PERCHE’ LA TOBIN TAX DI SARKOZY E’ SOLO UNA TROVTA MEDIATICA
Giuseppe Pennisi
Chi si avvantaggia dall’imposta “globale” sulle transazioni proposta con toni enfatici, dal podio dell’assemblea generale dell’ONU, da Nicolas Sarkozy (a cui si è prontamente accodato José Luis Zapatero)? I benefici, comunque di breve periodo, li ha esclusivamente chi la lancia e ne parla. Sono ricavi mediatici che possono, per alcune settimane, distrarre l’attenzione da nodi più seri del proponente e del resto del mondo ma che, entro un arco di tempo breve, si sfarinano e se ne vanno via col vento. Non solamente a ragione di numerosi aspetti pratico-operativi. Chi propone imposte “globali” dovrebbe chiarire chi avrebbe la potestà d’imposizione, d’esazione, di controllo dell’evasione (le Nazioni Uniti già scarsamente in grado di svolgere i compiti essenziali loro affidati dai trattati in vigore?) e chi avrebbe il compito di gestirne l’eventuale gettito (sempre l’Onu che non ha fama né di efficienza, né di efficacia, né di trasparenza?) nonché come giungerebbe ad un accordo tributario “globale” una comunità internazionale che non riesce da nove anni a parafare un accordo multilaterale minimale sul commercio (la Doha Development Agenda).
Non che tali aspetti pratico-operativi siano di poco conto ma ci sono ostacoli di natura rigorosamente economica che rendono il marchingegno poco credibile. I temi ed i problemi dei movimenti di capitale a breve termine sono nettamente distinti da quelli dell’aiuto allo sviluppo. Pur se in certi casi possono intersecarsi, occorre tenerli separati per non fare confusione. L’aiuto allo sviluppo richiede capitali a lungo termine (e non solo quelli), mentre i flussi a breve termine possono, a seconda del contesto, irrobustire od indebolire le politiche di sviluppo. In certe situazioni, un flusso rapido e copioso di capitali a breve può essere dannoso, se innescato con l’aspettativa di rendimenti elevati da rivalutazione del cambio della moneta del Paese verso cui affluisce. La rivalutazione comporta un freno all’export e un rallentamento dello sviluppo (per chi segue strategia di crescita trainata dalle esportazioni) In tali casi, un’imposta può essere utile ma ; per essere efficace, deve essere unilaterale , varata all’improvviso (per dare una sculacciata a chi spera in guadagni facili) e tolta quando non ce ne è più esigenza. Ben lo sanno Paesi come la Malesia e la Corea che alla metà degli Anni Novanta non seguirono i consigli in tal senso e si trovarono al centro di quella che venne chiamata “la crisi asiatica”.
Si può pensare ad un’alleanza tra Paesi ad alto reddito ma con difficoltà di bilancio (a ragione della crisi in atto dal 2007) per trovare, temporaneamente, un cespite nuovo per tenere alta la bandiera dell’aiuto allo sviluppo, specialmente del continente con problemi più gravi (l’Africa). In tal caso, potrebbe essere utile una misura concertata e temporanea per prelevare gettito dal trading valutario, triplicato dal 2001 ed oggi pari quotidianamente al Pil della Germania Federale. Richiederebbe un trattato tra un numero limitato di Paesi e sarebbe di esazione relativamente facile dato che il 40% di tale trading è tra le 20 maggiori banche al mondo. Gli aiuti verrebbero gestiti tramite le strutture statali preposte a questo fine. Ha una giustificazione poiché con il trading valutario si possono fare forti utili solo con una buona tempistica. Ma avrebbe il sapore di misura punitiva nei confronti delle grandi banche.
Chi ci perde dall’”imposta globale”? Un po’ tutta la comunità internazionale poiché ha l’effetto di un “red herring” , l’aringa rossa gettata per distrarre dai problemi veri dell’economia internazionale. I quali sono molteplici:sia grandi come il sistema monetario, i cambi, il negoziato commerciale sia spiccioli come le poltrone del Fondo monetario.
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