molto da mostrare sul fronte interno; punta a presentarsi come il «grande mediatore» che ha salvato l’Ue e la Grecia e di¬sciplinato il 'club med' di I¬talia, Spagna e Portogallo.
Dopo queste scadenze, l’ac¬cordo verrà ratificato, ma u¬nicamente Parigi ha fretta di farlo, prima delle presiden¬ziali. Gli altri prenderanno il tempo che ci vuole: l’entra¬ta in vigore (art.14) è previ¬sta per il primo gennaio 2013 sempre che «dodici Stati dell’eurozona abbiamo per quella data depositato gli strumenti di ratifica». At¬tenzione: dal primo gennaio 2013 varrà unicamente per chi ha ratificato, gli altri non hanno alcuna esigenza di mostrare le loro doti di ma¬ratoneti.
Tra ratifica da parte dei do¬dici avanguardisti (nel lessi¬co di Bruxelles si parla di «pattuglia di avanguardia») e l’entrata in vigore ai fini dell’attuazione ci passerà un anno. Se tutto va bene, il Compact comincerà a fun¬zionare nel 2014. Con l’eco¬nomia e la politica che cor¬rono alla velocità della luce, può essere che nessuno ne senta più l’esigenza. In Fran¬cia, il candidato dell’oppo¬sizione François Hollande dichiara apertamente che se andrà all’Eliseo, farà smon¬tare la partecipazione del suo Stato all’accordo. L’at¬tuale entourage della resi¬denza presidenziale, sus¬surra l’equivalente francese di «passata la Festa, gabba¬to il Santo'» In Germania nel 2013-2014, avranno ben al¬tre gatte da pelare.
I barracuda esperti che han¬no redatto il testo lo sanno. Hanno inserito tante botole per fare crollare il tutto. In primo luogo, pur se diversi articoli fanno riferimento al¬la «Legge Fondamentale Eu¬ropea » (il Trattato di Lisbo¬na), molti la estendono qua¬si da contraddirla e richia¬mano la Corte di Giustizia Europea a dirimere contro¬versie. A città del Lussem¬burgo, sede della Corte, ci sarà molto lavoro, sempre che l’accordo venga ratifica¬to. Non si tratta unicamen¬te di questioni di lana capri¬na, ma di punti fondamen¬tali nei rapporti tra istitu¬zioni europee e Stati nazio¬nali.
Tra l’altro, la formula rive¬duta e corretta dell’art.4 (quella sul debito) contem¬pla che la Corte di Giustizia entri nel merito delle politi¬che di bilancio dei singoli Stati dell’Unione, giudichi e sanzioni. Nessuno Stato fe¬derale (unica eccezione la Germania, ma proprio da questi mesi e con una nor¬ma ancora sperimentale) prevede interventi del gene¬re. Ove fossero auspicabili, si dovrebbe mutare la com¬posizione della Corte perché eminenti giuristi vengano affiancati da eminenti spe¬cialisti di politiche di bilan¬cio e di scienza delle finan¬ze. Ciò richiede di modifica¬re un bel po’ di Trattati in vi-gore.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
La lettera dei 12 contro il valore «politico» del Fiscal Compact
DIGIUSEPPE PENNISI
L a situazione ha del pa¬radossale: 25 Stati del¬l’Unione europea si apprestano a firmare il trat¬tato sul «Fiscal Compact» (coordinamento delle poli¬tiche di bilancio), mentre 12 Capi di Stato e di Governo (tra i 25) hanno rivolto un appello in favore di politiche di crescita del reddito e del¬l’occupazione, ossia in dire¬zione asimmetrica rispetto al Fiscal Compact, di cui tut¬ti riconoscono una portata recessiva da far tremare an¬che gli Usa.
Come spiegare il pa¬radosso?
C’è una let¬tura puramente poli¬tica: l’accordo, ora diventa¬to 'trattato' (ossia alzato di rango), serve a Angela Merkel (nei confronti di Par¬lamento ed elettorato) e so¬prattutto a Nicolas Sarkozy in vista delle imminenti ele¬zioni presidenziali in Fran¬cia. L’attuale inquilino del¬l’Eliseo non ha molto da mostrare sul fronte interno; punta a presentarsi come il «grande mediatore» che ha salvato l’Ue e la Grecia e di¬sciplinato il 'club med' di I¬talia, Spagna e Portogallo.
Dopo queste scadenze, l’ac¬cordo verrà ratificato, ma u¬nicamente Parigi ha fretta di farlo, prima delle presiden¬ziali. Gli altri prenderanno il tempo che ci vuole: l’entra¬ta in vigore (art.14) è previ¬sta per il primo gennaio 2013 sempre che «dodici Stati dell’eurozona abbiamo per quella data depositato gli strumenti di ratifica». At¬tenzione: dal primo gennaio 2013 varrà unicamente per chi ha ratificato, gli altri non hanno alcuna esigenza di mostrare le loro doti di ma¬ratoneti.
Tra ratifica da parte dei do¬dici avanguardisti (nel lessi¬co di Bruxelles si parla di «pattuglia di avanguardia») e l’entrata in vigore ai fini dell’attuazione ci passerà un anno. Se tutto va bene, il Compact comincerà a fun¬zionare nel 2014. Con l’eco¬nomia e la politica che cor¬rono alla velocità della luce, può essere che nessuno ne senta più l’esigenza. In Fran¬cia, il candidato dell’oppo¬sizione François Hollande dichiara apertamente che se andrà all’Eliseo, farà smon¬tare la partecipazione del suo Stato all’accordo. L’at¬tuale entourage della resi¬denza presidenziale, sus¬surra l’equivalente francese di «passata la Festa, gabba¬to il Santo'» In Germania nel 2013-2014, avranno ben al¬tre gatte da pelare.
I barracuda esperti che han¬no redatto il testo lo sanno. Hanno inserito tante botole per fare crollare il tutto. In primo luogo, pur se diversi articoli fanno riferimento al¬la «Legge Fondamentale Eu¬ropea » (il Trattato di Lisbo¬na), molti la estendono qua¬si da contraddirla e richia¬mano la Corte di Giustizia Europea a dirimere contro¬versie. A città del Lussem¬burgo, sede della Corte, ci sarà molto lavoro, sempre che l’accordo venga ratifica¬to. Non si tratta unicamen¬te di questioni di lana capri¬na, ma di punti fondamen¬tali nei rapporti tra istitu¬zioni europee e Stati nazio¬nali.
Tra l’altro, la formula rive¬duta e corretta dell’art.4 (quella sul debito) contem¬pla che la Corte di Giustizia entri nel merito delle politi¬che di bilancio dei singoli Stati dell’Unione, giudichi e sanzioni. Nessuno Stato fe¬derale (unica eccezione la Germania, ma proprio da questi mesi e con una nor¬ma ancora sperimentale) prevede interventi del gene¬re. Ove fossero auspicabili, si dovrebbe mutare la com¬posizione della Corte perché eminenti giuristi vengano affiancati da eminenti spe¬cialisti di politiche di bilan¬cio e di scienza delle finan¬ze. Ciò richiede di modifica¬re un bel po’ di Trattati in vi-gore.
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A L’AQUILA L’OPERA DIVENTA MOTORE DI SVILUPPO in Il Riformista 24 febbraio
I LIBRI DEI MINISTRI- LORENZO ORNAGHI
A L’AQUILA L’OPERA DIVENTA MOTORE DI SVILUPPO
Giuseppe Pennisi
Il Ministro dei Beni Culturali ed Ambientali, Prof. Lorenzo Ornaghi, non era al Teatro Olimpico di Roma alla prima di una coproduzione dell’Accademia Filarmonica Romana, degli Amici della Musica di Foligno e dell’Istituzione Sinfonica Abruzzese, tre enti privati che per mettere in scena opere trasportabili da una città all’altra hanno optato per una soluzione “low cost” . Due brevi opere contemporanee : un dramma da concerto in un’introduzione e tre rounds Partita a pugni di Vieri Tosatti è una, è una cantata ferroviaria novità di Riccardo Panfili dal titolo Frecciarotta . La prima riguarda una partita di boxe in una palestra romana. La seconda i guai in un viaggio per ferrovia. Quindi, ambedue molto “reality”. Lo spettacolo andrà a L’Aquila, nel ridotto del bel Teatro Comunale, in un centro storico ancora devastato dal terremoto.
Potrà l’opera, chiamata “musa bizzarra ed altera” dal musicologo Herbert Lindenberger anche a ragione dei suoi alti costi, essere motore di sviluppo? Per un’area come quella de L’Aquila. Uno studio recente, portato alla sua attenzione, afferma che è stata un polo di crescita e può esserlo ancora. E’ un lavoro di Olivier Falck (dell’Ifo, il maggior centro di ricerca economica della Repubblica Federale), Michael Fritsch (dell’università di Jena) e di Stephan Heblich (del Max-Planck-Institut) – l’Iza (l’istituto tedesco di studi sul capitale umano) come Discussion Paper No. 5065. Il lavoro analizza, in termini rigorosamente quantitativi, come in 29 aree tedesche, l’esistenza di un teatro d’opera è stata essenziale alla crescita perché ha comportato, da un lato, una concentrazione di capitale umano (lavoratori specializzati, musicisti, orchestrali, cantanti) e, da un altro, un’apertura al resto del mondo (tramite le compagnie impiegate).Il capitale umano attira altro capitale umano, forma reti di capitale sociale ed avvia e sostiene il processo di sviluppo.
Un economista giapponese , Yuko Oki, è arrivato a conclusioni analoghe analizzando un “caso” italiano: il vantaggio competitivo del distretto industriale di Cremona basato sul violino e ne ha pubblicato i risultati nel volume “ESA Research Network Sociology of Culture Midterm Conference : Culture and the Making of the Worlds 2010” . Secondo il saggio, si deve al distretto nei liutai del lontano sedicesimo secolo se Cremona mostra ancora un forte dinamismo basato su una forte dose di capitale sociale.
Roba del passato. Non proprio, a metà gennaio del 2012 l’Università di Yale ha pubblicato un saggio di Micah Hendler di “economia sperimentale” relativo agli effetti della musica in un “gioco di ruoli” tra studenti universitari. In Maine, durante le vacanze estive, due squadre di studenti hanno messo rispettivamente le casacche degli “arabi” e degli “israeliani”; dopo un “campo estivo” di tre settimane, ripetuto nell’arco di tre anni, da un lato, le due squadre si sono impersonificate nei ruoli loro affidate ma, dall’altro, dato che la stessa musica veniva insegnata ai due gruppi, hanno trovato la via per un accordo.
Torniamo al dittico. Cast di livello: Carlo Riccioli, Max René Cosotti, Daniela Mazzucato. l’Orchestra Sinfonica Abruzzese è diretta da Marcello Bufalini, il Coro Zaccaria da Teramo da Paolo Speca.Marco Zannoni cura l’allestimento scenico (essenziale) ed è in palcoscenico come attore. Che il low cost sia il futuro?
A L’AQUILA L’OPERA DIVENTA MOTORE DI SVILUPPO
Giuseppe Pennisi
Il Ministro dei Beni Culturali ed Ambientali, Prof. Lorenzo Ornaghi, non era al Teatro Olimpico di Roma alla prima di una coproduzione dell’Accademia Filarmonica Romana, degli Amici della Musica di Foligno e dell’Istituzione Sinfonica Abruzzese, tre enti privati che per mettere in scena opere trasportabili da una città all’altra hanno optato per una soluzione “low cost” . Due brevi opere contemporanee : un dramma da concerto in un’introduzione e tre rounds Partita a pugni di Vieri Tosatti è una, è una cantata ferroviaria novità di Riccardo Panfili dal titolo Frecciarotta . La prima riguarda una partita di boxe in una palestra romana. La seconda i guai in un viaggio per ferrovia. Quindi, ambedue molto “reality”. Lo spettacolo andrà a L’Aquila, nel ridotto del bel Teatro Comunale, in un centro storico ancora devastato dal terremoto.
Potrà l’opera, chiamata “musa bizzarra ed altera” dal musicologo Herbert Lindenberger anche a ragione dei suoi alti costi, essere motore di sviluppo? Per un’area come quella de L’Aquila. Uno studio recente, portato alla sua attenzione, afferma che è stata un polo di crescita e può esserlo ancora. E’ un lavoro di Olivier Falck (dell’Ifo, il maggior centro di ricerca economica della Repubblica Federale), Michael Fritsch (dell’università di Jena) e di Stephan Heblich (del Max-Planck-Institut) – l’Iza (l’istituto tedesco di studi sul capitale umano) come Discussion Paper No. 5065. Il lavoro analizza, in termini rigorosamente quantitativi, come in 29 aree tedesche, l’esistenza di un teatro d’opera è stata essenziale alla crescita perché ha comportato, da un lato, una concentrazione di capitale umano (lavoratori specializzati, musicisti, orchestrali, cantanti) e, da un altro, un’apertura al resto del mondo (tramite le compagnie impiegate).Il capitale umano attira altro capitale umano, forma reti di capitale sociale ed avvia e sostiene il processo di sviluppo.
Un economista giapponese , Yuko Oki, è arrivato a conclusioni analoghe analizzando un “caso” italiano: il vantaggio competitivo del distretto industriale di Cremona basato sul violino e ne ha pubblicato i risultati nel volume “ESA Research Network Sociology of Culture Midterm Conference : Culture and the Making of the Worlds 2010” . Secondo il saggio, si deve al distretto nei liutai del lontano sedicesimo secolo se Cremona mostra ancora un forte dinamismo basato su una forte dose di capitale sociale.
Roba del passato. Non proprio, a metà gennaio del 2012 l’Università di Yale ha pubblicato un saggio di Micah Hendler di “economia sperimentale” relativo agli effetti della musica in un “gioco di ruoli” tra studenti universitari. In Maine, durante le vacanze estive, due squadre di studenti hanno messo rispettivamente le casacche degli “arabi” e degli “israeliani”; dopo un “campo estivo” di tre settimane, ripetuto nell’arco di tre anni, da un lato, le due squadre si sono impersonificate nei ruoli loro affidate ma, dall’altro, dato che la stessa musica veniva insegnata ai due gruppi, hanno trovato la via per un accordo.
Torniamo al dittico. Cast di livello: Carlo Riccioli, Max René Cosotti, Daniela Mazzucato. l’Orchestra Sinfonica Abruzzese è diretta da Marcello Bufalini, il Coro Zaccaria da Teramo da Paolo Speca.Marco Zannoni cura l’allestimento scenico (essenziale) ed è in palcoscenico come attore. Che il low cost sia il futuro?
giovedì 23 febbraio 2012
LA “BUTTERFLY” DI GIORGIO FERRARA E’ UNA VERA “TRAGEDIA GIAPPONESE” in Il Riformista el 22 febbraio
LA “BUTTERFLY” DI GIORGIO FERRARA E’ UNA VERA “TRAGEDIA GIAPPONESE”
Beckmesser
Al debutto con la regia lirica, Giorgio Ferrara prende alla lettera l’indicazione di Illica, Giacosa e Puccini secondo cui “Madama Butterfly” è una “tragedia giapponese”. Scenografia essenziale: quinte ore e fondali spesso giallo-arancione (il colore del lutto nella tradizione nipponica), riferimenti al teatro Ño ed anche al quello delle marionette (dell’Estremo Oriente), coro immobile (come nelle tragedie greche) gesti misuratissimi dei cantanti e cenni alla scultura del Sol Levante (ottimo quello della scena dell’attesa di Butterfly, Suzuki e del bambino) durante il coro a bocche chiuse e l’intermezzo. Molto raffinato, ma distinto e distante dal pathos melodrammatico strappa-lacrime a cui il pubblico si è negli anni abituato, ad esempio dall’allestimento firmato da Aldo Trionfo (che per trent’anni si è visto al Teatro dell’Opera, pur se nelle ultime stagioni sostituito con quello di Stefano Vizioli, concepito per il Teatro Comunale di Bologna). Alla “prima”, il pubblico ha gradito.
Lo spettacolo, che ha debuttato a Roma il 21 febbraio, è coprodotto con il Massimo di Palermo dove si vedrà all’inizio di settembre: il cast resta sostanzialmente lo stesso.
La direzione musicale è affidata a Pinchas Steinberg, che ha scavato negli aspetti più raffinati della complessa scrittura pucciniana in cui venti temi principali vengono intrecciati. Daniela Dessì è una Butterfly più statuaria (in linea con l’approccio della regia) che tenera adolescente; veterana nel ruolo fa gran sfoggio delle difficili “mezzo voci”, Una vera scoperta il giovane tenore siberiano Alexey Dolgov, poco americano nel “look” ma con un fraseggio perfetto. Tra gli altri, spicca lo Shapless di Audun Iversen.
Beckmesser
Al debutto con la regia lirica, Giorgio Ferrara prende alla lettera l’indicazione di Illica, Giacosa e Puccini secondo cui “Madama Butterfly” è una “tragedia giapponese”. Scenografia essenziale: quinte ore e fondali spesso giallo-arancione (il colore del lutto nella tradizione nipponica), riferimenti al teatro Ño ed anche al quello delle marionette (dell’Estremo Oriente), coro immobile (come nelle tragedie greche) gesti misuratissimi dei cantanti e cenni alla scultura del Sol Levante (ottimo quello della scena dell’attesa di Butterfly, Suzuki e del bambino) durante il coro a bocche chiuse e l’intermezzo. Molto raffinato, ma distinto e distante dal pathos melodrammatico strappa-lacrime a cui il pubblico si è negli anni abituato, ad esempio dall’allestimento firmato da Aldo Trionfo (che per trent’anni si è visto al Teatro dell’Opera, pur se nelle ultime stagioni sostituito con quello di Stefano Vizioli, concepito per il Teatro Comunale di Bologna). Alla “prima”, il pubblico ha gradito.
Lo spettacolo, che ha debuttato a Roma il 21 febbraio, è coprodotto con il Massimo di Palermo dove si vedrà all’inizio di settembre: il cast resta sostanzialmente lo stesso.
La direzione musicale è affidata a Pinchas Steinberg, che ha scavato negli aspetti più raffinati della complessa scrittura pucciniana in cui venti temi principali vengono intrecciati. Daniela Dessì è una Butterfly più statuaria (in linea con l’approccio della regia) che tenera adolescente; veterana nel ruolo fa gran sfoggio delle difficili “mezzo voci”, Una vera scoperta il giovane tenore siberiano Alexey Dolgov, poco americano nel “look” ma con un fraseggio perfetto. Tra gli altri, spicca lo Shapless di Audun Iversen.
mercoledì 22 febbraio 2012
Pennisi: 25 miliardi persi in Borsa? La crisi fa danni più seri in Il Sussidiario 22 febbraio
MPRESE/ Pennisi: 25 miliardi persi in Borsa? La crisi fa danni più seri
INT.
Giuseppe Pennisi
mercoledì 22 febbraio 2012
Foto Imagoeconomica
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J'ACCUSE/ Bertone (Cisl): Mercedes, un caso che mette in crisi l'industria romana
OLIMPIADI 2020/ Caro Monti, senza coraggio l’Italia “chiude bottega”, di G. D. Rold
Roma. Più che aziende, voragini senza fondo che hanno massimizzato le perdite e minimizzato i guadagni. Stando all’andamento in borsa, le grandi Spa laziali non stanno facendo far bella figura al sistema imprenditoriale regionale. Il susseguirsi di performance infelici a Piazza Affari ha prodotto, in poco più di un anno, un immenso scialacquio: 25 miliardi di euro spariti nel nulla dal 24 settembre del 2010 ad oggi. Tra le peggiori, c’è la Maire Tecnimont, società di ingegneria che ha perso l’80% del capitale azionario, pari a circa 730 milioni di euro. L’Acotel, con sede a Torrevecchia, invece, ha visto andare in fumo il 53% (110 milioni) mentre Finmeccanica, la cui sede centrale è a Prati, ha perso il 40% (circa due miliardi). C'è l'Enel, che ha visto sparire il 30% (11 miliardi di euro) mentre non vanno particolarmente meglio Caltagirone Spa, Caltagirone Editore e Cementir, con decrementi compresi tra il 20 e il 26% e una perdita pari a circa 250 milioni. Eni, infine, ha subito un calo leggermente più contenuto, pari al 5,86%. Cosa sta succedendo alla imprese della Capitale e del Lazio? Lo abbiamo chiesto a Giuseppe Pennisi.
Quali sono le ragioni del trend ribassista?
Anzitutto, il settore delle costruzioni, da sempre molto importante per l’economia della Capitale, è in crisi profonda. Si tratta, per lo più, di edilizia privata che, tuttavia, vive di contratti pubblici.
Quindi?
Per prima cosa, la amministrazioni pubbliche ne stipulano sempre di meno. E, laddove decidano, invece, di firmarne, si rivelano spesso insolventi nei confronti delle aziende creditrici. Semplicemente, cioè, non le pagano. C’è un altro problema.
Quale?
A Roma, per quanto riguarda il settore delle costruzioni, non ci sono problemi solamente relativamente alla famigerata Metropolitana C. Le aziende private più piccole non lavorano, infatti, perché, semplicemente, non si costruisce più.
Il comparto edilizio, tuttavia, non è l’unico in cui si denota un andamento negativo
Sono messe male anche diverse aziende del settore chimico e farmaceutico. Anche in questo caso, perché le amministrazioni pubbliche delle quali sono fornitrici non pagano.
Pure diverse aziende che hanno sede a Roma ma che, da sempre, sono considerate di rilevanza nazionale hanno subito un netto calo. A partire da Finmeccanica
La crisi che sta vivendo è determinata, tra le altre cose, preminentemente dagli scandali giudiziari in cui rimasti invischiati alcuni dei vertici.
Anche l’Enel non viaggerebbe in acque tranquille
Da diverso tempo ha un grande problema di indebitamento, tanto che sul finire del 2008 aveva dato inizio ad una serie di dismissioni.
C’è l’Eni, infine
Prevalentemente, risente dello scorporo da Rete Gas previsto dal decreto sulle liberalizzazioni che impone la separazione completa delle due aziende. L’operazione potrebbe incidere parecchio sul suo futuro.
In generale, crede che l’andamento sia determinato anche da fattori comuni?
Dopo la forte contrazione del Pil del 2009, la stagnazione del Pil del 2011 e una contrazione prevista per quest’anno sino al 3 per cento, è evidente che le aziende non possano andare bene.
Le perdite subite in Borsa sono necessariamente legate alla salute reale dell’azienda stessa?
Non necessariamente. Le valutazioni del mercato possono prescindere dalla reale situazione dell’impresa considerata.
In ogni caso, le perdite di cui si parla equivalgono a soldi realmente evaporati?
No, si tratta di quotazioni che salgono e scendono. Il problema si verifica in caso di consolidamento delle perdite; quando, ad esempio, un’azienda, dopo che le sue azioni sono fortemente calate, decide di venderle.
Come si valuta, quindi, la solidità effettiva di un’impresa?
Con ben altre, più complicate e più approfondite analisi che non tengono in considerazione solamente la quotazione in borsa ma una serie di parametri, quali il margine operativo lordo, il tasso interno di rendimento o la redditività del capitale proprio, solo per citarne alcuni.
INT.
Giuseppe Pennisi
mercoledì 22 febbraio 2012
Foto Imagoeconomica
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J'ACCUSE/ Bertone (Cisl): Mercedes, un caso che mette in crisi l'industria romana
OLIMPIADI 2020/ Caro Monti, senza coraggio l’Italia “chiude bottega”, di G. D. Rold
Roma. Più che aziende, voragini senza fondo che hanno massimizzato le perdite e minimizzato i guadagni. Stando all’andamento in borsa, le grandi Spa laziali non stanno facendo far bella figura al sistema imprenditoriale regionale. Il susseguirsi di performance infelici a Piazza Affari ha prodotto, in poco più di un anno, un immenso scialacquio: 25 miliardi di euro spariti nel nulla dal 24 settembre del 2010 ad oggi. Tra le peggiori, c’è la Maire Tecnimont, società di ingegneria che ha perso l’80% del capitale azionario, pari a circa 730 milioni di euro. L’Acotel, con sede a Torrevecchia, invece, ha visto andare in fumo il 53% (110 milioni) mentre Finmeccanica, la cui sede centrale è a Prati, ha perso il 40% (circa due miliardi). C'è l'Enel, che ha visto sparire il 30% (11 miliardi di euro) mentre non vanno particolarmente meglio Caltagirone Spa, Caltagirone Editore e Cementir, con decrementi compresi tra il 20 e il 26% e una perdita pari a circa 250 milioni. Eni, infine, ha subito un calo leggermente più contenuto, pari al 5,86%. Cosa sta succedendo alla imprese della Capitale e del Lazio? Lo abbiamo chiesto a Giuseppe Pennisi.
Quali sono le ragioni del trend ribassista?
Anzitutto, il settore delle costruzioni, da sempre molto importante per l’economia della Capitale, è in crisi profonda. Si tratta, per lo più, di edilizia privata che, tuttavia, vive di contratti pubblici.
Quindi?
Per prima cosa, la amministrazioni pubbliche ne stipulano sempre di meno. E, laddove decidano, invece, di firmarne, si rivelano spesso insolventi nei confronti delle aziende creditrici. Semplicemente, cioè, non le pagano. C’è un altro problema.
Quale?
A Roma, per quanto riguarda il settore delle costruzioni, non ci sono problemi solamente relativamente alla famigerata Metropolitana C. Le aziende private più piccole non lavorano, infatti, perché, semplicemente, non si costruisce più.
Il comparto edilizio, tuttavia, non è l’unico in cui si denota un andamento negativo
Sono messe male anche diverse aziende del settore chimico e farmaceutico. Anche in questo caso, perché le amministrazioni pubbliche delle quali sono fornitrici non pagano.
Pure diverse aziende che hanno sede a Roma ma che, da sempre, sono considerate di rilevanza nazionale hanno subito un netto calo. A partire da Finmeccanica
La crisi che sta vivendo è determinata, tra le altre cose, preminentemente dagli scandali giudiziari in cui rimasti invischiati alcuni dei vertici.
Anche l’Enel non viaggerebbe in acque tranquille
Da diverso tempo ha un grande problema di indebitamento, tanto che sul finire del 2008 aveva dato inizio ad una serie di dismissioni.
C’è l’Eni, infine
Prevalentemente, risente dello scorporo da Rete Gas previsto dal decreto sulle liberalizzazioni che impone la separazione completa delle due aziende. L’operazione potrebbe incidere parecchio sul suo futuro.
In generale, crede che l’andamento sia determinato anche da fattori comuni?
Dopo la forte contrazione del Pil del 2009, la stagnazione del Pil del 2011 e una contrazione prevista per quest’anno sino al 3 per cento, è evidente che le aziende non possano andare bene.
Le perdite subite in Borsa sono necessariamente legate alla salute reale dell’azienda stessa?
Non necessariamente. Le valutazioni del mercato possono prescindere dalla reale situazione dell’impresa considerata.
In ogni caso, le perdite di cui si parla equivalgono a soldi realmente evaporati?
No, si tratta di quotazioni che salgono e scendono. Il problema si verifica in caso di consolidamento delle perdite; quando, ad esempio, un’azienda, dopo che le sue azioni sono fortemente calate, decide di venderle.
Come si valuta, quindi, la solidità effettiva di un’impresa?
Con ben altre, più complicate e più approfondite analisi che non tengono in considerazione solamente la quotazione in borsa ma una serie di parametri, quali il margine operativo lordo, il tasso interno di rendimento o la redditività del capitale proprio, solo per citarne alcuni.
L’Aquila: ricomincio da due in Artribune 22 febbraio
L’Aquila: ricomincio da due
Due micro-opere di tema satirico per il Teatro Comunale de L’Aquila. Che riapre in questi giorni con un focus su temi di attualità. Apparentemente poco “teatrali”: un incontro di boxe e le avventure dei pendolari sull’Eurostar…
Scritto da Giuseppe Pennisi | mercoledì, 22 febbraio 2012 • Lascia un commento
Orchestra Sinfonica Abruzzese
Pochi se ne sono accorti ma la notizia è di rilievo: nel centro storico de L’Aquila, dove ancora si toccano con mano le macerie del terremoto, il 25 febbraio riapre il Teatro Comunale. Con un dittico contemporaneo giovane e low cost. E, per di più, su temi di attualità: una partita di boxe e i disagi dei treni Eurostar. Due “micro-opere”, insomma, per un pubblico giovane. Di che si tratta? Di lavori per il teatro, o per festival estivi, da giardino oppure da spiaggia, brevi (a volte brevissimi), che richiedono un organico all’osso e cantanti-attori che sappiano anche danzare e suonare uno strumento. Opere a bassissimo costo, che possono essere presentate anche in sequenza durante la stessa serata dando spazio a più compositori. Già subito dopo la Seconda guerra mondiale, Benjamin Britten, compositore di corte nel Regno Unito, aveva lanciato l’allarme, avvertendo che nel futuro il teatro lirico avrebbe dovuto ridimensionarsi, componendo poi egli stesso lavori che possiamo chiamare “midi-opere” (ad esempio, The Rape of Lucrezia), e adattando a piccoli organici anche una “grand-opéra” come Billy Budd.
Marcello Bufalini
Non mancano, da noi, tentativi di micro-opere, come Il Sogno di Arsenio di Marcello Filotei, presentato al Teatro Valle di Roma alcuni anni fa, e poi visto in giro per i teatri dell´Italia centrale. Il giovane compositore calabrese, ma ormai lucchese, Girolamo Deracco si è specializzato in questo genere: suoi lavori sono stati messi in scena, oltre che in Italia, anche in Austria e Germania. L’anno scorso ha presentato l’esilarante Checkinaggio, un quarto d’ora di satira su come si possono aggirare (con intenti terroristici) i controlli aeroportuali. Quest’anno c’è stata poi la prima assoluta di REDazione, “delirium drama” incentrato sul caos di una redazione di un quotidiano dove imperversano i telefoni – fissi e portatili – e il direttore non ce la fa a tenere le redini della squadra. Un percussionista, sei fiati e un concertatore, tutti in grado di recitare ritmicamente (come nei melologhi). Deracco ha nel suo bagaglio anche un Abbecedario, per orchestra e due attori, che è salpato da Bolzano verso festival internazionali, e in cantiere un Amor che nullo (un po’ alla Moccia) che debutterà in luglio nel Tirolo.
Vieri Tosatti
Anche compositori di rango come Nicola Sani sono entrati nel mercato delle micro-opere come nel caso di Centerentola.com, che ha trionfato la primavera scorsa a Palermo e merita di essere ripresa in altri spazi.
Torniamo però al dittico che verrà presentato in prima mondiale il 23 febbraio al Teatro Olimpico di Roma e che dopo una tappa a Foligno arriverà a L’Aquila. La prima delle due micro-opere è un dramma da concerto con un’introduzione e tre round: Partita a pugni di Vieri Tosatti, scritto nel 1952 e qui eseguito per la prima volta nella versione per piccola orchestra del ‘64. L’altra opera, di Riccardo Panfili, è una novità: una cantata ferroviaria scritta su libretto di Etierre Seicento, dal titolo Frecciarotta (2012). La nuova produzione, che vede collaborare insieme Accademia Filarmonica Romana, Amici della musica di Foligno e Istituzione Sinfonica Abruzzese, mette insieme due dissacranti partiture scritte su altrettanti sferzanti libretti. Partita a pugni è composta tutta su un testo in romanesco degli anni Cinquanta a firma di Luciano Conosciani e ha come soggetto un incontro di boxe in una palestra romana; Frecciarotta ha invece un libretto che riflette con ironia la realtà tutta italiana dei trasporti su rotaia, con un coro di pendolari frustrati e rassegnati per i continui ritardi dei loro treni (Frecciarossa, Freccia bianca, / Carta oro, Freccia argento, / ma che tragedia arrivare / ad Agrigento) che assistono alla (s)vendita dell’azienda a una manager russa. Gli interpreti sono di prim’ordine: il baritono Carlo Riccioli, il tenore Max René Cosotti, il soprano Daniela Mazzucato e l’attore Marco Zannoni, che cura anche l’allestimento scenico. L’Orchestra Sinfonica Abruzzese è diretta da Marcello Bufalini, il Coro Zaccaria da Teramo da Paolo Speca.
Riccardo Panfili
Riccardo Panfili, compositore italiano in ascesa, è stato allievo per qualche tempo dello stesso Tosatti e più avanti di Azio Corghi, nel 2006 ha vinto il Primo premio al Concorso Internazionale di Composizione Santa Cecilia di Roma e nel 2011 il Concorso dedicato a Camillo Togni. “Il sig. Frecciarotta, uomo devoto, nonché ardente patriota, fa di professione Capotreno”, spiega Panfili, “e proprio a lui è toccato in sorte di trovarsi in servizio sullo stesso convoglio in cui un manager di Trenilandia sta trattando la (s)vendita della sua società ad una manager di Russki Deraja, importante azienda ferroviaria russa…”.
Giuseppe Pennisi
Due micro-opere di tema satirico per il Teatro Comunale de L’Aquila. Che riapre in questi giorni con un focus su temi di attualità. Apparentemente poco “teatrali”: un incontro di boxe e le avventure dei pendolari sull’Eurostar…
Scritto da Giuseppe Pennisi | mercoledì, 22 febbraio 2012 • Lascia un commento
Orchestra Sinfonica Abruzzese
Pochi se ne sono accorti ma la notizia è di rilievo: nel centro storico de L’Aquila, dove ancora si toccano con mano le macerie del terremoto, il 25 febbraio riapre il Teatro Comunale. Con un dittico contemporaneo giovane e low cost. E, per di più, su temi di attualità: una partita di boxe e i disagi dei treni Eurostar. Due “micro-opere”, insomma, per un pubblico giovane. Di che si tratta? Di lavori per il teatro, o per festival estivi, da giardino oppure da spiaggia, brevi (a volte brevissimi), che richiedono un organico all’osso e cantanti-attori che sappiano anche danzare e suonare uno strumento. Opere a bassissimo costo, che possono essere presentate anche in sequenza durante la stessa serata dando spazio a più compositori. Già subito dopo la Seconda guerra mondiale, Benjamin Britten, compositore di corte nel Regno Unito, aveva lanciato l’allarme, avvertendo che nel futuro il teatro lirico avrebbe dovuto ridimensionarsi, componendo poi egli stesso lavori che possiamo chiamare “midi-opere” (ad esempio, The Rape of Lucrezia), e adattando a piccoli organici anche una “grand-opéra” come Billy Budd.
Marcello Bufalini
Non mancano, da noi, tentativi di micro-opere, come Il Sogno di Arsenio di Marcello Filotei, presentato al Teatro Valle di Roma alcuni anni fa, e poi visto in giro per i teatri dell´Italia centrale. Il giovane compositore calabrese, ma ormai lucchese, Girolamo Deracco si è specializzato in questo genere: suoi lavori sono stati messi in scena, oltre che in Italia, anche in Austria e Germania. L’anno scorso ha presentato l’esilarante Checkinaggio, un quarto d’ora di satira su come si possono aggirare (con intenti terroristici) i controlli aeroportuali. Quest’anno c’è stata poi la prima assoluta di REDazione, “delirium drama” incentrato sul caos di una redazione di un quotidiano dove imperversano i telefoni – fissi e portatili – e il direttore non ce la fa a tenere le redini della squadra. Un percussionista, sei fiati e un concertatore, tutti in grado di recitare ritmicamente (come nei melologhi). Deracco ha nel suo bagaglio anche un Abbecedario, per orchestra e due attori, che è salpato da Bolzano verso festival internazionali, e in cantiere un Amor che nullo (un po’ alla Moccia) che debutterà in luglio nel Tirolo.
Vieri Tosatti
Anche compositori di rango come Nicola Sani sono entrati nel mercato delle micro-opere come nel caso di Centerentola.com, che ha trionfato la primavera scorsa a Palermo e merita di essere ripresa in altri spazi.
Torniamo però al dittico che verrà presentato in prima mondiale il 23 febbraio al Teatro Olimpico di Roma e che dopo una tappa a Foligno arriverà a L’Aquila. La prima delle due micro-opere è un dramma da concerto con un’introduzione e tre round: Partita a pugni di Vieri Tosatti, scritto nel 1952 e qui eseguito per la prima volta nella versione per piccola orchestra del ‘64. L’altra opera, di Riccardo Panfili, è una novità: una cantata ferroviaria scritta su libretto di Etierre Seicento, dal titolo Frecciarotta (2012). La nuova produzione, che vede collaborare insieme Accademia Filarmonica Romana, Amici della musica di Foligno e Istituzione Sinfonica Abruzzese, mette insieme due dissacranti partiture scritte su altrettanti sferzanti libretti. Partita a pugni è composta tutta su un testo in romanesco degli anni Cinquanta a firma di Luciano Conosciani e ha come soggetto un incontro di boxe in una palestra romana; Frecciarotta ha invece un libretto che riflette con ironia la realtà tutta italiana dei trasporti su rotaia, con un coro di pendolari frustrati e rassegnati per i continui ritardi dei loro treni (Frecciarossa, Freccia bianca, / Carta oro, Freccia argento, / ma che tragedia arrivare / ad Agrigento) che assistono alla (s)vendita dell’azienda a una manager russa. Gli interpreti sono di prim’ordine: il baritono Carlo Riccioli, il tenore Max René Cosotti, il soprano Daniela Mazzucato e l’attore Marco Zannoni, che cura anche l’allestimento scenico. L’Orchestra Sinfonica Abruzzese è diretta da Marcello Bufalini, il Coro Zaccaria da Teramo da Paolo Speca.
Riccardo Panfili
Riccardo Panfili, compositore italiano in ascesa, è stato allievo per qualche tempo dello stesso Tosatti e più avanti di Azio Corghi, nel 2006 ha vinto il Primo premio al Concorso Internazionale di Composizione Santa Cecilia di Roma e nel 2011 il Concorso dedicato a Camillo Togni. “Il sig. Frecciarotta, uomo devoto, nonché ardente patriota, fa di professione Capotreno”, spiega Panfili, “e proprio a lui è toccato in sorte di trovarsi in servizio sullo stesso convoglio in cui un manager di Trenilandia sta trattando la (s)vendita della sua società ad una manager di Russki Deraja, importante azienda ferroviaria russa…”.
Giuseppe Pennisi
martedì 21 febbraio 2012
L’Aquila riprende il volo con l’opera low cost in Avvenire 22 febbraio
L’Aquila riprende il volo con l’opera low cost
DI GIUSEPPE PENNISI
I l cento storico de L’Aqui¬la riparte dell’opera. Non nella bella sala del Tea¬tro Comunale, costruito nel¬la seconda metà dell’Otto¬cento, ancora inagibile dal terremoto del 2009. Ma nel ridotto del teatro con un dit¬tico di due opere low cost
prodotto da Accademia Fi¬larmonica Romana, Amici della Musica di Foligno e I¬stituzione Sinfonica Abruz¬zese. La 'prima' è in pro¬gramma a Roma giovedì al Teatro Olimpico; la 'prima' abruzzese a L’Aquila sabato. I lavori sono Partita a pugni .
«un dramma da concerto in un’introduzione e tre rounds» di Vieri Tosatti (composto nel 1952, ma e-seguito per la prima volta nella versione per piccola orchestra del 1964) e la can¬tata ferroviaria del trenten¬ne Riccardo Panfili, Freccia¬rotta ,
in prima esecuzione assoluta. Cast di livello: Car¬lo Riccioli, Max René Cosot¬ti, Daniela Mazzucato. L’Or¬chestra Sinfonica Abruzze¬se è diretta da Marcello Bu¬falini, il Coro Zaccaria da Te¬ramo da Paolo Speca. Mar¬co Zannoni cura l’allesti¬mento scenico (essenziale) ed è in palcoscenico come attore.
Partita a pugni tratta di un match di boxe in una pale¬stra popolare romana, Frec¬ciarotta degli (attualissimi) ritardi di Eurostar mentre Trenitalia viene acquistata da una società ferroviaria russa guidata da una mana¬ger tutta d’un pezzo. Due mini-opere low cost: poco più di un anno fa Avvenire a¬nalizzò come questa è la strada presa da molte città Usa per salvare la lirica. Benjamin Britten l’aveva teorizzata e praticata già 60 anni fa. In Italia, alcuni com¬positori (come Gilberto De¬raco , Marcello Filotei, Nico¬la Sani) la stanno perse¬guendo. È terreno naturale per la produzione di teatro in musica innovativo da par¬te di associazioni private.
Ripartendo dalla lirica, il centro storico de l’Aquila ha precedenti importanti. Le storie del Piano Marshall ri¬cordano che, nell’immedia¬to dopoguerra, il Borgoma¬stro di Vienna presentò la ri-costruzione della Staatsoper come l’opera più urgente. Venne preso, sulle prime, a sberleffi ma il Piano Mar¬shall finanziò gli ultimi lotti del progetto quando ci si re¬se conto che Vienna stava ri-nascendo attorno al 'suo' teatro, i cui lavori venivano sostenuti da contributi pri¬vati e da un’imposta comu¬nale di scopo. Un interes¬sante studio di Olivier Falck (dell’Ifo, il maggior centro di ricerca economica della Re¬pubblica Federale), Michael Fritsch (dell’università di Je¬na) e di Stephan Heblich (del Max-Planck-Institut) ana¬lizza, in tersmini rigorosa¬mente quanitativi, come in 29 aree tedesche, l’esistenza di un teatro d’opera è stata essenziale alla crescita per¬ché ha comportato, da un la¬to, una concentrazione di capitale umano (lavoratori specializzati, musicisti, or¬chestrali, cantanti) e, da un altro, un’apertura al resto del mondo (tramite le compa¬gnie impiegate). Il capitale umano attira altro capitale umano, forma reti di capita¬le sociale ed avvia e sostiene il processo di sviluppo. Con la cultura, si mangia.
DI GIUSEPPE PENNISI
I l cento storico de L’Aqui¬la riparte dell’opera. Non nella bella sala del Tea¬tro Comunale, costruito nel¬la seconda metà dell’Otto¬cento, ancora inagibile dal terremoto del 2009. Ma nel ridotto del teatro con un dit¬tico di due opere low cost
prodotto da Accademia Fi¬larmonica Romana, Amici della Musica di Foligno e I¬stituzione Sinfonica Abruz¬zese. La 'prima' è in pro¬gramma a Roma giovedì al Teatro Olimpico; la 'prima' abruzzese a L’Aquila sabato. I lavori sono Partita a pugni .
«un dramma da concerto in un’introduzione e tre rounds» di Vieri Tosatti (composto nel 1952, ma e-seguito per la prima volta nella versione per piccola orchestra del 1964) e la can¬tata ferroviaria del trenten¬ne Riccardo Panfili, Freccia¬rotta ,
in prima esecuzione assoluta. Cast di livello: Car¬lo Riccioli, Max René Cosot¬ti, Daniela Mazzucato. L’Or¬chestra Sinfonica Abruzze¬se è diretta da Marcello Bu¬falini, il Coro Zaccaria da Te¬ramo da Paolo Speca. Mar¬co Zannoni cura l’allesti¬mento scenico (essenziale) ed è in palcoscenico come attore.
Partita a pugni tratta di un match di boxe in una pale¬stra popolare romana, Frec¬ciarotta degli (attualissimi) ritardi di Eurostar mentre Trenitalia viene acquistata da una società ferroviaria russa guidata da una mana¬ger tutta d’un pezzo. Due mini-opere low cost: poco più di un anno fa Avvenire a¬nalizzò come questa è la strada presa da molte città Usa per salvare la lirica. Benjamin Britten l’aveva teorizzata e praticata già 60 anni fa. In Italia, alcuni com¬positori (come Gilberto De¬raco , Marcello Filotei, Nico¬la Sani) la stanno perse¬guendo. È terreno naturale per la produzione di teatro in musica innovativo da par¬te di associazioni private.
Ripartendo dalla lirica, il centro storico de l’Aquila ha precedenti importanti. Le storie del Piano Marshall ri¬cordano che, nell’immedia¬to dopoguerra, il Borgoma¬stro di Vienna presentò la ri-costruzione della Staatsoper come l’opera più urgente. Venne preso, sulle prime, a sberleffi ma il Piano Mar¬shall finanziò gli ultimi lotti del progetto quando ci si re¬se conto che Vienna stava ri-nascendo attorno al 'suo' teatro, i cui lavori venivano sostenuti da contributi pri¬vati e da un’imposta comu¬nale di scopo. Un interes¬sante studio di Olivier Falck (dell’Ifo, il maggior centro di ricerca economica della Re¬pubblica Federale), Michael Fritsch (dell’università di Je¬na) e di Stephan Heblich (del Max-Planck-Institut) ana¬lizza, in tersmini rigorosa¬mente quanitativi, come in 29 aree tedesche, l’esistenza di un teatro d’opera è stata essenziale alla crescita per¬ché ha comportato, da un la¬to, una concentrazione di capitale umano (lavoratori specializzati, musicisti, or¬chestrali, cantanti) e, da un altro, un’apertura al resto del mondo (tramite le compa¬gnie impiegate). Il capitale umano attira altro capitale umano, forma reti di capita¬le sociale ed avvia e sostiene il processo di sviluppo. Con la cultura, si mangia.
Il boom nasce dal capitale umano Il Soe 24 Ore del 22 febbraio
Il boom nasce dal capitale umano
Giuseppe Pennisi
La storia economica, irrobustita da recenti ricerche quantitative, dimostra che c'è un nesso molto forte tra cultura, da un lato, e sviluppo, dall'altro. Nel 1830, il 43% del Pil mondiale era prodotto e consumato in India e Cina perché il 95% dell'umanità era in mera sussistenza. Un piccolo gruppo di Paesi ha avuto per 150 anni il monopolio del progresso tecnologico – lo dimostrarono già le ricerche di Sven Ingvar Svennilson all'inizio degli anni Cinquanta – grazie al capitale sociale e umano accumulato sin dal Rinascimento a ragione della priorità data dal ceto dirigente alla cultura e all'arte pur se unicamente a fine di ostentazione. John Douglas North lo ha confermato nel breve libro che nel 1991 gli fece meritare il Premio Nobel per l'economia.
Per venire a tempi più recenti e a vicende più vicine a casa nostra, due economisti distinti e distanti (tra di loro e dalle nostre questioni di bottega) hanno spiegato il miracolo economico italiano (ed il suo crepuscolo) in base allo stock di capitale umano e culturale esistente alla fine della seconda guerra mondiale in stato in gran misura latente, in quanto represso nel periodo precedente il conflitto nonché, ancor di più, nella fase di belligeranza: Richard Kindleberger di Harvard, storico economico di formazione neoclassica, e Ferenc Jánossy, ungherese, "political economist" dell'Università di Budapest. Non ebbero modo di leggere l'uno i lavori dell'altro (quelli di Kindleberger non circolavano nelle Repubbliche Popolari e il libro di Janossy venne tradotto dal magiaro al tedesco diversi anni dopo la pubblicazione degli studi di Kindleberger). Arrivarono a spiegazioni molto simili sia di quali furono le molle culturali del "miracolo" sia delle ragioni (tra cui principalmente la riduzione della priorità data a cultura ed istruzione nelle scelte pubbliche a partire dagli anni Sessanta, in sintesi la poca attenzione alla prima se non fosse di parte politica ed il mancato ammodernamento della seconda rimasta alla "riforma Gentile").
Per quanto riguarda la cultura, uno studio recente di Olivier Falck (dell'Ifo, il maggior centro di ricerca economica della Repubblica Federale), Michael Fritsch (dell'università di Jena) e di Stephan Heblich (del Max-Planck-Institut) – pubblicato dall'Iza (l'istituto tedesco di studi sul capitale umano) come Discussion Paper No. 5065 – documenta che la più dispendiosa delle arti sceniche, l'opera lirica, è stata un volano di sviluppo. Il lavoro analizza, in termini rigorosamente quantitativi, come in 29 bacini territoriali tedeschi, l'esistenza di un teatro d'opera sia stata essenziale alla crescita perché ha comportato, da un lato, una concentrazione di capitale umano (lavoratori specializzati, musicisti, orchestrali, cantanti) e, da un altro, un'apertura al resto del mondo (tramite le compagnie di giro). Il capitale umano attira altro capitale umano, forma reti di capitale sociale ed avvia e sostiene il processo di sviluppo.
Per quanto riguarda l'istruzione, alcuni esiti si toccano con mano in un lavoro quantitativo, fresco di stampa, ma poco pubblicizzato, dell'Isfol. Il libro (Istruzione, Formazione e Mercato del Lavoro: I Rendimenti del Capitale Umano in Italia) analizza il tracollo dei tassi di rendimento dell'istruzione. Se non "rende" istruirsi e coltivarsi, vale la pena farlo unicamente per godere di più dei beni e delle attività culturali, ossia solamente per migliorare la qualità dei consumi (sempre che si disponga delle risorse necessarie per fruirne)?
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Giuseppe Pennisi
La storia economica, irrobustita da recenti ricerche quantitative, dimostra che c'è un nesso molto forte tra cultura, da un lato, e sviluppo, dall'altro. Nel 1830, il 43% del Pil mondiale era prodotto e consumato in India e Cina perché il 95% dell'umanità era in mera sussistenza. Un piccolo gruppo di Paesi ha avuto per 150 anni il monopolio del progresso tecnologico – lo dimostrarono già le ricerche di Sven Ingvar Svennilson all'inizio degli anni Cinquanta – grazie al capitale sociale e umano accumulato sin dal Rinascimento a ragione della priorità data dal ceto dirigente alla cultura e all'arte pur se unicamente a fine di ostentazione. John Douglas North lo ha confermato nel breve libro che nel 1991 gli fece meritare il Premio Nobel per l'economia.
Per venire a tempi più recenti e a vicende più vicine a casa nostra, due economisti distinti e distanti (tra di loro e dalle nostre questioni di bottega) hanno spiegato il miracolo economico italiano (ed il suo crepuscolo) in base allo stock di capitale umano e culturale esistente alla fine della seconda guerra mondiale in stato in gran misura latente, in quanto represso nel periodo precedente il conflitto nonché, ancor di più, nella fase di belligeranza: Richard Kindleberger di Harvard, storico economico di formazione neoclassica, e Ferenc Jánossy, ungherese, "political economist" dell'Università di Budapest. Non ebbero modo di leggere l'uno i lavori dell'altro (quelli di Kindleberger non circolavano nelle Repubbliche Popolari e il libro di Janossy venne tradotto dal magiaro al tedesco diversi anni dopo la pubblicazione degli studi di Kindleberger). Arrivarono a spiegazioni molto simili sia di quali furono le molle culturali del "miracolo" sia delle ragioni (tra cui principalmente la riduzione della priorità data a cultura ed istruzione nelle scelte pubbliche a partire dagli anni Sessanta, in sintesi la poca attenzione alla prima se non fosse di parte politica ed il mancato ammodernamento della seconda rimasta alla "riforma Gentile").
Per quanto riguarda la cultura, uno studio recente di Olivier Falck (dell'Ifo, il maggior centro di ricerca economica della Repubblica Federale), Michael Fritsch (dell'università di Jena) e di Stephan Heblich (del Max-Planck-Institut) – pubblicato dall'Iza (l'istituto tedesco di studi sul capitale umano) come Discussion Paper No. 5065 – documenta che la più dispendiosa delle arti sceniche, l'opera lirica, è stata un volano di sviluppo. Il lavoro analizza, in termini rigorosamente quantitativi, come in 29 bacini territoriali tedeschi, l'esistenza di un teatro d'opera sia stata essenziale alla crescita perché ha comportato, da un lato, una concentrazione di capitale umano (lavoratori specializzati, musicisti, orchestrali, cantanti) e, da un altro, un'apertura al resto del mondo (tramite le compagnie di giro). Il capitale umano attira altro capitale umano, forma reti di capitale sociale ed avvia e sostiene il processo di sviluppo.
Per quanto riguarda l'istruzione, alcuni esiti si toccano con mano in un lavoro quantitativo, fresco di stampa, ma poco pubblicizzato, dell'Isfol. Il libro (Istruzione, Formazione e Mercato del Lavoro: I Rendimenti del Capitale Umano in Italia) analizza il tracollo dei tassi di rendimento dell'istruzione. Se non "rende" istruirsi e coltivarsi, vale la pena farlo unicamente per godere di più dei beni e delle attività culturali, ossia solamente per migliorare la qualità dei consumi (sempre che si disponga delle risorse necessarie per fruirne)?
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lunedì 20 febbraio 2012
Così Grecia e Germania sballano "i conti" di Monti in Il Sussidiario del 21 febbraio
GEOFINANZA/ Così Grecia e Germania sballano "i conti" di Monti
Giuseppe Pennisi
martedì 21 febbraio 2012
Mario Monti (Foto Imagoeconomica)
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FINANZA/ Grecia, dai mercati un diktat alla Germania, di M. Bottarelli
RIFORMA FISCALE/ Baldassarri: attenti al "doppio gioco" di Monti sulle tasse
Un atto, non certo l’ultimo, della drammatica vicenda dell’indebitamento della Grecia si sta dipanando di fronte ai nostri occhi mentre stiamo preparando il Piano nazionale di riforme (Pnr) 2012. Non è soltanto il negoziato sul debito greco che fa da fondale alla preparazione dei Pnr (dell’Italia e degli altri). Anche il Portogallo è in guai seri con crescita zero, ove non sottoterra, da almeno dieci anni e il rapporto debito/Pil in ascesa a ragione principalmente della contrazione del reddito nazionale. La Spagna pareva avesse trovato la strada, ma domenica scorsa ci sono state manifestazioni in 87 città contro la normativa di riforma del mercato del lavoro e si annuncia uno sciopero generale. L’Irlanda non è più sulle prime pagine dei giornali, ma i problemi sono ben lungi da essere risolti.
Non è forse il momento di andare oltre le cronache dell’eurozona per riflettere sulle lezioni da tener presente nella redazione del Pnr (nostro e altrui)? Se esaminiamo le caratteristiche delle politiche economiche che hanno caratterizzato gli ultimi vent’anni, vediamo che in quasi tutti i paesi dell’eurozona (la Germania e pochi altri sono le eccezioni) l’attenzione è stata dominata dalle politiche di bilancio di breve periodo: le “manovre” annuali per tenere “i conti pubblici in sicurezza”. La politica monetaria veniva gradualmente trasferita a organi sovranazionali. La politica dei prezzi e dei redditi (il terzo grande strumento di intervento secondo i manuali di politica economica) veniva di fatto abbandonata. E con essa l’attenzione alle politiche strutturali di lungo periodo.
Ciò è tanto più paradossale in quanto proprio in questi lustri l’integrazione economica internazionale e la perdita del monopolio del progresso tecnologico (privativa per 150 anni dell’area atlantica Europa-Nord America) avrebbero richiesto grande attenzione alle politiche strutturali che per loro natura sono di medio e lungo periodo. Ciò spiega come in molti paesi abbiano perso importanza organi come i Consigli economici e sociali (in Italia il Cnel) deputati per la loro composizione e missione alle politiche strutturali e al medio e lungo termine.
Il Pnr (non solo quello italiano) può essere l’occasione per passare dallo short-termism a una maggiore attenzione ai nodi strutturali e a come risolverli. Questo non è mai un compito che può essere assolto soltanto da Governi (specialmente se prossimi al termine della legislatura). L’ottica di medio e lungo periodo deve essere portata anche e soprattutto dalle forze produttive, da quelle che un tempo venivano chiamate la parti sociali, perché il loro apporto è cruciale per individuare i lineamenti di come affrontare un contesto internazionale in rapida trasformazione.
Ciò comporta un nuovo patto sociale sul tipo di quello del 1993? Non necessariamente. Allora il problema di fondo consisteva in come mettersi nelle condizioni di rispettare gli impegni assunti firmando il Trattato di Maastricht e fare parte del gruppo di testa dell’euro. Oggi, invece, consiste in come mettersi, e restare, su un sentiero di crescita sostenibile in una fase di profondo riassetto dell’economia internazionale in cui circa due miliardi di persone sono uscite dalla sussistenza ed entrate nell’economia moderna e sta cambiando drasticamente la struttura mondiale della produzione e dei consumi.
Se l’Europa non trova l’“efficienza adattiva” per far fronte a questa situazione, annasperà per anni impoverendosi sempre di più. Se solo una parte dell’Ue trova tale “efficienza adattiva”, l’Unione, prima o poi, si spaccherà.
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Giuseppe Pennisi
martedì 21 febbraio 2012
Mario Monti (Foto Imagoeconomica)
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FINANZA/ Grecia, dai mercati un diktat alla Germania, di M. Bottarelli
RIFORMA FISCALE/ Baldassarri: attenti al "doppio gioco" di Monti sulle tasse
Un atto, non certo l’ultimo, della drammatica vicenda dell’indebitamento della Grecia si sta dipanando di fronte ai nostri occhi mentre stiamo preparando il Piano nazionale di riforme (Pnr) 2012. Non è soltanto il negoziato sul debito greco che fa da fondale alla preparazione dei Pnr (dell’Italia e degli altri). Anche il Portogallo è in guai seri con crescita zero, ove non sottoterra, da almeno dieci anni e il rapporto debito/Pil in ascesa a ragione principalmente della contrazione del reddito nazionale. La Spagna pareva avesse trovato la strada, ma domenica scorsa ci sono state manifestazioni in 87 città contro la normativa di riforma del mercato del lavoro e si annuncia uno sciopero generale. L’Irlanda non è più sulle prime pagine dei giornali, ma i problemi sono ben lungi da essere risolti.
Non è forse il momento di andare oltre le cronache dell’eurozona per riflettere sulle lezioni da tener presente nella redazione del Pnr (nostro e altrui)? Se esaminiamo le caratteristiche delle politiche economiche che hanno caratterizzato gli ultimi vent’anni, vediamo che in quasi tutti i paesi dell’eurozona (la Germania e pochi altri sono le eccezioni) l’attenzione è stata dominata dalle politiche di bilancio di breve periodo: le “manovre” annuali per tenere “i conti pubblici in sicurezza”. La politica monetaria veniva gradualmente trasferita a organi sovranazionali. La politica dei prezzi e dei redditi (il terzo grande strumento di intervento secondo i manuali di politica economica) veniva di fatto abbandonata. E con essa l’attenzione alle politiche strutturali di lungo periodo.
Ciò è tanto più paradossale in quanto proprio in questi lustri l’integrazione economica internazionale e la perdita del monopolio del progresso tecnologico (privativa per 150 anni dell’area atlantica Europa-Nord America) avrebbero richiesto grande attenzione alle politiche strutturali che per loro natura sono di medio e lungo periodo. Ciò spiega come in molti paesi abbiano perso importanza organi come i Consigli economici e sociali (in Italia il Cnel) deputati per la loro composizione e missione alle politiche strutturali e al medio e lungo termine.
Il Pnr (non solo quello italiano) può essere l’occasione per passare dallo short-termism a una maggiore attenzione ai nodi strutturali e a come risolverli. Questo non è mai un compito che può essere assolto soltanto da Governi (specialmente se prossimi al termine della legislatura). L’ottica di medio e lungo periodo deve essere portata anche e soprattutto dalle forze produttive, da quelle che un tempo venivano chiamate la parti sociali, perché il loro apporto è cruciale per individuare i lineamenti di come affrontare un contesto internazionale in rapida trasformazione.
Ciò comporta un nuovo patto sociale sul tipo di quello del 1993? Non necessariamente. Allora il problema di fondo consisteva in come mettersi nelle condizioni di rispettare gli impegni assunti firmando il Trattato di Maastricht e fare parte del gruppo di testa dell’euro. Oggi, invece, consiste in come mettersi, e restare, su un sentiero di crescita sostenibile in una fase di profondo riassetto dell’economia internazionale in cui circa due miliardi di persone sono uscite dalla sussistenza ed entrate nell’economia moderna e sta cambiando drasticamente la struttura mondiale della produzione e dei consumi.
Se l’Europa non trova l’“efficienza adattiva” per far fronte a questa situazione, annasperà per anni impoverendosi sempre di più. Se solo una parte dell’Ue trova tale “efficienza adattiva”, l’Unione, prima o poi, si spaccherà.
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Il centro storico dell’Aquila ricomincia con l’Opera in Quotidiano Arte 21 febbraio
L’Aquila, 25 febbraio
Il centro storico dell’Aquila ricomincia con l’Opera
Giuseppe Pennisi
Proprio come Vienna nell’immediato secondo dopoguerra. La Commissione del Piano Marshall considerò poco prioritaria la ricostruzione del Teatro dell’Opera sulla Ringstrasse e i viennesi fecero da soli completando il teatro e inaugurandolo con le nove opere più amate prima ancora che gli aiuti degli alleati rimettessero in moto i trasporti pubblici urbani.
A L’Aquila sabato 25 febbraio sono in scena due novità italiane di musica lirica. Debuttano il 23 al Teatro Olimpico di Roma e il 24 si vedranno a Foligno. È una coproduzione dell’Accademia Filarmonica Romana, degli Amici della Musica di Foligno e dell’Istituzione Sinfonica Abruzzese, tre enti privati che hanno optato per due operine “low cost”.
La prima è un dramma da concerto in un’introduzione e tre rounds Partita a pugni di Vieri Tosatti (scritto nel 1952, qui eseguito per la prima volta nella versione per piccola orchestra del ’64) , mentre la seconda, una novità di Riccardo Panfili, è una cantata ferroviaria scritta su libretto di Etierre Seicento, dal titolo Frecciarotta (2012).
Partita a pugni è composta tutta su un testo in romanesco degli anni Cinquanta a firma di Luciano Conosciani, per soggetto un incontro di boxe in una palestra romana; Frecciarotta riflette con ironia la realtà attualissima dei trasporti su rotaia, con un Coro di pendolari frustrati e rassegnati per i continui ritardi dei loro treni (Frecciarossa, Freccia bianca, / Carta oro, Freccia argento, / ma che tragedia arrivare / ad Agrigento) che assistono alla (s)vendita dell’azienda a una manager russa, che lavora per la Rusky deraja…
Interpreti di prim’ordine con il baritono Carlo Riccioli, il tenore Max René Cosotti, il soprano Daniela Mazzucato e l’attore Marco Zannoni che cura anche l’allestimento scenico; l’Orchestra Sinfonica Abruzzese è diretta da Marcello Bufalini, il Coro Zaccaria da Teramo da Paolo Speca.
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Il centro storico dell’Aquila ricomincia con l’Opera
Giuseppe Pennisi
Proprio come Vienna nell’immediato secondo dopoguerra. La Commissione del Piano Marshall considerò poco prioritaria la ricostruzione del Teatro dell’Opera sulla Ringstrasse e i viennesi fecero da soli completando il teatro e inaugurandolo con le nove opere più amate prima ancora che gli aiuti degli alleati rimettessero in moto i trasporti pubblici urbani.
A L’Aquila sabato 25 febbraio sono in scena due novità italiane di musica lirica. Debuttano il 23 al Teatro Olimpico di Roma e il 24 si vedranno a Foligno. È una coproduzione dell’Accademia Filarmonica Romana, degli Amici della Musica di Foligno e dell’Istituzione Sinfonica Abruzzese, tre enti privati che hanno optato per due operine “low cost”.
La prima è un dramma da concerto in un’introduzione e tre rounds Partita a pugni di Vieri Tosatti (scritto nel 1952, qui eseguito per la prima volta nella versione per piccola orchestra del ’64) , mentre la seconda, una novità di Riccardo Panfili, è una cantata ferroviaria scritta su libretto di Etierre Seicento, dal titolo Frecciarotta (2012).
Partita a pugni è composta tutta su un testo in romanesco degli anni Cinquanta a firma di Luciano Conosciani, per soggetto un incontro di boxe in una palestra romana; Frecciarotta riflette con ironia la realtà attualissima dei trasporti su rotaia, con un Coro di pendolari frustrati e rassegnati per i continui ritardi dei loro treni (Frecciarossa, Freccia bianca, / Carta oro, Freccia argento, / ma che tragedia arrivare / ad Agrigento) che assistono alla (s)vendita dell’azienda a una manager russa, che lavora per la Rusky deraja…
Interpreti di prim’ordine con il baritono Carlo Riccioli, il tenore Max René Cosotti, il soprano Daniela Mazzucato e l’attore Marco Zannoni che cura anche l’allestimento scenico; l’Orchestra Sinfonica Abruzzese è diretta da Marcello Bufalini, il Coro Zaccaria da Teramo da Paolo Speca.
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Trenitalia in svendita ai russi, ma nella "cantata ferroviaria" in Il Sussidiario 20 febbraio
OPERA/ Trenitalia in svendita ai russi, ma nella "cantata ferroviaria"
Giuseppe Pennisi
lunedì 20 febbraio 2012
L'Orchestra sinfonica abruzzese
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OPERA/ A Roma quel Pierrot Lunaire che diede inizio alla musica contemporanea
Dopo un’ultima nevicata e una nuova ondata di disservizi, Trenitalia viene messa in (s)vendita a una società ferroviaria russa, la Rusky Deraja, guidata da un amministratore delegato in gonnella che non è a quel posto in virtù di “quote rosa” (là non contano) ma del fatto di essere una matriosca tutta di ferro tale da fare impallidire il nostro Ing. Moretti. Naturalmente la (s)vendita è stata tenuta riservatissima. Non ne sono al corrente né l’opinione pubblica né il Parlamento né il sig. Frecciarotta, uomo devoto, nonché ardente patriota, che fa di professione Capotreno e considera le Ferrovie dello Stato in tutti i suoi aspetti come la Manna dell’Altro. E proprio a lui tocca in sorte di trovarsi in servizio sullo stesso convoglio in cui un manager di Trenilandia sta trattando la (s)vendita della sua società a una manager di Russki Deraja, importante azienda ferroviaria russa, viaggiatori frustrati e rassegnati per i continui ritardi dei loro treni intonano in coro Frecciarossa, Freccia bianca, / Carta oro, Freccia argento, / ma che tragedia arrivare / ad Agrigento.
Questa è la trama della cantata ferroviaria, di Riccardo Panfili, su libretto di Etierre Seicento, Frecciarotta con cui – spiritosi questi abbruzzesi – sabato 25 febbraio viene riaperta la parte agibile del bel Teatro Comunale de L’Aquila. La novità è parte di un dittico, una produzione che vede collaborare insieme Accademia Filarmonica Romana, Amici della musica di Foligno e Istituzione Sinfonica Abruzzese e presentare due opere da camera (che debutteranno a Roma il 23 febbraio). Un’iniziativa da encomiare in una fase di ristrettezze delle risorse per la musica in generale e per il teatro in musica in particolare.
Non sappiamo se il Vice Ministro Ciaccia e l’Ing. Moretti saranno in sala, a Roma o a L’Aquila. Una loro serata all’opera da camera varrebbe la pena perché l’ironia sferzante del libretto e la partitura sgraffiante sono segnali importanti da percepire anche per il loro significato politico. Pare assicurata, a L’Aquila, la presenta di politici ed autorità ed a Roma di rappresentati dell’azionista di Trenitalia (il Ministero dell’Economia e delle Finanze).
Nella messa in scena si fa economia di costumi e attrezzeria ma non di voci e di musica. Interpreti di prim’ordine con il baritono Carlo Riccioli, il tenore Max René Cosotti, il soprano Daniela Mazzucato e l’attore Marco Zannoni che cura anche l’allestimento scenico; l’Orchestra Sinfonica Abruzzese è diretta da Marcello Bufalini, il Coro Zaccaria da Teramo da Paolo Speca.
La cantata ferroviaria è presentata in tandem con Partita a pugni di Vieri Tosatti che sessanta anni fa mise a soqquadro il teatro d’opera del secondo Novecento prima di sparire dai palcoscenici, costretta all’esilio dal suo creatore.
È lo stesso Tosatti a raccontare la genesi e la fortuna dell’opera: “… è stato il mio amico Luciano Conosciani, eccitato dal successo del Sistema della dolcezza, a portarmi quel testo. In un primo momento l’ho preso sottogamba, ma poi ha cominciato a interessarmi soprattutto la parte corale, cioè la parte furibonda del pubblico che assiste all’incontro di boxe: lì viene fuori il lato bestiale della gente che assiste a questo spettacolo ignobile, non c’è niente d’ironico o di buffonesco. Il successo fu grandissimo, tanto che nel 1967 ben sei teatri italiani la misero in programma, ma allora pensai: ‘Adesso basta: è troppo!’, e mandai una lettera a tutti i teatri, proibendo di rappresentare ancora Partita a pugni”.
Considerato il più interessante fra i suoi lavori teatrali sia per l’originalità del soggetto, sia per la vivace espressività della partitura sia, infine, per lo sforzo di integrare il più possibile la parola – con un libretto tutto in romanesco – alla musica attraverso una spontanea ricerca di effetti plateali e del paradosso, Partita a pugni ha luogo interamente in una palestra romana, dove si svolge un incontro di pugilato. L’arbitro chiama sul ring i due pugili: Palletta, incitato dal pubblico, e il suo contendente, alto e magro, intimidito dal tifo sugli spalti per il grande Palletta. Quest’ultimo domina l’incontro mentre l’avversario a mala pena riesce a parare i colpi, tanto che alla fine del secondo round rischia di finire definitivamente al tappeto; ma quando al terzo round Palletta si distrae, l’avversario lo colpisce con un pugno che lo fa crollare al tappeto, ko. Tra i fischi della folla, l’arbitro dichiara Palletta sconfitto.
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Giuseppe Pennisi
lunedì 20 febbraio 2012
L'Orchestra sinfonica abruzzese
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OPERA/ A Roma quel Pierrot Lunaire che diede inizio alla musica contemporanea
Dopo un’ultima nevicata e una nuova ondata di disservizi, Trenitalia viene messa in (s)vendita a una società ferroviaria russa, la Rusky Deraja, guidata da un amministratore delegato in gonnella che non è a quel posto in virtù di “quote rosa” (là non contano) ma del fatto di essere una matriosca tutta di ferro tale da fare impallidire il nostro Ing. Moretti. Naturalmente la (s)vendita è stata tenuta riservatissima. Non ne sono al corrente né l’opinione pubblica né il Parlamento né il sig. Frecciarotta, uomo devoto, nonché ardente patriota, che fa di professione Capotreno e considera le Ferrovie dello Stato in tutti i suoi aspetti come la Manna dell’Altro. E proprio a lui tocca in sorte di trovarsi in servizio sullo stesso convoglio in cui un manager di Trenilandia sta trattando la (s)vendita della sua società a una manager di Russki Deraja, importante azienda ferroviaria russa, viaggiatori frustrati e rassegnati per i continui ritardi dei loro treni intonano in coro Frecciarossa, Freccia bianca, / Carta oro, Freccia argento, / ma che tragedia arrivare / ad Agrigento.
Questa è la trama della cantata ferroviaria, di Riccardo Panfili, su libretto di Etierre Seicento, Frecciarotta con cui – spiritosi questi abbruzzesi – sabato 25 febbraio viene riaperta la parte agibile del bel Teatro Comunale de L’Aquila. La novità è parte di un dittico, una produzione che vede collaborare insieme Accademia Filarmonica Romana, Amici della musica di Foligno e Istituzione Sinfonica Abruzzese e presentare due opere da camera (che debutteranno a Roma il 23 febbraio). Un’iniziativa da encomiare in una fase di ristrettezze delle risorse per la musica in generale e per il teatro in musica in particolare.
Non sappiamo se il Vice Ministro Ciaccia e l’Ing. Moretti saranno in sala, a Roma o a L’Aquila. Una loro serata all’opera da camera varrebbe la pena perché l’ironia sferzante del libretto e la partitura sgraffiante sono segnali importanti da percepire anche per il loro significato politico. Pare assicurata, a L’Aquila, la presenta di politici ed autorità ed a Roma di rappresentati dell’azionista di Trenitalia (il Ministero dell’Economia e delle Finanze).
Nella messa in scena si fa economia di costumi e attrezzeria ma non di voci e di musica. Interpreti di prim’ordine con il baritono Carlo Riccioli, il tenore Max René Cosotti, il soprano Daniela Mazzucato e l’attore Marco Zannoni che cura anche l’allestimento scenico; l’Orchestra Sinfonica Abruzzese è diretta da Marcello Bufalini, il Coro Zaccaria da Teramo da Paolo Speca.
La cantata ferroviaria è presentata in tandem con Partita a pugni di Vieri Tosatti che sessanta anni fa mise a soqquadro il teatro d’opera del secondo Novecento prima di sparire dai palcoscenici, costretta all’esilio dal suo creatore.
È lo stesso Tosatti a raccontare la genesi e la fortuna dell’opera: “… è stato il mio amico Luciano Conosciani, eccitato dal successo del Sistema della dolcezza, a portarmi quel testo. In un primo momento l’ho preso sottogamba, ma poi ha cominciato a interessarmi soprattutto la parte corale, cioè la parte furibonda del pubblico che assiste all’incontro di boxe: lì viene fuori il lato bestiale della gente che assiste a questo spettacolo ignobile, non c’è niente d’ironico o di buffonesco. Il successo fu grandissimo, tanto che nel 1967 ben sei teatri italiani la misero in programma, ma allora pensai: ‘Adesso basta: è troppo!’, e mandai una lettera a tutti i teatri, proibendo di rappresentare ancora Partita a pugni”.
Considerato il più interessante fra i suoi lavori teatrali sia per l’originalità del soggetto, sia per la vivace espressività della partitura sia, infine, per lo sforzo di integrare il più possibile la parola – con un libretto tutto in romanesco – alla musica attraverso una spontanea ricerca di effetti plateali e del paradosso, Partita a pugni ha luogo interamente in una palestra romana, dove si svolge un incontro di pugilato. L’arbitro chiama sul ring i due pugili: Palletta, incitato dal pubblico, e il suo contendente, alto e magro, intimidito dal tifo sugli spalti per il grande Palletta. Quest’ultimo domina l’incontro mentre l’avversario a mala pena riesce a parare i colpi, tanto che alla fine del secondo round rischia di finire definitivamente al tappeto; ma quando al terzo round Palletta si distrae, l’avversario lo colpisce con un pugno che lo fa crollare al tappeto, ko. Tra i fischi della folla, l’arbitro dichiara Palletta sconfitto.
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OPERA, ALL’AQUILA SI “RICOMINCIA” CON UN DITTICO GIOVANE E MODERNO in Il Velino 20 Febbraio
OPERA, ALL’AQUILA SI “RICOMINCIA” CON UN DITTICO GIOVANE E MODERNO
Roma - A quasi tre anni dal terremoto, nel ridotto del Teatro comunale torna la lirica, finora trasferita a Chieti e Teramo. In programma due dissacranti partiture: “Partita a pugni”, dedicata alla boxe, e “Frecciarotta”, sull’odissea delle ferrovie italiane
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Roma - Il centro storico dell’Aquila è ancora pieno di macerie anche perché le promesse del G20, secondo cui ogni Stato avrebbe “adottato” un monumento, non hanno avuto seguito effettivo. Ma nel ridotto del bel Teatro Comunale (palchi, platea e palcoscenico non sono agibili) torna l’opera lirica, di fatto trasferita dal 2009 nei teatri di Chieti e Teramo. Sabato 25 febbraio gran piccolo gala con una nuova produzione che vede collaborare insieme Accademia Filarmonica Romana, Amici della musica di Foligno e Istituzione Sinfonica Abruzzese e presentare due opere da camera, che debutteranno a Roma giovedì 23a prima è “Partita a pugni” di Vieri Tosatti, un dramma da concerto in un’introduzione e tre rounds scritto nel 1952 e qui eseguito per la prima volta nella versione per piccola orchestra del 1964. La seconda è una cantata ferroviaria di Riccardo Panfili, su libretto di Etierre Seicento: “Frecciarotta”. Due dissacranti partiture scritte su altrettanti sferzanti libretti: “Partita a pugni” è composta tutta su un testo in romanesco degli anni Cinquanta a firma di Luciano Conosciani e ha per soggetto un incontro di boxe in una palestra romana; “Frecciarotta” è una commedia grottesca in musica che riflette una realtà dei trasporti su rotaia vissuta e sofferta in questi giorni: coro di pendolari frustrati e rassegnati per i continui ritardi dei loro treni (Frecciarossa, Freccia bianca, / Carta oro, Freccia argento, / ma che tragedia arrivare / ad Agrigento).
Il dittico, che verrà registrato da Rai-Radio3 per successive trasmissioni, debutta al Teatro Olimpico di Roma giovedì 23 febbraio alle ore 21 e sarà replicato il 24 a Foligno e il 25 all’Aquila. Interpreti di prim’ordine con il baritono Carlo Riccioli, il tenore Max René Cosotti, il soprano Daniela Mazzucato e l’attore Marco Zannoni che cura anche l’allestimento scenico; l’Orchestra Sinfonica Abruzzese è diretta da Marcello Bufalini, il Coro Zaccaria da Teramo da Paolo Speca. Collerico, geniale, imprevedibile, Vieri Tosatti (1920-1999) è stato artista a tutto tondo che fu anche poeta, scrittore e direttore d’orchestra. Quasi 60 anni fa “Partita a pugni” mise a soqquadro il teatro d’opera del secondo Novecento prima di sparire dai palcoscenici, costretta all’esilio dal suo creatore. È lo stesso Tosatti a raccontare la genesi e la fortuna dell’opera: “È stato il mio amico Luciano Conosciani, eccitato dal successo del ‘Sistema della dolcezza’, a portarmi quel testo. In un primo momento l’ho preso sottogamba, ma poi ha cominciato a interessarmi soprattutto la parte corale, cioè la parte furibonda del pubblico che assiste all’incontro di boxe: lì viene fuori il lato bestiale della gente che assiste a questo spettacolo ignobile, non c’è niente d’ironico o di buffonesco.
Il successo fu grandissimo, tanto che nel 1967 ben sei teatri italiani la misero in programma, ma allora pensai: ‘Adesso basta: è troppo!’, e mandai una lettera a tutti i teatri, proibendo di rappresentare ancora ‘Partita a pugni’”. Considerato il più interessante fra i suoi lavori teatrali per l’originalità del soggetto, la vivace espressività della partitura e lo sforzo di integrare il più possibile la parola – con un libretto tutto in romanesco – alla musica attraverso una spontanea ricerca di effetti plateali e del paradosso, Partita a pugni ha luogo interamente in una palestra cittadina, dove si svolge un incontro di pugilato. L’arbitro chiama sul ring i due pugili: Palletta, incitato dal pubblico, e il suo contendente, alto e magro, intimidito dal tifo sugli spalti. Quest’ultimo domina l’incontro mentre l’avversario a mala pena riesce a parare i colpi, tanto che alla fine del secondo round rischia di finire definitivamente al tappeto; ma quando al terzo round Palletta si distrae, l’avversario lo colpisce con un pugno che lo fa crollare al tappeto. Tra i fischi della folla, l’arbitro dichiara Palletta sconfitto.
Il 30enne Riccardo Panfili, autore di “Frecciarotta”, allievo per qualche tempo dello stesso Tosatti e più avanti di Azio Corghi, nel 2006 è stato vincitore del Primo premio del Concorso Internazionale di Composizione Santa Cecilia di Roma e nel 2011 del Concorso dedicato a Camillo Togni. A conferma di questo successo ha ricevuto di recente una commissione dal Teatro La Scala di Milano: un pezzo per grande orchestra che sarà eseguito in prima assoluta nella prossima stagione sinfonica. Nella cantata ferroviaria il signor Frecciarotta, uomo devoto, nonché ardente patriota, fa di professione Capotreno. E proprio a lui è toccato in sorte di trovarsi in servizio sullo stesso convoglio in cui un manager di Trenilandia (l’allusione è chiara) sta trattando la (s)vendita della sua società a una manager di Russki Deraja, importante azienda ferroviaria russa. (ilVelino/AGV)
Roma - A quasi tre anni dal terremoto, nel ridotto del Teatro comunale torna la lirica, finora trasferita a Chieti e Teramo. In programma due dissacranti partiture: “Partita a pugni”, dedicata alla boxe, e “Frecciarotta”, sull’odissea delle ferrovie italiane
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Roma - Il centro storico dell’Aquila è ancora pieno di macerie anche perché le promesse del G20, secondo cui ogni Stato avrebbe “adottato” un monumento, non hanno avuto seguito effettivo. Ma nel ridotto del bel Teatro Comunale (palchi, platea e palcoscenico non sono agibili) torna l’opera lirica, di fatto trasferita dal 2009 nei teatri di Chieti e Teramo. Sabato 25 febbraio gran piccolo gala con una nuova produzione che vede collaborare insieme Accademia Filarmonica Romana, Amici della musica di Foligno e Istituzione Sinfonica Abruzzese e presentare due opere da camera, che debutteranno a Roma giovedì 23a prima è “Partita a pugni” di Vieri Tosatti, un dramma da concerto in un’introduzione e tre rounds scritto nel 1952 e qui eseguito per la prima volta nella versione per piccola orchestra del 1964. La seconda è una cantata ferroviaria di Riccardo Panfili, su libretto di Etierre Seicento: “Frecciarotta”. Due dissacranti partiture scritte su altrettanti sferzanti libretti: “Partita a pugni” è composta tutta su un testo in romanesco degli anni Cinquanta a firma di Luciano Conosciani e ha per soggetto un incontro di boxe in una palestra romana; “Frecciarotta” è una commedia grottesca in musica che riflette una realtà dei trasporti su rotaia vissuta e sofferta in questi giorni: coro di pendolari frustrati e rassegnati per i continui ritardi dei loro treni (Frecciarossa, Freccia bianca, / Carta oro, Freccia argento, / ma che tragedia arrivare / ad Agrigento).
Il dittico, che verrà registrato da Rai-Radio3 per successive trasmissioni, debutta al Teatro Olimpico di Roma giovedì 23 febbraio alle ore 21 e sarà replicato il 24 a Foligno e il 25 all’Aquila. Interpreti di prim’ordine con il baritono Carlo Riccioli, il tenore Max René Cosotti, il soprano Daniela Mazzucato e l’attore Marco Zannoni che cura anche l’allestimento scenico; l’Orchestra Sinfonica Abruzzese è diretta da Marcello Bufalini, il Coro Zaccaria da Teramo da Paolo Speca. Collerico, geniale, imprevedibile, Vieri Tosatti (1920-1999) è stato artista a tutto tondo che fu anche poeta, scrittore e direttore d’orchestra. Quasi 60 anni fa “Partita a pugni” mise a soqquadro il teatro d’opera del secondo Novecento prima di sparire dai palcoscenici, costretta all’esilio dal suo creatore. È lo stesso Tosatti a raccontare la genesi e la fortuna dell’opera: “È stato il mio amico Luciano Conosciani, eccitato dal successo del ‘Sistema della dolcezza’, a portarmi quel testo. In un primo momento l’ho preso sottogamba, ma poi ha cominciato a interessarmi soprattutto la parte corale, cioè la parte furibonda del pubblico che assiste all’incontro di boxe: lì viene fuori il lato bestiale della gente che assiste a questo spettacolo ignobile, non c’è niente d’ironico o di buffonesco.
Il successo fu grandissimo, tanto che nel 1967 ben sei teatri italiani la misero in programma, ma allora pensai: ‘Adesso basta: è troppo!’, e mandai una lettera a tutti i teatri, proibendo di rappresentare ancora ‘Partita a pugni’”. Considerato il più interessante fra i suoi lavori teatrali per l’originalità del soggetto, la vivace espressività della partitura e lo sforzo di integrare il più possibile la parola – con un libretto tutto in romanesco – alla musica attraverso una spontanea ricerca di effetti plateali e del paradosso, Partita a pugni ha luogo interamente in una palestra cittadina, dove si svolge un incontro di pugilato. L’arbitro chiama sul ring i due pugili: Palletta, incitato dal pubblico, e il suo contendente, alto e magro, intimidito dal tifo sugli spalti. Quest’ultimo domina l’incontro mentre l’avversario a mala pena riesce a parare i colpi, tanto che alla fine del secondo round rischia di finire definitivamente al tappeto; ma quando al terzo round Palletta si distrae, l’avversario lo colpisce con un pugno che lo fa crollare al tappeto. Tra i fischi della folla, l’arbitro dichiara Palletta sconfitto.
Il 30enne Riccardo Panfili, autore di “Frecciarotta”, allievo per qualche tempo dello stesso Tosatti e più avanti di Azio Corghi, nel 2006 è stato vincitore del Primo premio del Concorso Internazionale di Composizione Santa Cecilia di Roma e nel 2011 del Concorso dedicato a Camillo Togni. A conferma di questo successo ha ricevuto di recente una commissione dal Teatro La Scala di Milano: un pezzo per grande orchestra che sarà eseguito in prima assoluta nella prossima stagione sinfonica. Nella cantata ferroviaria il signor Frecciarotta, uomo devoto, nonché ardente patriota, fa di professione Capotreno. E proprio a lui è toccato in sorte di trovarsi in servizio sullo stesso convoglio in cui un manager di Trenilandia (l’allusione è chiara) sta trattando la (s)vendita della sua società a una manager di Russki Deraja, importante azienda ferroviaria russa. (ilVelino/AGV)
domenica 19 febbraio 2012
Roma e Palermo uniscono le loro forze per una nuova Butterflyin Quotidiano Arte del 20 febbraio
Domani 21 febbraio debutta a Roma Al Teatro dell'Opera e inn autunno al Teatro Massimo
Roma e Palermo uniscono le loro forze per una nuova Butterfly
Giuseppe Pennisi
Seguendo il buon senso, prima ancora che le indicazioni dei decreti legislativi sulla riorganizzazione dei teatri lirici (in corso di confezione), il Teatro dell’Opera di Roma e il Teatro Massimo di Palermo hanno prodotto insieme un nuovo allestimento di Madama Butterfly che, la prossima stagione, potrebbe girare anche in altri teatri italiani in quanto prevede un apparato scenico elegante ma sobrio e trasportabile.
Domani 21 febbraio debutta a Roma, sarà a Palermo in autunno. Dirige un maestro concertatore di livello: Pinchas Steinberg.
Una novità è la regia di Giorgio Ferrara, noto per i suoi lavori nel cinema e nella prosa; è al debutto con lirica e, senza dubbio, darà un taglio nuovo al lavoro. Le scene sono firmate da Gianni Quaranta, i costumi da Maurizio Galante e le luci da Daniele Nannuzzi. Non è nuova a Madama Butterfly, la protagonista Daniela Dessì, che è approdata al difficile ruolo del verismo visionario di Puccini partendo dal belcanto e da Pegolesi. Accanto a lei un tenore poco noto in Italia ma di grandi qualità vocali come Alexey Dolgov nel ruolo di Pinkerton: siberiano, giovane e attraente è una delle stelle del Metropolitan, del Covent Garden e del Nationaltheater di Monaco. I personaggi che ruotano intorno ai protagonisti saranno interpretati da Anna Malavasi (Suzuki), Audun Iversen (Sharpless), Saverio Fiore (Goro), Pietro Picone (Principe Yamadori) e Anastasia Boldyreva (Kate Pinkerton).
E da tempo iniziata una vera e propria corsa ai rari biglietti ancora in vendita.
Roma e Palermo uniscono le loro forze per una nuova Butterfly
Giuseppe Pennisi
Seguendo il buon senso, prima ancora che le indicazioni dei decreti legislativi sulla riorganizzazione dei teatri lirici (in corso di confezione), il Teatro dell’Opera di Roma e il Teatro Massimo di Palermo hanno prodotto insieme un nuovo allestimento di Madama Butterfly che, la prossima stagione, potrebbe girare anche in altri teatri italiani in quanto prevede un apparato scenico elegante ma sobrio e trasportabile.
Domani 21 febbraio debutta a Roma, sarà a Palermo in autunno. Dirige un maestro concertatore di livello: Pinchas Steinberg.
Una novità è la regia di Giorgio Ferrara, noto per i suoi lavori nel cinema e nella prosa; è al debutto con lirica e, senza dubbio, darà un taglio nuovo al lavoro. Le scene sono firmate da Gianni Quaranta, i costumi da Maurizio Galante e le luci da Daniele Nannuzzi. Non è nuova a Madama Butterfly, la protagonista Daniela Dessì, che è approdata al difficile ruolo del verismo visionario di Puccini partendo dal belcanto e da Pegolesi. Accanto a lei un tenore poco noto in Italia ma di grandi qualità vocali come Alexey Dolgov nel ruolo di Pinkerton: siberiano, giovane e attraente è una delle stelle del Metropolitan, del Covent Garden e del Nationaltheater di Monaco. I personaggi che ruotano intorno ai protagonisti saranno interpretati da Anna Malavasi (Suzuki), Audun Iversen (Sharpless), Saverio Fiore (Goro), Pietro Picone (Principe Yamadori) e Anastasia Boldyreva (Kate Pinkerton).
E da tempo iniziata una vera e propria corsa ai rari biglietti ancora in vendita.
sabato 18 febbraio 2012
Il libro dei sette sigilli La Germania nazista tra musica e politica in Il Riformista del 19 febbraio
Il libro dei sette sigilli
La Germania nazista
tra musica e politica
di Giuseppe Pennisi
La musica classificata come “degenerata” in epoca nazista è tornata ad essere eseguita. Come quella di Franz Schmidt ascoltata nei giorni scorsi alla Sala Santa Cecilia di Roma. Mentre quella italiana dello stesso periodo sta ricominciando solo ora a tornare sulle scene.
Nella foto: Franz Schmidt
La sera del 15 giugno 1938 la Vienna nazista tremò. Ascoltando il portentoso “Hallelujah!” che veniva dalla Sala d’Oro del Musikverein dove era in corso un concerto per i cinquant’anni dalla fondazione dell’Associazione degli Amici della Musica. Con l’ “Hallelujah!” terminava, dopo due ore senza intervallo, Das Buch mit sieben Siegeln (Il libro dei sette sigilli, dall’Apocalisse) di Franz Schmidt che si è ascoltato nelle settimane scorse alla Sala Santa Cecilia del Parco della Musica a Roma. Una vera sorpresa, raramente eseguita in Italia, e pure nel mondo di cultura germanica. Par di ricordare che nella Penisola si è ascoltata in Vaticano, alla presenza di Pio XII negli anni Cinquanta, e successivamente nel 2003 per inaugurare il Festival di Musica Sacra Anima Mundi a Pisa. Al di là degli aspetti musicali, l’oratorio (di cui esistono due pregevoli edizioni discografiche) svela alcuni lati poco conosciuti nei rapporti tra musica e politica negli anni Trenta (e nei loro riflessi ancora oggi).
Chi scrive ha dedicato al tema un breve saggio nell’ultimo numero de La Nuova Antologia senza, però, trattare il punto della «minoranza silenziosa ma che morde» di cui l’oratorio di Schmidt è un esempio importante. L’11 febbraio, in una Roma paralizzata dalla neve e con il divieto di circolare senza catene o pneumatici all’uopo, non c’erano più di mille persone nella Sala Santa Cecilia (che ne contiene 2.832) ma ci sono stati quindici minuti di applausi- segno che il lavoro affascina ancora.
Torniamo alle circostanze della sua prima esecuzione. Erano passate poche settimane dal referendum-farsa del 10 aprile con cui si era consumata l’annessione dell’Austria al Reich; con l’oratorio, Schmidt volle dare un carattere ecumenico all’appello all’Alto contro le dittature, un chiaro e forte “non ci sto” a nome di tutta la cristianità. Lo diedero anche i soci del Musikverein. Il musicista, cattolico praticante che aveva da poco perso la figlia e la cui moglie malata sarebbe stata uccisa nel programma nazista di eugenetica, utilizzava il testo dell’Apocalisse di San Giovanni nella traduzione di Martin Lutero. Pochi mesi prima, Schmidt, rettore del Accademia Musicale di Vienna, aveva raccomandato (lo racconta Micheal Steinberg in The Symphony, Oxford University Press 1995) ad un gruppo di suoi allievi di chiare tendenze naziste di studiare le Variazioni su un tema ebraico di Israel Brandman; i ragazzi restarono stupefatti e chiesero (con garbo, ma con fermezza) un’altra esercitazione. Nella Vienna degli anni Venti e Trenta gran parte dei suoi amici erano ebrei. Oskar Adler, forse il suo collega più caro, racconta come venne aiutato da Schmidt a scappare poche settimane prima del debutto del Das Buch mit sieben Siegeln e come altri ebrei riuscirono a passare il confine grazie all’intervento del compositore che godeva di grande autorevolezza grazie al suo ruolo istituzionale.
Perché i nazisti, allora al Governo a Vienna, non solo non bloccarono l’esecuzione di Das Buch mit sieben Siegeln ma anzi offrirono a Schmidt di comporre una cantata sulla Resurrezione Tedesca,, lavoro che mai completò e che, dopo la sua morte l’11 febbraio del 1939, venne terminato da Robert Wagner? Schmidt pur se ancora relativamente giovane (era nato il 22 dicembre 1874 in quella che allora era la parte ungherese della Duplice Monarchia), ma severamente ammalato di cuore, riversò le sue energie in un quintetto piuttosto che nella Cantata che sarebbe stata lautamente compensata ma anche strumentalizzata come adesione al Reich.
In breve, i nazisti non lo infastidirono perché esponente di spicco del mondo intellettuale cristiano. Tentarono senza esito di stabilire una coesistenza pacifica. Come avevano fatto con Wilhelm Furtwängler a Berlino (i dettagli sono descritti in L’Orchestra del Reich di Misha Aster, Zecchini Editore 2011) o con Richard Strauss a Monaco (si veda La Serpe al Seno di Mario Bortolotto, Adelphi 2007). Furtwängler fu abilissimo a non compromettere la “sua” orchestra (e a porre al riparo strumentisti ebrei) e a tenere rapporti cordiali con i “potere costituiti”.
Al Nationaltheater di Monaco, Strauss, presidente della Federazione dei Musicisti Tedeschi, a 78 anni, il 28 ottobre del 1942, con la sua ultima opera (anzi una “conversazione in musica”) Capriccio, proclamava al mondo che qualsiasi scelta avrebbe dovuto avere come stella polare la libertà. Tale minoranza intellettuale silenziosa era un tallone d’Achille per un regime autoritario ma debole e corrotto (Hans Adler, diventato vicedirettore del Bilancio dell’Amministrazione Eisenhower ricorda come, con il denaro, sua madre riuscì a far rilasciare cugini internati a Auschwitz). I nazisti erano consapevoli di non potere avere l’appoggio solo del “compositore di Corte”, Carl Orff, il cui lavoro più noto (Carmina Burana) viene oggi suonato spesso ai Festival dell’Unità, dimenticando che è stato scritto per un’adunata dei giovani hitleriani.
L’intreccio tra musica e politica era complesso nella Germania nazista, così come nell’Italia fascista (lo documenta Stefano Biguzzi in L’orchestra del Duce Utet 2003). Quasi tutta la musica classificata come “degenerata” in epoca nazista è tornata nelle sale e nei teatri. Quella italiana dello stesso periodo sta ricominciando solo ora ad essere eseguita grazie ad un programma dell’Orchestra Sinfonica di Roma sostenuto dalla Fondazione Roma.
Torniamo a Das Buch mit sieben Siegeln. Su Schmidt, autore di un paio di opere (di cui una molto rappresentata all’inizio del secolo scorso) e alcune sinfonie, è gravata per anni la maledizione di aver avuto la commissione (mai completata) per la cantata sulla Resurrezione Tedesca. Inoltre, pur se aveva dimestichezza con musica atonale e dodecafonica (era grande amico di Schoenberg e Berg), per la composizione scelse un linguaggio basato su Bruckner, un lessico musicale immaginifico, nobile, profondo e soprattutto di grande impatto emotivo. Ma considerato “datato” negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale. Appartiene alla musica “obliata” di un periodo che si vuole accantonare come se non ci fosse mai stato.
L’esecuzione richiede un enorme organico orchestrale e corale, un organista solista e tra le voci un tenore dalla tessitura altissima per dar corpo a San Giovanni (che è in scena per tutto il tempo e canta quasi sempre). È un lavoro cupo, specialmente nella prima parte, quando i quattro cavalieri dell’Apocalisse sembrano presagire la seconda guerra mondiale; Schmidt aveva vissuto e sofferto la prima. L’Accademia ha curato una produzione di grande livello: la bacchetta di Leopold Hager; Herbert Lippert (uno strepitoso Giovanni), Günther Groissböck (La voce di Dio), e Maureen Mc Kay, Stephanie Atanasov , Timothy Oliver Jacques-Greg Belobo in vari ruoli; all’organo Michael Schönheit. Speriamo ne esca un Cd.
La Germania nazista
tra musica e politica
di Giuseppe Pennisi
La musica classificata come “degenerata” in epoca nazista è tornata ad essere eseguita. Come quella di Franz Schmidt ascoltata nei giorni scorsi alla Sala Santa Cecilia di Roma. Mentre quella italiana dello stesso periodo sta ricominciando solo ora a tornare sulle scene.
Nella foto: Franz Schmidt
La sera del 15 giugno 1938 la Vienna nazista tremò. Ascoltando il portentoso “Hallelujah!” che veniva dalla Sala d’Oro del Musikverein dove era in corso un concerto per i cinquant’anni dalla fondazione dell’Associazione degli Amici della Musica. Con l’ “Hallelujah!” terminava, dopo due ore senza intervallo, Das Buch mit sieben Siegeln (Il libro dei sette sigilli, dall’Apocalisse) di Franz Schmidt che si è ascoltato nelle settimane scorse alla Sala Santa Cecilia del Parco della Musica a Roma. Una vera sorpresa, raramente eseguita in Italia, e pure nel mondo di cultura germanica. Par di ricordare che nella Penisola si è ascoltata in Vaticano, alla presenza di Pio XII negli anni Cinquanta, e successivamente nel 2003 per inaugurare il Festival di Musica Sacra Anima Mundi a Pisa. Al di là degli aspetti musicali, l’oratorio (di cui esistono due pregevoli edizioni discografiche) svela alcuni lati poco conosciuti nei rapporti tra musica e politica negli anni Trenta (e nei loro riflessi ancora oggi).
Chi scrive ha dedicato al tema un breve saggio nell’ultimo numero de La Nuova Antologia senza, però, trattare il punto della «minoranza silenziosa ma che morde» di cui l’oratorio di Schmidt è un esempio importante. L’11 febbraio, in una Roma paralizzata dalla neve e con il divieto di circolare senza catene o pneumatici all’uopo, non c’erano più di mille persone nella Sala Santa Cecilia (che ne contiene 2.832) ma ci sono stati quindici minuti di applausi- segno che il lavoro affascina ancora.
Torniamo alle circostanze della sua prima esecuzione. Erano passate poche settimane dal referendum-farsa del 10 aprile con cui si era consumata l’annessione dell’Austria al Reich; con l’oratorio, Schmidt volle dare un carattere ecumenico all’appello all’Alto contro le dittature, un chiaro e forte “non ci sto” a nome di tutta la cristianità. Lo diedero anche i soci del Musikverein. Il musicista, cattolico praticante che aveva da poco perso la figlia e la cui moglie malata sarebbe stata uccisa nel programma nazista di eugenetica, utilizzava il testo dell’Apocalisse di San Giovanni nella traduzione di Martin Lutero. Pochi mesi prima, Schmidt, rettore del Accademia Musicale di Vienna, aveva raccomandato (lo racconta Micheal Steinberg in The Symphony, Oxford University Press 1995) ad un gruppo di suoi allievi di chiare tendenze naziste di studiare le Variazioni su un tema ebraico di Israel Brandman; i ragazzi restarono stupefatti e chiesero (con garbo, ma con fermezza) un’altra esercitazione. Nella Vienna degli anni Venti e Trenta gran parte dei suoi amici erano ebrei. Oskar Adler, forse il suo collega più caro, racconta come venne aiutato da Schmidt a scappare poche settimane prima del debutto del Das Buch mit sieben Siegeln e come altri ebrei riuscirono a passare il confine grazie all’intervento del compositore che godeva di grande autorevolezza grazie al suo ruolo istituzionale.
Perché i nazisti, allora al Governo a Vienna, non solo non bloccarono l’esecuzione di Das Buch mit sieben Siegeln ma anzi offrirono a Schmidt di comporre una cantata sulla Resurrezione Tedesca,, lavoro che mai completò e che, dopo la sua morte l’11 febbraio del 1939, venne terminato da Robert Wagner? Schmidt pur se ancora relativamente giovane (era nato il 22 dicembre 1874 in quella che allora era la parte ungherese della Duplice Monarchia), ma severamente ammalato di cuore, riversò le sue energie in un quintetto piuttosto che nella Cantata che sarebbe stata lautamente compensata ma anche strumentalizzata come adesione al Reich.
In breve, i nazisti non lo infastidirono perché esponente di spicco del mondo intellettuale cristiano. Tentarono senza esito di stabilire una coesistenza pacifica. Come avevano fatto con Wilhelm Furtwängler a Berlino (i dettagli sono descritti in L’Orchestra del Reich di Misha Aster, Zecchini Editore 2011) o con Richard Strauss a Monaco (si veda La Serpe al Seno di Mario Bortolotto, Adelphi 2007). Furtwängler fu abilissimo a non compromettere la “sua” orchestra (e a porre al riparo strumentisti ebrei) e a tenere rapporti cordiali con i “potere costituiti”.
Al Nationaltheater di Monaco, Strauss, presidente della Federazione dei Musicisti Tedeschi, a 78 anni, il 28 ottobre del 1942, con la sua ultima opera (anzi una “conversazione in musica”) Capriccio, proclamava al mondo che qualsiasi scelta avrebbe dovuto avere come stella polare la libertà. Tale minoranza intellettuale silenziosa era un tallone d’Achille per un regime autoritario ma debole e corrotto (Hans Adler, diventato vicedirettore del Bilancio dell’Amministrazione Eisenhower ricorda come, con il denaro, sua madre riuscì a far rilasciare cugini internati a Auschwitz). I nazisti erano consapevoli di non potere avere l’appoggio solo del “compositore di Corte”, Carl Orff, il cui lavoro più noto (Carmina Burana) viene oggi suonato spesso ai Festival dell’Unità, dimenticando che è stato scritto per un’adunata dei giovani hitleriani.
L’intreccio tra musica e politica era complesso nella Germania nazista, così come nell’Italia fascista (lo documenta Stefano Biguzzi in L’orchestra del Duce Utet 2003). Quasi tutta la musica classificata come “degenerata” in epoca nazista è tornata nelle sale e nei teatri. Quella italiana dello stesso periodo sta ricominciando solo ora ad essere eseguita grazie ad un programma dell’Orchestra Sinfonica di Roma sostenuto dalla Fondazione Roma.
Torniamo a Das Buch mit sieben Siegeln. Su Schmidt, autore di un paio di opere (di cui una molto rappresentata all’inizio del secolo scorso) e alcune sinfonie, è gravata per anni la maledizione di aver avuto la commissione (mai completata) per la cantata sulla Resurrezione Tedesca. Inoltre, pur se aveva dimestichezza con musica atonale e dodecafonica (era grande amico di Schoenberg e Berg), per la composizione scelse un linguaggio basato su Bruckner, un lessico musicale immaginifico, nobile, profondo e soprattutto di grande impatto emotivo. Ma considerato “datato” negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale. Appartiene alla musica “obliata” di un periodo che si vuole accantonare come se non ci fosse mai stato.
L’esecuzione richiede un enorme organico orchestrale e corale, un organista solista e tra le voci un tenore dalla tessitura altissima per dar corpo a San Giovanni (che è in scena per tutto il tempo e canta quasi sempre). È un lavoro cupo, specialmente nella prima parte, quando i quattro cavalieri dell’Apocalisse sembrano presagire la seconda guerra mondiale; Schmidt aveva vissuto e sofferto la prima. L’Accademia ha curato una produzione di grande livello: la bacchetta di Leopold Hager; Herbert Lippert (uno strepitoso Giovanni), Günther Groissböck (La voce di Dio), e Maureen Mc Kay, Stephanie Atanasov , Timothy Oliver Jacques-Greg Belobo in vari ruoli; all’organo Michael Schönheit. Speriamo ne esca un Cd.
La prossima pedina sarà il Portogallo in Avvenire 19 febbraio
La prossima pedina sarà il Portogallo
DI GIUSEPPE PENNISI
I
portoghesi hanno inventato il fado
prendendolo dalle melanco¬niche cantilene arabe. E melanconia si respira anche nelle più ele¬ganti strade di Lisbona, come Aveni¬da de la Libertate, Plaça do Com¬mercio, Rua Augusta. La troika è arrivata nella capitale e sta spulciando i conti portoghesi. Il maggio scorso, Ue e Imf concessero un prestito di 78 miliardi di euro che sarebbe dovuto essere «risolutivo», secondo i comu¬nicati esultanti dell’epoca; governo e parlamento hanno applicato a pun¬tino, e a menadito le richieste previ¬ste nell’accordo con cui si conclude¬va il prestito. Allora, il rapporto tra stock di debito e Pil del Portogallo era il 107% e sarebbe bastato poco, si pensava, per portarlo 'in sicurezza' (ossia al di sotto del 90%). Oggi le pre¬visioni per 2012 dicono che sta per superare il 110%, e quelle per il 2013 parlano di «almeno» il 18%. Si sono sbagliati i medici, o il paziente era più grave di quanto si pensasse? Oppu¬re, ancora, ha fatto il birichino (come la Grecia per 10 anni) fingendo di prendere le medicine e di tenere u¬na dieta rigorosa, mentre buttava le prime e si rimpinzava segretamen¬te?
Dopo il prestito del maggio scorso, è stato chiamato un governo con una maggiore caratura tecnica. Victor Ga¬spar, alla guida dell’economia e del¬le finanze, è un economista reputa¬to a livello internazionale; è stato di¬rettore del Servizio studi della Bce. Ha ridotto di un terzo il disavanzo di bilancio, aumentando il carico tri¬butario e congelando - e in certi ca¬si riducendo - gli stipendi nel pub¬blico impiego. La Confindustria e i sindacati hanno raggiunto un ac¬conto per contenere salari e stipen¬di nel privato. Ora sta estendendo la medicina alle pensioni con una nuo¬vi riforma che dovrebbe fare cassa immediata, inducendo a restare più a lungo al lavoro. Ha avuto applausi dai suoi ex-colleghi della Bce e del Fondo monetario. Tuttavia, gli effet¬ti collaterali della cura non hanno si-nora facilitato le cose: il Pil ha subìto una contrazione dell’1,5% nel 2011, se ne prevede una del 3% per il 2012. Gaspar afferma che, grazie alle leggi di stabilità da lui proposte, dal 2014 l’economia crescerà almeno del 2% l’anno. I suoi colleghi delle univer¬sità di Lisbona e Coimbra sono scet¬tici. Pedro Lains della facoltà di Eco¬nomia di Lisbona, ad esempio, pro¬pone una terapia alternativa: una ri¬strutturazione del debito (se neces¬sario con insolvenza nei confronti dei creditori 'che non ci stanno'), e una politica economica di crescita. Per la troika, tale alternativa è un anatema. Il nodo di fondo è che il Portogallo non cresce da quando è entrato nel¬l’eurozona. Francesco Giavazzi e Lui¬gi Spaventa hanno dimostrato circa un anno fa che da allora il Paese ha avuto crescenti problemi di bilancia dei pagamenti, che hanno causato un aumento rapido del credito tota¬le interno che ha generato bolle (co¬me quella immobiliare), ma non svi¬luppo. I portoghesi hanno cercato di orientare il credito interno e i fondi strutturali europei verso il 'loro' Mezzogiorno, il Nord. I risultati an¬cora non si vedono (e chissà se si ve¬dranno mai), a ragione della povera dotazione dell’area in risorse natu¬rali ed umane. Da questa vicenda, c’è qualcosa da apprendere anche per l’Italia.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
l’analisi
Dall’ingresso nell’eurozona il Paese non cresce più, nonostante abbia già ricevuto prestiti per 78 miliardi di euro
DI GIUSEPPE PENNISI
I
portoghesi hanno inventato il fado
prendendolo dalle melanco¬niche cantilene arabe. E melanconia si respira anche nelle più ele¬ganti strade di Lisbona, come Aveni¬da de la Libertate, Plaça do Com¬mercio, Rua Augusta. La troika è arrivata nella capitale e sta spulciando i conti portoghesi. Il maggio scorso, Ue e Imf concessero un prestito di 78 miliardi di euro che sarebbe dovuto essere «risolutivo», secondo i comu¬nicati esultanti dell’epoca; governo e parlamento hanno applicato a pun¬tino, e a menadito le richieste previ¬ste nell’accordo con cui si conclude¬va il prestito. Allora, il rapporto tra stock di debito e Pil del Portogallo era il 107% e sarebbe bastato poco, si pensava, per portarlo 'in sicurezza' (ossia al di sotto del 90%). Oggi le pre¬visioni per 2012 dicono che sta per superare il 110%, e quelle per il 2013 parlano di «almeno» il 18%. Si sono sbagliati i medici, o il paziente era più grave di quanto si pensasse? Oppu¬re, ancora, ha fatto il birichino (come la Grecia per 10 anni) fingendo di prendere le medicine e di tenere u¬na dieta rigorosa, mentre buttava le prime e si rimpinzava segretamen¬te?
Dopo il prestito del maggio scorso, è stato chiamato un governo con una maggiore caratura tecnica. Victor Ga¬spar, alla guida dell’economia e del¬le finanze, è un economista reputa¬to a livello internazionale; è stato di¬rettore del Servizio studi della Bce. Ha ridotto di un terzo il disavanzo di bilancio, aumentando il carico tri¬butario e congelando - e in certi ca¬si riducendo - gli stipendi nel pub¬blico impiego. La Confindustria e i sindacati hanno raggiunto un ac¬conto per contenere salari e stipen¬di nel privato. Ora sta estendendo la medicina alle pensioni con una nuo¬vi riforma che dovrebbe fare cassa immediata, inducendo a restare più a lungo al lavoro. Ha avuto applausi dai suoi ex-colleghi della Bce e del Fondo monetario. Tuttavia, gli effet¬ti collaterali della cura non hanno si-nora facilitato le cose: il Pil ha subìto una contrazione dell’1,5% nel 2011, se ne prevede una del 3% per il 2012. Gaspar afferma che, grazie alle leggi di stabilità da lui proposte, dal 2014 l’economia crescerà almeno del 2% l’anno. I suoi colleghi delle univer¬sità di Lisbona e Coimbra sono scet¬tici. Pedro Lains della facoltà di Eco¬nomia di Lisbona, ad esempio, pro¬pone una terapia alternativa: una ri¬strutturazione del debito (se neces¬sario con insolvenza nei confronti dei creditori 'che non ci stanno'), e una politica economica di crescita. Per la troika, tale alternativa è un anatema. Il nodo di fondo è che il Portogallo non cresce da quando è entrato nel¬l’eurozona. Francesco Giavazzi e Lui¬gi Spaventa hanno dimostrato circa un anno fa che da allora il Paese ha avuto crescenti problemi di bilancia dei pagamenti, che hanno causato un aumento rapido del credito tota¬le interno che ha generato bolle (co¬me quella immobiliare), ma non svi¬luppo. I portoghesi hanno cercato di orientare il credito interno e i fondi strutturali europei verso il 'loro' Mezzogiorno, il Nord. I risultati an¬cora non si vedono (e chissà se si ve¬dranno mai), a ragione della povera dotazione dell’area in risorse natu¬rali ed umane. Da questa vicenda, c’è qualcosa da apprendere anche per l’Italia.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
l’analisi
Dall’ingresso nell’eurozona il Paese non cresce più, nonostante abbia già ricevuto prestiti per 78 miliardi di euro
venerdì 17 febbraio 2012
Musica leggera e jazz dentro l'opera di Brecht in Milano Finanza 18 febbraio
InCUFFIA
Musica leggera e jazz dentro l'opera di Brecht
di Giuseppe Pennisi
L'Opera da tre soldi di Bertold Brecht e Kurt Weill è il lavoro di teatro in musica più rappresentato in questa stagione. Due compagnie lo portano in tournée, una ha iniziato il viaggio al Verdi di Trieste e ha toccato alcune città del Sud. Dal San Carlo di Napoli è a Roma (fino al 19 febbraio) e andrà poi all'Alighieri di Ravenna dal 21 al 23 febbraio e alla Fenice di Venezia dal 7 all'11 marzo.
Una differente edizione copre il circuito toscano. L'opera approda a Lucca il 25 febbraio. A differenza di altri lavori di Brecht e Weill (per esempio Mahagonny) che richiedono voci per la lirica, l'Opera da tre soldi necessita di un organico orchestrale di piccole dimensioni e di un solo ruolo per un soprano di agilità. Gli altri si prestano a cantanti di musica leggera. È preferibile l'originale tedesco (con sovratitoli) per l'accurato intreccio tra parole e note, ma è invalsa la consuetudine di utilizzare versioni in italiano (qualche anno fa al Comunale di Bologna si usò il dialetto locale). Nell'allestimento del Napoli Teatro Festival (il più elaborato dei due), si opta per un napoletano comprensibile a tutti: la vicenda è trasportata dalla Londra del Settecento alla Napoli dal dopoguerra a oggi. Massimo Ranieri, con la voce brunita al passare degli anni e ora quasi baritonale, fa da mattatore. Buona Lina Sastri in un ruolo cucito a misura per Lotte Lenya. Di livello Gaia Aprea e gli altri. Il complesso orchestrale, guidato da Francesco Lanzillotta, miscela bene jazz e cabaret. Il pubblico si diverte ma l'Opera da tre soldi è un'altra cosa. (riproduzione riservata)
• jazz
Musica leggera e jazz dentro l'opera di Brecht
di Giuseppe Pennisi
L'Opera da tre soldi di Bertold Brecht e Kurt Weill è il lavoro di teatro in musica più rappresentato in questa stagione. Due compagnie lo portano in tournée, una ha iniziato il viaggio al Verdi di Trieste e ha toccato alcune città del Sud. Dal San Carlo di Napoli è a Roma (fino al 19 febbraio) e andrà poi all'Alighieri di Ravenna dal 21 al 23 febbraio e alla Fenice di Venezia dal 7 all'11 marzo.
Una differente edizione copre il circuito toscano. L'opera approda a Lucca il 25 febbraio. A differenza di altri lavori di Brecht e Weill (per esempio Mahagonny) che richiedono voci per la lirica, l'Opera da tre soldi necessita di un organico orchestrale di piccole dimensioni e di un solo ruolo per un soprano di agilità. Gli altri si prestano a cantanti di musica leggera. È preferibile l'originale tedesco (con sovratitoli) per l'accurato intreccio tra parole e note, ma è invalsa la consuetudine di utilizzare versioni in italiano (qualche anno fa al Comunale di Bologna si usò il dialetto locale). Nell'allestimento del Napoli Teatro Festival (il più elaborato dei due), si opta per un napoletano comprensibile a tutti: la vicenda è trasportata dalla Londra del Settecento alla Napoli dal dopoguerra a oggi. Massimo Ranieri, con la voce brunita al passare degli anni e ora quasi baritonale, fa da mattatore. Buona Lina Sastri in un ruolo cucito a misura per Lotte Lenya. Di livello Gaia Aprea e gli altri. Il complesso orchestrale, guidato da Francesco Lanzillotta, miscela bene jazz e cabaret. Il pubblico si diverte ma l'Opera da tre soldi è un'altra cosa. (riproduzione riservata)
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NON USCIREMO DALLA RECESSIONE SENZA LAVORARE MEGLIO E DI PIÙ in Il Velino 17 febbraio
NON USCIREMO DALLA RECESSIONE SENZA LAVORARE MEGLIO E DI PIÙ
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Roma - L’Italia è tecnicamente in recessione. Come uscirne? Non solo è essenziale ripensare le politiche europee e il “Fiscal Pact” perché minaccia di avere effetti deflazionistici su tutto il continente, ma dobbiamo chiederci come aumentare la produttività. Analisi recenti – ad esempio uno studio che sta conducendo la Fondazione Astrid - indicano che il tasso di variazione di produttività tra la media dell’eurozona e l’Italia è così grave da suggerire un nesso di causalità forte tra bassa produttività dei fattori da noi e i lunghi anni di crescita rasoterra che hanno preceduto la due fasi recessive iniziate nel 2008. Senza dubbio, come sottolinea Kazunobu Hayakawa nell’ultimo numero del Journal of Economic Surveys, hanno inciso altre determinanti come l’integrazione economica internazionale. Tuttavia credo che occorra tornare su temi al centro del dibattito al centro di discussioni alcuni anni fa ed ora o dimenticato o accantonato: quello delle ore effettivamente lavorate.
Lo ha innescato un saggio dell’economista Edward Prescott pubblicato (ma si tratta di mera coincidenza) lo stesso anno (il 2004) in cui gli è stato conferito il Premio Nobel. Sulla base di un’elaborata analisi statistica, Prescott documentava che mediamente, un americano lavorava il 50 per cento di più effettivamente lavorate in 12 mesi). Se – come hanno sempre ritenuto gli economisti “classici” – c’è un nesso tra lavoro e crescita, è questa una ragione per cui a partire dagli Anni Ottanta, l’Europa arranca e l’America galoppa. Non è sempre stato cosi: Alberto Alesina e Bruce Sacerdote hanno ricordato che non è sempre stato così: all’inizio degli Anni Settanta , le ore effettivamente lavorate degli occupati americani ed europei si equivalevano ma da allora è iniziato uno strisciante divario che ha portato alla situazione documentata da Prescott. Prima che scoppiasse la crisi finanziaria e rallentasse l’economia, un contributo importante è venuto dall’Organizzazione internazione del lavoro (Ilo, International Labor Organization) i cui rapporti periodici sugli indicatori chiave del mercato del lavoro afferma che gli stakanovisti non sono gli americani (con le loro 1824 ore l’anno effettivamente lavorate, mediamente, da ciascun occupato) ma i coreani del sud (con 2380 ore – ossia 48 ore la settimana , tenendo conto di due settimane di vacanza).
In Europa, poi, gli sfaticati (per così dire) non sono gli spagnoli con le loro mediamente 1.799 ore , più delle 1.669 dei britannici , per non parlare delle 1.450 ore circa dei francesi e degli italiani. Gli Stati Uniti galoppano non solo perché ciascuno di loro lavora più ore degli europei non perché la loro produttività oraria (output per ora lavorata) è maggiore di quella rilevata nel continente vecchio. La produttività oraria dei francesi è quasi pari a quella degli americani (quella degli italiani è il 70 per cento di quella Usa). La determinante principale sono i congedi annuali per ferie, per malattia o altro e le festività ufficiali. Il dibattito ha gradualmente interessato più i sociologici del lavoro che gli economisti. Nello scavare nel differenziale ci si è chiesto sempre di più se gli europei non dessero maggiore valore ad altri aspetti della qualità della vita (il tempo libero, la famiglia, le attività culturali) rispetto al lavoro.
Il tema, torna ad essere d’attualità ora che dalla crisi si spera di uscire: nell’area dell’euro il tasso di disoccupazione è pari al 10 per cento delle forze di lavoro, negli Usa al 9,6 per cento. La differenza è impercettibile. Il Pil degli Stati Uniti, però, cresce circa al 3 per cento l’anno, quello dell’area dell’euro è in contrazione . Dato che una maggiore crescita del Pil è universalmente ritenuta come ingrediente per ridurre il flagello della disoccupazione, non è utile tornare ad indagare sulle differenze di ore di lavoro tra i due lati dell’Atlantico? Lo hanno fatto in un documento di Linda Bell dell’Istituto Tedesco di Studi sul Lavoro e Richard Freeman dell’Università di Harvard tramite un’indagine empirica rigorosamente economica, ossia amministrando questionari ad un campione di lavoratori tedeschi ed americani. Le differenze in ore lavorate e impegno (quindi, produttività) ed il loro cambiamento negli ultimi 30 anni non risalgono a determinanti sociologiche ma a come lo stato sociale (con i relativi ammortizzatori) si è esteso in Germania (e nel resto d’Europa) mentre è rimasto minimo negli Usa. Negli Stati Uniti, in breve, si lavorano più ore che in Europa perché si teme di finire sul lastrico se si resta senza lavoro. Altra determinante è il prestigio sociale che gli americani attribuiscono agli alti redditi da lavoro. Non è il caso di riprendere questi temi nel delineare il futuro della normativa sul lavoro? (ilVelino/AGV)
(Giuseppe Pennisi) 17 Febbraio 2012 11:42
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Roma - L’Italia è tecnicamente in recessione. Come uscirne? Non solo è essenziale ripensare le politiche europee e il “Fiscal Pact” perché minaccia di avere effetti deflazionistici su tutto il continente, ma dobbiamo chiederci come aumentare la produttività. Analisi recenti – ad esempio uno studio che sta conducendo la Fondazione Astrid - indicano che il tasso di variazione di produttività tra la media dell’eurozona e l’Italia è così grave da suggerire un nesso di causalità forte tra bassa produttività dei fattori da noi e i lunghi anni di crescita rasoterra che hanno preceduto la due fasi recessive iniziate nel 2008. Senza dubbio, come sottolinea Kazunobu Hayakawa nell’ultimo numero del Journal of Economic Surveys, hanno inciso altre determinanti come l’integrazione economica internazionale. Tuttavia credo che occorra tornare su temi al centro del dibattito al centro di discussioni alcuni anni fa ed ora o dimenticato o accantonato: quello delle ore effettivamente lavorate.
Lo ha innescato un saggio dell’economista Edward Prescott pubblicato (ma si tratta di mera coincidenza) lo stesso anno (il 2004) in cui gli è stato conferito il Premio Nobel. Sulla base di un’elaborata analisi statistica, Prescott documentava che mediamente, un americano lavorava il 50 per cento di più effettivamente lavorate in 12 mesi). Se – come hanno sempre ritenuto gli economisti “classici” – c’è un nesso tra lavoro e crescita, è questa una ragione per cui a partire dagli Anni Ottanta, l’Europa arranca e l’America galoppa. Non è sempre stato cosi: Alberto Alesina e Bruce Sacerdote hanno ricordato che non è sempre stato così: all’inizio degli Anni Settanta , le ore effettivamente lavorate degli occupati americani ed europei si equivalevano ma da allora è iniziato uno strisciante divario che ha portato alla situazione documentata da Prescott. Prima che scoppiasse la crisi finanziaria e rallentasse l’economia, un contributo importante è venuto dall’Organizzazione internazione del lavoro (Ilo, International Labor Organization) i cui rapporti periodici sugli indicatori chiave del mercato del lavoro afferma che gli stakanovisti non sono gli americani (con le loro 1824 ore l’anno effettivamente lavorate, mediamente, da ciascun occupato) ma i coreani del sud (con 2380 ore – ossia 48 ore la settimana , tenendo conto di due settimane di vacanza).
In Europa, poi, gli sfaticati (per così dire) non sono gli spagnoli con le loro mediamente 1.799 ore , più delle 1.669 dei britannici , per non parlare delle 1.450 ore circa dei francesi e degli italiani. Gli Stati Uniti galoppano non solo perché ciascuno di loro lavora più ore degli europei non perché la loro produttività oraria (output per ora lavorata) è maggiore di quella rilevata nel continente vecchio. La produttività oraria dei francesi è quasi pari a quella degli americani (quella degli italiani è il 70 per cento di quella Usa). La determinante principale sono i congedi annuali per ferie, per malattia o altro e le festività ufficiali. Il dibattito ha gradualmente interessato più i sociologici del lavoro che gli economisti. Nello scavare nel differenziale ci si è chiesto sempre di più se gli europei non dessero maggiore valore ad altri aspetti della qualità della vita (il tempo libero, la famiglia, le attività culturali) rispetto al lavoro.
Il tema, torna ad essere d’attualità ora che dalla crisi si spera di uscire: nell’area dell’euro il tasso di disoccupazione è pari al 10 per cento delle forze di lavoro, negli Usa al 9,6 per cento. La differenza è impercettibile. Il Pil degli Stati Uniti, però, cresce circa al 3 per cento l’anno, quello dell’area dell’euro è in contrazione . Dato che una maggiore crescita del Pil è universalmente ritenuta come ingrediente per ridurre il flagello della disoccupazione, non è utile tornare ad indagare sulle differenze di ore di lavoro tra i due lati dell’Atlantico? Lo hanno fatto in un documento di Linda Bell dell’Istituto Tedesco di Studi sul Lavoro e Richard Freeman dell’Università di Harvard tramite un’indagine empirica rigorosamente economica, ossia amministrando questionari ad un campione di lavoratori tedeschi ed americani. Le differenze in ore lavorate e impegno (quindi, produttività) ed il loro cambiamento negli ultimi 30 anni non risalgono a determinanti sociologiche ma a come lo stato sociale (con i relativi ammortizzatori) si è esteso in Germania (e nel resto d’Europa) mentre è rimasto minimo negli Usa. Negli Stati Uniti, in breve, si lavorano più ore che in Europa perché si teme di finire sul lastrico se si resta senza lavoro. Altra determinante è il prestigio sociale che gli americani attribuiscono agli alti redditi da lavoro. Non è il caso di riprendere questi temi nel delineare il futuro della normativa sul lavoro? (ilVelino/AGV)
(Giuseppe Pennisi) 17 Febbraio 2012 11:42
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OPERA, UNA NUOVA “BUTTERFLY” SALPA DA ROMA in Il Velino 17 febbraio
OPERA, UNA NUOVA “BUTTERFLY” SALPA DA ROMA
Roma - Dopo oltre 30 anni, un allestimento innovativo per il lavoro di Puccini, in scena da martedì nella Capitale e a settembre in programma a Palermo
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Roma - Da martedì il grande repertorio popolare va in scena al Teatro dell’Opera di Roma con Madama Butterfly di Puccini. Si tratta di un nuovo allestimento, mentre la messa in scena presentata nel 2005 (in occasione quasi del centenario del lavoro) è di oltre 30 anni fa. Più di recente il teatro ha riproposto una produzione molto bella del Teatro Comunale di Bologna, anche questa con molti anni sulle spalle. Il capolavoro pucciniano è coprodotto con il Massimo di Palermo, dove lo spettacolo arriverà a settembre. Dirige un maestro di livello: Pinchas Steinberg. Una novità è la regia di Giorgio Ferrara, noto per i suoi lavori nel cinema e nella prosa; è al debutto con lirica e, senza dubbio, darò un taglio nuovo al lavoro. Le scene sono firmate da Gianni Quaranta, i costumi da Maurizio Galante e le luci da Daniele Nannuzzi. Non è nuova a Madama Butterfly la protagonista Daniela Dessì, una delle voci oggi più famose e amate dal grande pubblico, che è approdata al difficile ruolo del verismo visionario di Puccini partendo dal belcanto e da Pegolesi. Accanto a lei un tenore poco noto in Italia ma di grandi qualità vocali come Alexey Dolgov nel ruolo di Pinkerton: siberiano, giovane ed attraente è una delle stelle del Metropolitan, del Covent Gaden e del Nationaltheater di Monaco. I personaggi che ruotano intorno ai protagonisti saranno interpretati da Anna Malavasi (Suzuki), Audun Iversen (Sharpless), Saverio Fiore (Goro), Pietro Picone (Principe Yamadori) e Anastasia Boldyreva (Kate Pinkerton).
Il libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, definita nello stesso spartito “tragedia giapponese”, fu ispirata dall’omonimo testo in un atto unico di David Belasco, che Puccini ebbe modo di vedere a Londra nel 1900: profondamente colpito dalla tragedia umana della protagonista, Cio-cio-san suicida per amore, e affascinato dall’ambientazione esotica di carattere giapponese, diede voce ad una delle eroine più famose della lirica. L’opera in scena a Roma viene presentata in quella che viene chiamata ‘edizione di riferimento”, che non è come molti ritengono la versione riadattata da Puccini per il Teatro Grande di Brescia dopo il fallimento della “prima” il 17 febbraio 1904 alla Scala, ma quella approntata per Parigi nel 1906. Sarebbe stato innovativo, disponendo di Ferrara, Steinberg e Dessì, presentare un’edizione filologica della “Butterfly” del 1904, molto più crudele (con un Pinkerton gaglioffo e razzista) di quella del 1906. Un’opera apprezzata anche alla Boston Opera e ripresa in tempi recenti, ma solo una volta, a Venezia. L’augurio è che la versione 1906 venga presentata con un’ importante innovazione oggi di prassi fuori dell’Italia: l’abolizione di secondo e terzo atto per dare vita a un unico, potente e ininterrotto quadro di 90 minuti, come nelle intenzioni originali di Puccini. (ilVelino/AGV)
(fan) 17 Febbraio 2012 13:16
Roma - Dopo oltre 30 anni, un allestimento innovativo per il lavoro di Puccini, in scena da martedì nella Capitale e a settembre in programma a Palermo
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Roma - Da martedì il grande repertorio popolare va in scena al Teatro dell’Opera di Roma con Madama Butterfly di Puccini. Si tratta di un nuovo allestimento, mentre la messa in scena presentata nel 2005 (in occasione quasi del centenario del lavoro) è di oltre 30 anni fa. Più di recente il teatro ha riproposto una produzione molto bella del Teatro Comunale di Bologna, anche questa con molti anni sulle spalle. Il capolavoro pucciniano è coprodotto con il Massimo di Palermo, dove lo spettacolo arriverà a settembre. Dirige un maestro di livello: Pinchas Steinberg. Una novità è la regia di Giorgio Ferrara, noto per i suoi lavori nel cinema e nella prosa; è al debutto con lirica e, senza dubbio, darò un taglio nuovo al lavoro. Le scene sono firmate da Gianni Quaranta, i costumi da Maurizio Galante e le luci da Daniele Nannuzzi. Non è nuova a Madama Butterfly la protagonista Daniela Dessì, una delle voci oggi più famose e amate dal grande pubblico, che è approdata al difficile ruolo del verismo visionario di Puccini partendo dal belcanto e da Pegolesi. Accanto a lei un tenore poco noto in Italia ma di grandi qualità vocali come Alexey Dolgov nel ruolo di Pinkerton: siberiano, giovane ed attraente è una delle stelle del Metropolitan, del Covent Gaden e del Nationaltheater di Monaco. I personaggi che ruotano intorno ai protagonisti saranno interpretati da Anna Malavasi (Suzuki), Audun Iversen (Sharpless), Saverio Fiore (Goro), Pietro Picone (Principe Yamadori) e Anastasia Boldyreva (Kate Pinkerton).
Il libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, definita nello stesso spartito “tragedia giapponese”, fu ispirata dall’omonimo testo in un atto unico di David Belasco, che Puccini ebbe modo di vedere a Londra nel 1900: profondamente colpito dalla tragedia umana della protagonista, Cio-cio-san suicida per amore, e affascinato dall’ambientazione esotica di carattere giapponese, diede voce ad una delle eroine più famose della lirica. L’opera in scena a Roma viene presentata in quella che viene chiamata ‘edizione di riferimento”, che non è come molti ritengono la versione riadattata da Puccini per il Teatro Grande di Brescia dopo il fallimento della “prima” il 17 febbraio 1904 alla Scala, ma quella approntata per Parigi nel 1906. Sarebbe stato innovativo, disponendo di Ferrara, Steinberg e Dessì, presentare un’edizione filologica della “Butterfly” del 1904, molto più crudele (con un Pinkerton gaglioffo e razzista) di quella del 1906. Un’opera apprezzata anche alla Boston Opera e ripresa in tempi recenti, ma solo una volta, a Venezia. L’augurio è che la versione 1906 venga presentata con un’ importante innovazione oggi di prassi fuori dell’Italia: l’abolizione di secondo e terzo atto per dare vita a un unico, potente e ininterrotto quadro di 90 minuti, come nelle intenzioni originali di Puccini. (ilVelino/AGV)
(fan) 17 Febbraio 2012 13:16
giovedì 16 febbraio 2012
A Roma quel Pierrot Lunaire che diede inizio alla musica contemporanea in Il Sussidiario del 17 febbraio
OPERA/ A Roma quel Pierrot Lunaire che diede inizio alla musica contemporanea
Giuseppe Pennisi
venerdì 17 febbraio 2012
Arnold Schönberg
Approfondisci
OPERA/ Quattro buone ragioni per non perdere l'oratorio di Franz Schmidt
COPPE'LIA/ Al Teatro dell'Opera la bambola misteriosa
C’ è una Roma che ha l’aria di un pugile suonato perché il Governo non l'ha candidata alle Olimpiadi. Ed una Roma che unica in Italia, nonostante la crisi, nonostante il downgrading si ricorda che cento anni fa con Pierrot Lunaire di Arnold Schönberg iniziò la musica contemporanea “colta”. Il Teatro dellOpera di Roma ricorda i cento anni dalla composizione del Pierrot Lunaire con un concerto domenica 19 febbraio, alle ore 11, al Teatro Nazionale. E’ una ricorrenza importante per la storia della musica. Eseguita per la prima volta a Berlino nell’ottobre del 1912, Pierrot Lunaire è considerata il manifesto della musica espressionista e rappresentò a suo tempo una vera e propria rivoluzione nel mondo culturale europeo. Protagonista è il virtuoso poeta Pierrot, un eroe malinconico e triste la cui tradizione romantica viene reinventata in immagini ora grottesche ora allucinate: musa ispiratrice del suo canto tormentato alla luna.
Nel concerto di domenica 19, si respirerà atmosfera dell’ avanguardia musicale degli anni Venti del Novecento, anche con alcune delle più famose canzoni di Kurt Weill, espressione in note di quella corrente oggettivistica che nel teatro epico di Bertolt Brecht, tra cabaret, jazz e lotta politica, trova la sua più ompiuta realizzazione: Die Ballade von der Sexuellen Hörigkeit, tratta da Lopera da tre soldi (1928), Le Grand Lustucru, composta per il testo di Jacques Duval, fa parte di Marie Galante (1934), Surabaya Johnny. una delle canzoni di Happy End (1929).
In ensemble: Cristina Zavalloni (voce), Marta Rossi (flauto, ottavino), Sauro Berti (clarinetto, clarinetto basso), Ludovico Tramma (violino, viola), Marius Parascan (violoncello), Antonio Maria Pergolizzi (pianoforte). Dirige Carlo Donadio. Pierrot Lunaire per soprano e cinque strumentisti che suonano otto strumenti fu scritta per commissione di un’artista di cabaret, Albertine Zehme. Le liriche sono abbastanza modeste ma hanno una straordinaria miscela di sarcasmo, ironia , spirito dissacrante ed anche semplice cattivo gusto. Le nobilita il compositore che utilizza una vasta gamma di effetti (“parlato”,”bisbigliato”, “intonato con accento”) e crea colori vocali e strumentali di inaudita originalità
Ho avuto la fortuna di ascoltare Pierrot Lunaire diretto da Pierre Boulez in quel Festival di Aix en Provence 2003 che venne interrotto dalle manifestazioni della Cgt, cugina francese della nostrana Ggil, con consorteria assortita di centri sociali, no global e black blocs, contro la riduzione dei sussidi ai lavoratori dello spettacolo.
Temevano che Boulez non ce la facesse ad arrivare alla fine: nel minuscolo teatro del Jeu de Paume di Aix-en-Provence, scivolava verso i pianissimo del “sì naturale” con cui si chiude il Pierrot Lunaire “mentre i manifestanti , dopo avere disturbato, dalla strada, con fischietti per tutta la durata dello spettacolo, erano riusciti ad entrare nel foyer con spranghe di ferro e minacciavo di arrivare in platea. Giunto all’ultima nota, dopo una pausa, l’allora settantonnevenne Pierre Boulez si è rivolto verso il pubblico che è scattato in un applauso di 25 minuti (il lavoro ne dura meno di 20) con un fragore tale da mettere in fuga tutti i nuovi sessantottini, o pretendenti tali. Quasi simultaneamente, Boulez si è lanciato in un abbraccio appassionato, quasi carnale, con Anja Silja, splendida, pur se quasi settantenne, nelle vesti di Pierrot.
Anja Silja, nome poco noto ai più giovani. Ha debuttato a 16 anni, circa 55 anni fa. Era bellissima; lo è ancora. Il vostro “chroniqueur” la ricorda nel 1963 a Roma magnifica Isotta in uno spettacolo di cui era regista Wieland Wagner (suo amante per quattro lustri) e maestro concertatore Alain Cluytens (suo amante per due lustri). All’epoca di quel “Tristano” era l’amante di tutti e due. Anni dopo, mi confessò che le faceva bene alla voce ed alla recitazione, aggiungendo che in una fase della sua vita ne ebbe ben quattro (amanti) in parallelo: come avrebbe potuto interpretare la trentenne Maddalena dello straussiano “Capriccio”, una Contessa che trovando “banale” scegliere tra i due ventenni spasimanti, se li porta a letto tutti e due?
Giuseppe Pennisi
venerdì 17 febbraio 2012
Arnold Schönberg
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OPERA/ Quattro buone ragioni per non perdere l'oratorio di Franz Schmidt
COPPE'LIA/ Al Teatro dell'Opera la bambola misteriosa
C’ è una Roma che ha l’aria di un pugile suonato perché il Governo non l'ha candidata alle Olimpiadi. Ed una Roma che unica in Italia, nonostante la crisi, nonostante il downgrading si ricorda che cento anni fa con Pierrot Lunaire di Arnold Schönberg iniziò la musica contemporanea “colta”. Il Teatro dellOpera di Roma ricorda i cento anni dalla composizione del Pierrot Lunaire con un concerto domenica 19 febbraio, alle ore 11, al Teatro Nazionale. E’ una ricorrenza importante per la storia della musica. Eseguita per la prima volta a Berlino nell’ottobre del 1912, Pierrot Lunaire è considerata il manifesto della musica espressionista e rappresentò a suo tempo una vera e propria rivoluzione nel mondo culturale europeo. Protagonista è il virtuoso poeta Pierrot, un eroe malinconico e triste la cui tradizione romantica viene reinventata in immagini ora grottesche ora allucinate: musa ispiratrice del suo canto tormentato alla luna.
Nel concerto di domenica 19, si respirerà atmosfera dell’ avanguardia musicale degli anni Venti del Novecento, anche con alcune delle più famose canzoni di Kurt Weill, espressione in note di quella corrente oggettivistica che nel teatro epico di Bertolt Brecht, tra cabaret, jazz e lotta politica, trova la sua più ompiuta realizzazione: Die Ballade von der Sexuellen Hörigkeit, tratta da Lopera da tre soldi (1928), Le Grand Lustucru, composta per il testo di Jacques Duval, fa parte di Marie Galante (1934), Surabaya Johnny. una delle canzoni di Happy End (1929).
In ensemble: Cristina Zavalloni (voce), Marta Rossi (flauto, ottavino), Sauro Berti (clarinetto, clarinetto basso), Ludovico Tramma (violino, viola), Marius Parascan (violoncello), Antonio Maria Pergolizzi (pianoforte). Dirige Carlo Donadio. Pierrot Lunaire per soprano e cinque strumentisti che suonano otto strumenti fu scritta per commissione di un’artista di cabaret, Albertine Zehme. Le liriche sono abbastanza modeste ma hanno una straordinaria miscela di sarcasmo, ironia , spirito dissacrante ed anche semplice cattivo gusto. Le nobilita il compositore che utilizza una vasta gamma di effetti (“parlato”,”bisbigliato”, “intonato con accento”) e crea colori vocali e strumentali di inaudita originalità
Ho avuto la fortuna di ascoltare Pierrot Lunaire diretto da Pierre Boulez in quel Festival di Aix en Provence 2003 che venne interrotto dalle manifestazioni della Cgt, cugina francese della nostrana Ggil, con consorteria assortita di centri sociali, no global e black blocs, contro la riduzione dei sussidi ai lavoratori dello spettacolo.
Temevano che Boulez non ce la facesse ad arrivare alla fine: nel minuscolo teatro del Jeu de Paume di Aix-en-Provence, scivolava verso i pianissimo del “sì naturale” con cui si chiude il Pierrot Lunaire “mentre i manifestanti , dopo avere disturbato, dalla strada, con fischietti per tutta la durata dello spettacolo, erano riusciti ad entrare nel foyer con spranghe di ferro e minacciavo di arrivare in platea. Giunto all’ultima nota, dopo una pausa, l’allora settantonnevenne Pierre Boulez si è rivolto verso il pubblico che è scattato in un applauso di 25 minuti (il lavoro ne dura meno di 20) con un fragore tale da mettere in fuga tutti i nuovi sessantottini, o pretendenti tali. Quasi simultaneamente, Boulez si è lanciato in un abbraccio appassionato, quasi carnale, con Anja Silja, splendida, pur se quasi settantenne, nelle vesti di Pierrot.
Anja Silja, nome poco noto ai più giovani. Ha debuttato a 16 anni, circa 55 anni fa. Era bellissima; lo è ancora. Il vostro “chroniqueur” la ricorda nel 1963 a Roma magnifica Isotta in uno spettacolo di cui era regista Wieland Wagner (suo amante per quattro lustri) e maestro concertatore Alain Cluytens (suo amante per due lustri). All’epoca di quel “Tristano” era l’amante di tutti e due. Anni dopo, mi confessò che le faceva bene alla voce ed alla recitazione, aggiungendo che in una fase della sua vita ne ebbe ben quattro (amanti) in parallelo: come avrebbe potuto interpretare la trentenne Maddalena dello straussiano “Capriccio”, una Contessa che trovando “banale” scegliere tra i due ventenni spasimanti, se li porta a letto tutti e due?
I 50 ANNI DELLA “TEORIA DELL’INTEGRAZIONE ECONOMICA in Il Riformista 17 febbraio
I LIBRI DEI MINISTRI- MARIO CATANIA
I 50 ANNI DELLA “TEORIA DELL’INTEGRAZIONE ECONOMICA
Giuseppe Pennisi
Mario Catania, Ministro delle Politiche Agricole e Forestale, è un tecnico. Ma non un agronomo. Od uno specialista di allevamenti oppure ancora di foreste. Nella sua vita professionale, tra via Venti Settembre dove ha sede il dicastero, e la Rappresentanza dell’Italia presso l’UE a Bruxelles, è considerato il maggior esperto di politica, economia e di normativa europea pur in una compagine ministeriale dove gli (ex-neo-post) eurocrati pullulano.
Pare sia l’unico ad essersi ricordati di una ricorrenza importante: i cinquanta anni dalla pubblicazione di The Theory of Economic Integration di Bela Balassa. Balassa era scappato dall’Ungheria nel 1956 e per alcuni era vissuto con una borsa di ricerca conferitagli dal Consiglio d’Europa. In tal scrisse un lavoro che viene ancora oggi considerato precursore di tutto il pensiero sull’integrazione economica di Paesi in una ben definita area geografico. Prima del libro, gli diede fama un articolo sul tema pubblicato dalla rivista scientifica Kyklos. Si sentiva molto europeo – il vostro “chroniqueur” lo ebbe come docente ed amico. Ma se portò via il mondo accademico americano. Si trasferì a Washington dove insegnava economia internazionale al campus di Baltimora della Johns Hopkins Università ed era Senior Consultant della Banca mondiale.
Balassa ha aperto un solco importante, partendo da letteratura precedente (da Haberler a Meade, da Tinbergen a Scitovsky) che, però, aveva poco a che fare con l’integrazione europea (ancora nel grembo degli Dei quando molti di loro scrivevano e pubblicavano). Soprattutto il libro di cinquanta anni fa analizzava gli effetti economici statici e dinamici precorrendo Paul Krugman, il cui Premio Nobel deve molto ove non tutto a Balassa.
Catania ha sulla sua scrivania il saggio di Andrè Sapir pubblicato nell’ultimo fascicolo del Journal of Economic Literature in cui in trenta dense pagine si passano in rassegna critica oltre 200 titoli di letteratura economica sull’integrazione, soprattutto quella europea. Vista alla luce della “teoria” di Balassa, la politica agricola comune ne esce meno male di quel che possa sembrare. Le pagine sull’unione monetaria e sulla crisi dell’eurozona invece dovrebbero essere letti dai suoi dirimpettai di Via Venti Settembre – al Ministero dell’Economia e delle Finanze. In breve, Balassa (e con lui Meade e Mundell, loro il Nobel lo ebbero) avrebbero bocciato senza possibilità di appello o ricorso gli estensori del Trattato di Maastricht in quanto privo degli appigli elementari alla teoria economica. Balassa, in particolare, aveva preconizzato che un “processo squilibrato” (unione monetaria prima dell’unione delle politiche di bilancio e, quindi, dell’unione economica) avrebbe avuto il germe della crisi. Lo ammette lo stesso Sapir pur considerato euro entusiasta nel 1990-92. Oggi – sostiene- o si va verso qualche forma di unificazione politica (ma chi la vuole?) oppure verso un mesto “Bye, bye Maastricht”.
I 50 ANNI DELLA “TEORIA DELL’INTEGRAZIONE ECONOMICA
Giuseppe Pennisi
Mario Catania, Ministro delle Politiche Agricole e Forestale, è un tecnico. Ma non un agronomo. Od uno specialista di allevamenti oppure ancora di foreste. Nella sua vita professionale, tra via Venti Settembre dove ha sede il dicastero, e la Rappresentanza dell’Italia presso l’UE a Bruxelles, è considerato il maggior esperto di politica, economia e di normativa europea pur in una compagine ministeriale dove gli (ex-neo-post) eurocrati pullulano.
Pare sia l’unico ad essersi ricordati di una ricorrenza importante: i cinquanta anni dalla pubblicazione di The Theory of Economic Integration di Bela Balassa. Balassa era scappato dall’Ungheria nel 1956 e per alcuni era vissuto con una borsa di ricerca conferitagli dal Consiglio d’Europa. In tal scrisse un lavoro che viene ancora oggi considerato precursore di tutto il pensiero sull’integrazione economica di Paesi in una ben definita area geografico. Prima del libro, gli diede fama un articolo sul tema pubblicato dalla rivista scientifica Kyklos. Si sentiva molto europeo – il vostro “chroniqueur” lo ebbe come docente ed amico. Ma se portò via il mondo accademico americano. Si trasferì a Washington dove insegnava economia internazionale al campus di Baltimora della Johns Hopkins Università ed era Senior Consultant della Banca mondiale.
Balassa ha aperto un solco importante, partendo da letteratura precedente (da Haberler a Meade, da Tinbergen a Scitovsky) che, però, aveva poco a che fare con l’integrazione europea (ancora nel grembo degli Dei quando molti di loro scrivevano e pubblicavano). Soprattutto il libro di cinquanta anni fa analizzava gli effetti economici statici e dinamici precorrendo Paul Krugman, il cui Premio Nobel deve molto ove non tutto a Balassa.
Catania ha sulla sua scrivania il saggio di Andrè Sapir pubblicato nell’ultimo fascicolo del Journal of Economic Literature in cui in trenta dense pagine si passano in rassegna critica oltre 200 titoli di letteratura economica sull’integrazione, soprattutto quella europea. Vista alla luce della “teoria” di Balassa, la politica agricola comune ne esce meno male di quel che possa sembrare. Le pagine sull’unione monetaria e sulla crisi dell’eurozona invece dovrebbero essere letti dai suoi dirimpettai di Via Venti Settembre – al Ministero dell’Economia e delle Finanze. In breve, Balassa (e con lui Meade e Mundell, loro il Nobel lo ebbero) avrebbero bocciato senza possibilità di appello o ricorso gli estensori del Trattato di Maastricht in quanto privo degli appigli elementari alla teoria economica. Balassa, in particolare, aveva preconizzato che un “processo squilibrato” (unione monetaria prima dell’unione delle politiche di bilancio e, quindi, dell’unione economica) avrebbe avuto il germe della crisi. Lo ammette lo stesso Sapir pur considerato euro entusiasta nel 1990-92. Oggi – sostiene- o si va verso qualche forma di unificazione politica (ma chi la vuole?) oppure verso un mesto “Bye, bye Maastricht”.
mercoledì 15 febbraio 2012
Daniel Kawka: ecco perché Boulez ci porta dritti a Wagner in Il Sussidiario del 16 febbraio
L'INTERVISTA/ Daniel Kawka: ecco perché Boulez ci porta dritti a Wagner
INT.
Daniel Kawka
giovedì 16 febbraio 2012
Immagine d'archivio
Approfondisci
JOSEPH SCHMIDT/ "The Pocket Caruso", storia di un tenore in fuga
OPERA/ Quattro buone ragioni per non perdere l'oratorio di Franz Schmidt
Giovane (sulla quarantina), francese di nascita, ma d’origine mitteleuropea. Daniel Kawka è uno degli astri della bacchetta internazionale. Sua caratteristica è che viene dalla musica contemporanea – allievo di Pierre Boulez, ha fondato lui stesso un noto complesso – L’Ensemble Orchéstral Contemporain e un Festival di musica contemporanea – ma è approdato a Wagner e ai grandi classici del romanticismo. Anzi, alterna la contemporaneità più avanzata (tra breve dirigerà a Bolzano la Prima mondiale dell’ultimo lavoro del compositore italiano Marcello Filotei) – con partiture anche tradizionali.
Appena nominato direttore principale dell’Orchestra Regionale della Toscana, è spesso in Italia. Ospite delle più prestigiose orchestre europee, tra cui l’Orchestre Philharmonique de Radio-France, Orchestre National de Lyon, de Lille, des Pays de la Loire, Orchestre National de France, Orchestra Nazionale Russa, Orchestre Philharmonique de Liège, Orchestra Sinfonica di Varsavia, Orchestre de la Suisse Romande, Orchestra Nazionale della Rai di Torino, Orchestra Sinfonica di Milano “Giuseppe Verdi”, Ensemble Intercontemporain, London Sinfonietta e dei più importanti festival musicali (a Parigi, Roma, Brighton, Dublino, Varsavia, Budapest, Mosca, Montreal, San Paolo, Seul ecc.), ho conversato con lui durante una sosta a Bologna dove era impegnato nella stagione sinfonica del Teatro Comunale e il prossimo anno dirigerà un nuovo allestimento di “Parsifal” per le celebrazioni del bicentenario della nascita di Wagner.
«Porto in me l’amore per la drammaturgia wagneriana, anche da prima della mia passione e della mia frequente esecuzione di musica contemporanea. In effetti, il mio “Tristano e Isotta” (che ha diretto con grande successo a Givevra ndr) ha avuto un’eco considerevole nella scena musicale europea e mi posto nella traiettoria giusta per questo repertorio a cui sono affezionato, dandomi l’opportunità di concepire per il nuovissimo teatro dell’opera di Digione un intero “Anello del Nibelungo” (in programma la prossima stagione ndr).
Il “Parsifal” diretto da Wolfgang Sawallisch alle Chorégie d’Orange” è stata l’esperienza decisiva che mi ha portato a scegliere la carriera di direttore d’orchestra. La tensione temporale, la drammaturgia e la poesia dei tempi musicali hanno sempre rappresentato per me l’essenza della musica. A cavallo tra due culture – l’Europa centrale per le mie origini (la famiglia si è trasferita in Francia dalla Polonia da tre generazioni ndr) e la Francia – è naturale che la scelta si sia orientata verso la musica wagneriana – e per estensione quella di Mahler e Strauss – e la musica francese contemporanea. La prima è densa di pathos, tesa, espressiva di un mondo che si sta fondendo. La seconda è chiara, trasparente, sensibile, basata su un lavoro primordiale delle sonorità. Amo visceralmente la sonorità dell’orchestra – da Wagner ai nostri giorni. Non dimentico però le sensazioni che offre Jimi Hendrix».
Ha concertato con numerose orchestre italiane, pensate di tornare a Roma dove si ricorda ancora il vostro “Tannhauser” di circa due anni e mezzo fa?
La mia prossima stagione sarà ancora molto italiana non soltanto per l’impegno con l’Orchestra Regionale della Toscana, ma perché sarò tre volte a Firenze per continuare l’integrale di Brahms, alla guida dell’Orchestra della Rai a Torino, al Festival Berliz, al MiTo ed ad altri concerti sinfonici prima del Parfisal a Bologna.
Come mai è così presente in Italia?
Amo la cultura italiana. Da prima di cominciare la mia carriera di maestro concertatore e direttore d’orchestra, ho una rete di stretta amicizie con compositori italiani come Battistelli, Botter, Fedeli, Sani, Solbiati e tanti altri. Inoltre, ho una simpatia profonda per le vostre orchestre e questo modo latino, impegnato ed ardente di fare musica in cui mi riconosco pienamente.
Da musicista cosa pensa dei finanziamenti pubblici per la sinfonica e l’opera in Francia e in Italia?
Un disastro. Un disimpegno vertiginoso dello Stato da qualche anno. Non lo si spiega solo con la crisi economica e finanziaria. Spero che in Italia il Governo in carica darà vigore, vitalità e priorità politica alla musica.
La cultura è il bastione d’intelligenza condivisa, di emozioni che occorre salvaguardare a qualsiasi costo. Un’apertura all’arte per tutti porta non solo sogni ma aiuta a conciliare i contrasti anche sociali. In Francia, la cultura è stata sempre considerata un’eccezione, ma ora orchestre e teatri vedono diminuire i loro finanziamenti.
(Giuseppe Pennisi)
INT.
Daniel Kawka
giovedì 16 febbraio 2012
Immagine d'archivio
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JOSEPH SCHMIDT/ "The Pocket Caruso", storia di un tenore in fuga
OPERA/ Quattro buone ragioni per non perdere l'oratorio di Franz Schmidt
Giovane (sulla quarantina), francese di nascita, ma d’origine mitteleuropea. Daniel Kawka è uno degli astri della bacchetta internazionale. Sua caratteristica è che viene dalla musica contemporanea – allievo di Pierre Boulez, ha fondato lui stesso un noto complesso – L’Ensemble Orchéstral Contemporain e un Festival di musica contemporanea – ma è approdato a Wagner e ai grandi classici del romanticismo. Anzi, alterna la contemporaneità più avanzata (tra breve dirigerà a Bolzano la Prima mondiale dell’ultimo lavoro del compositore italiano Marcello Filotei) – con partiture anche tradizionali.
Appena nominato direttore principale dell’Orchestra Regionale della Toscana, è spesso in Italia. Ospite delle più prestigiose orchestre europee, tra cui l’Orchestre Philharmonique de Radio-France, Orchestre National de Lyon, de Lille, des Pays de la Loire, Orchestre National de France, Orchestra Nazionale Russa, Orchestre Philharmonique de Liège, Orchestra Sinfonica di Varsavia, Orchestre de la Suisse Romande, Orchestra Nazionale della Rai di Torino, Orchestra Sinfonica di Milano “Giuseppe Verdi”, Ensemble Intercontemporain, London Sinfonietta e dei più importanti festival musicali (a Parigi, Roma, Brighton, Dublino, Varsavia, Budapest, Mosca, Montreal, San Paolo, Seul ecc.), ho conversato con lui durante una sosta a Bologna dove era impegnato nella stagione sinfonica del Teatro Comunale e il prossimo anno dirigerà un nuovo allestimento di “Parsifal” per le celebrazioni del bicentenario della nascita di Wagner.
«Porto in me l’amore per la drammaturgia wagneriana, anche da prima della mia passione e della mia frequente esecuzione di musica contemporanea. In effetti, il mio “Tristano e Isotta” (che ha diretto con grande successo a Givevra ndr) ha avuto un’eco considerevole nella scena musicale europea e mi posto nella traiettoria giusta per questo repertorio a cui sono affezionato, dandomi l’opportunità di concepire per il nuovissimo teatro dell’opera di Digione un intero “Anello del Nibelungo” (in programma la prossima stagione ndr).
Il “Parsifal” diretto da Wolfgang Sawallisch alle Chorégie d’Orange” è stata l’esperienza decisiva che mi ha portato a scegliere la carriera di direttore d’orchestra. La tensione temporale, la drammaturgia e la poesia dei tempi musicali hanno sempre rappresentato per me l’essenza della musica. A cavallo tra due culture – l’Europa centrale per le mie origini (la famiglia si è trasferita in Francia dalla Polonia da tre generazioni ndr) e la Francia – è naturale che la scelta si sia orientata verso la musica wagneriana – e per estensione quella di Mahler e Strauss – e la musica francese contemporanea. La prima è densa di pathos, tesa, espressiva di un mondo che si sta fondendo. La seconda è chiara, trasparente, sensibile, basata su un lavoro primordiale delle sonorità. Amo visceralmente la sonorità dell’orchestra – da Wagner ai nostri giorni. Non dimentico però le sensazioni che offre Jimi Hendrix».
Ha concertato con numerose orchestre italiane, pensate di tornare a Roma dove si ricorda ancora il vostro “Tannhauser” di circa due anni e mezzo fa?
La mia prossima stagione sarà ancora molto italiana non soltanto per l’impegno con l’Orchestra Regionale della Toscana, ma perché sarò tre volte a Firenze per continuare l’integrale di Brahms, alla guida dell’Orchestra della Rai a Torino, al Festival Berliz, al MiTo ed ad altri concerti sinfonici prima del Parfisal a Bologna.
Come mai è così presente in Italia?
Amo la cultura italiana. Da prima di cominciare la mia carriera di maestro concertatore e direttore d’orchestra, ho una rete di stretta amicizie con compositori italiani come Battistelli, Botter, Fedeli, Sani, Solbiati e tanti altri. Inoltre, ho una simpatia profonda per le vostre orchestre e questo modo latino, impegnato ed ardente di fare musica in cui mi riconosco pienamente.
Da musicista cosa pensa dei finanziamenti pubblici per la sinfonica e l’opera in Francia e in Italia?
Un disastro. Un disimpegno vertiginoso dello Stato da qualche anno. Non lo si spiega solo con la crisi economica e finanziaria. Spero che in Italia il Governo in carica darà vigore, vitalità e priorità politica alla musica.
La cultura è il bastione d’intelligenza condivisa, di emozioni che occorre salvaguardare a qualsiasi costo. Un’apertura all’arte per tutti porta non solo sogni ma aiuta a conciliare i contrasti anche sociali. In Francia, la cultura è stata sempre considerata un’eccezione, ma ora orchestre e teatri vedono diminuire i loro finanziamenti.
(Giuseppe Pennisi)
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