LA SPINTA DELE ORE LAVORATE
Giuseppe Pennisi
Da alcuni anni è in corso un dibattito sulle ore effettivamente lavorate in Europa e nel resto del mondo. La ha innescato un saggio dell’economista Edward Prescott pubblicato (ma si tratta di mera coincidenza) lo stesso anno (il 2004) in cui gli è stato conferito il Premio Nobel. Sulla base di un’elaborata analisi statistica, Prescott documentava che mediamente, un americano lavorava il 50 per cento di più ffettivamente lavorate in 12 mesi). Se – come hanno sempre ritenuto gli economisti “classici” – c’è un nesso tra lavoro e crescita, è questa una ragione per cui a partire dagli Anni Ottanta, l’Europa arranca e l’America galoppa. Non è sempre stato cosi: Alberto Alesina e Bruce Sacerdote hanno ricordato che non è sempre stato così: all’inizio degli Anni Settanta , le ore effettivamente lavorate degli occupati americani ed europei si equivalevano ma da allora è iniziato uno strisciante divario che ha portato alla situazione documentata da Prescott.
Prima che scoppiasse la crisi finanziaria e rallentasse l’economia, un contributo importante è venuto dall’Organizzazione internazione del lavoro (Ilo, International Labor Organization) i cui rapporti periodici sugli indicatori chiave del mercato del lavoro afferma che gli stakanovisti non sono gli americani (con le loro 1824 ore l’anno effettivamente lavorate, mediamente, da ciascun occupato) ma i coreani del sud (con 2380 ore – ossia 48 ore la settimana , tenendo conto di due settimane di vacanza ). In Europa, poi, gli sfaticati (per così dire) non sono gli spagnoli con le loro mediamente 1799 ore , più delle 1669 dei britannici , per non parlare delle 1450 ore circa dei francesi e degli italiani. Gli Stati Uniti galoppano non solo perché ciascuno di loro lavora più ore degli europei non perché la loro produttività oraria (output per ora lavorata) è maggiore di quella rilevata nel continente vecchio. La produttività oraria dei francesi è quasi pari a quella degli americani (quella degli italiani è il 70% di quella Usa). La determinante principale sono i congedi annuali per ferie, per malattia o altro e le festività ufficiali.
Il dibattito ha gradualmente interessato più i sociologici del lavoro che gli economisti. Nello scavare nel differenziale ci si è chiesto sempre di più se gli europei non dessero maggiore valore ad altri aspetti della qualità della vita (il tempo libero, la famiglia, le attività culturali) rispetto al lavoro.
Il tema, sopito negli anni della crisi finanziaria, torna ad essere d’attualità ora che dalla crisi si spera di uscire: nell’area dell’euro il tasso di disoccupazione è pari al 10% delle forze di lavoro, negli Usa al 9,6%. La differenza è impercettibile. Il Pil degli Stati Uniti, però, cresce circa al 3% l’anno, quello dell’area dell’euro all’1,5% (quello dell’Italia attorno all’1%). Dato che una maggiore crescita del Pil è universalmente ritenuta come ingrediente per ridurre il flagello della disoccupazione, non è utile tornare ad indagare sulle differenze di ore di lavoro tra i due lati dell’Atlantico?
Lo hanno fatto in un documento in corso di pubblicazione Linda Bell dell’Istituto Tedesco di Studi sul Lavoro e Richard Freeman dell’Università di Harvard tramite un’indagine empirica rigorosamente economica , ossia amministrando questionari ad un campione di lavoratori tedeschi ed americani. Le differenze in ore lavorate e impegno ( quindi, produttività) ed il loro cambiamento negli ultimi 30 anni non risalgono a determinanti sociologiche ma a come lo stato sociale (con i relativi ammortizzatori) si è esteso in Germania (e nel resto d’Europa) mentre è rimasto minimo negli Usa. Negli Stati Uniti, in breve, si lavorano più ore che in Europa perché si teme di finire sul lastrico se si resta senza lavoro. Altra determinante è il prestigio sociale che gli americani attribuiscono agli alti redditi da lavoro.
Se dunque, durante la fase acuta della crisi, il nostro sistema d’ammortizzatori sociali, in particolare la cassa integrazione, ha meglio protetto i lavoratori ed i loro redditi, durante la fase di ripresa il saper di potere contare su ammortizzatori generosi (almeno per i dipendenti) rischia di frenare la spinta e la produttività.
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