ECO - Finanziaria: gli spazi angusti per lo sviluppo
Roma, 24 set (Il Velino) -
La settimana prossima il governo presenterà la legge finanziaria. Sarà un disegno di legge molto breve – il Tesoro afferma che si tratterà di tre succinti articoli e tre tabelle. Sulla legge di bilancio si stagliano varie determinanti: a) gli ultimi dati sulla situazione occupazionale, particolarmente preoccupanti per i giovani e per il Mezzogiorno; b) le proposte della Commissione europea, a fronte dell’aumento dello stock di debito pubblico in tutti gli Stati Ue (una conseguenza della crisi), di porre un tetto dell’1 per cento all’aumento della spesa pubblica dei più indebitati (l’Italia è nelle prime file, in compagnia di Spagna, Portogallo e naturalmente Grecia); c) la necessità di porsi un obiettivo per portare lo stock di debito pubblico (in rapporto al Pil) a livelli in linea con quelli previsti dal Trattato di Maastricht e del patto di stabilità, due accordi internazionali che abbiamo firmato. Questo ultimo punto è spesso trascurato nella pubblicistica: quale che sia il governo comporta l’impegno di tornare a un significativo “saldo primario” (differenza tra entrate e spese al netto del servizio del debito pubblico) variamente stimabili tra il 4 per cento e il 5 per cento del Pil se ci si propone di giungere a uno stock di debito pubblico attorno all’80-60 per cento del Pil tra il 2025 ed il 2030 (ossia con circa 30-40 anni di ritardo rispetto alle proposte iniziali del Trattato di Maastricht). Ciò comporta un’”austerità” non di breve o anche medio periodo ma di almeno tre- quattro lustri, ossia per un’intera generazione. Inoltre, non è un’austerità imposta dai “cinici eurocrati”, ma dai mercati internazionali come si è visto nel recente caso della Grecia. Chi l’ha dimenticata, legga l’analisi da Francoforte di Jack Ewing sull’International Herald Tribune di venerdì 24 settembre: i mercati finanziari della zona dell’euro sono in tensione e anche gli impieghi finanziari più liquidi hanno difficoltà a trovare un motore. A fronte di questo quadro, non certo roseo, sarebbe errato rotolarsi per terra ululando contro la malignità del Fato e la cattiveria degli esseri umani. Ci sono, infatti, spazi di manovra da parte sia del privato (imprese ed individui) sia del pubblico (Stato, Province, Regioni, Comuni). La via maestra per il privato è l’aumento della produttività e delle ore effettivamente lavorate: in termini di output per ora di lavoro la produttività media di un italiano è il 70 per cento di quella di un americano; il numero effettivo di ore lavorate l’anno per un italiano è 1450 rispetto a 1850 di un americano e 2830 di un coreano del Sud. Ciò comporta riorganizzazioni del modo di lavorare di cui l’accordo di Pomigliano è solo un assaggio. Da parte del pubblico, le novene per un miglioramento di efficienza ed efficacia funzionano solamente se hanno denti. In attesa che i “piani industriali” per migliorare la Pa diano, nel medio periodo, i loro frutti, occorre togliere risorse a chi non le spende o le spende male. Un primo passo è in corso d’attuazione: la concentrazione in un’autorità di spesa la responsabilità per i Fondi europei che rischiano di essere dirottati verso altri Paesi poiché alcune Regioni non riescono a utilizzarli. Uno più significativo consisterebbe nell’anticipare al 2011 la riforma della contabilità di bilancio (peraltro da attuarsi nel 2012 se non intervengono deroghe), passando al bilancio di cassa e azzerando “contabilità speciali” (cospicue quelle dei ministeri delle infrastrutture e dei beni culturali) dove si annidano fondi che potrebbero essere destinati allo sviluppo con strumenti quali il Fondo investimenti e occupazione degli anni Ottanta e il Fondo per il Rientro dalla disoccupazione degli anni Novanta (ovviamente riveduti e corretti sulla base di risultati ed esperienze).
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