domenica 5 settembre 2010

IL FUTURO DELLA POLITICA INDUSTRIALE ITALIANA: VERSO L’EUROPA 2020 Il Tempo 5 settembre

IL FUTURO DELLA POLITICA INDUSTRIALE ITALIANA: VERSO L’EUROPA 2020
Giuseppe Pennisi
Uno dei primi compiti di chi passerà la soglia di Via Molise 2 con l’incarico di Ministro dello Sviluppo Economico sarà quello di dare nuova rispettabilità ad una locuzione spesso considerata una parolaccia:”politica industriale”. Perché è diventata tale? In Italia, Paese di tarda industrializzazione, si è sempre fatta “politica industriale”, anche prima che termine venisse coniato. La prima fase, in età giolittiana, si chiuse con lo scandalo della Banca Romana (che nessuno vuole ricordare). Tra le due guerre mondiali, venne concettualizzata una politica per l’industrializzazione del Paese che gran parte del resto del mondo considera, esemplare: non è politically correct parlarne perché legata a lustri che si vogliono obliare. Dopo la ricostruzione, durante il centro-sinistra, si pose l’accento sulla “politica dei settori”; creare, con risorse in gran misura pubbliche, poli di sviluppo per l’industria pesante (non dimenticando mai attenzione all’auto): torna il ricordo della Sir (il cui comitato di liquidazione ha lavorato per 40 anni), della metallurgia di Portovesme, della siderurgia di Bagnoli, di Corigliano e di Portocuso, del “polo” mai creato a Taranto. Negli ultimi due decenni del XX secolo, si è passati alla “politica industriale dei fattori”, ossia incentivi (quindi, sussidi) al capitale ed al lavoro con una certa discrezionalità e predilezione per la media impresa. La memoria va gli istituiti di credito speciale (ed ai loro travagli), alle diatribe con l’Unione europea, Ue, sui Contratti di formazione e lavoro,Cfl, e via discorrendo. Negli ultimi anni, la materia è stata mal ritagliata la materia tra competenze statali e regionali nell’approssimativa riforma del Titolo V della Costituzione; il termine “politica industriale” evoca scampoli di barracuda esperti alle prese con “incentivi” (fortunatamente trasformati in sgravi fiscali) e con “bacini di crisi” (altro parola da incubo), nonché liti nei tribunali amministrativi. Non meravigliamoci se la locuzione “politica industriale” ha perso smalto da non suggerirne l’impiego di fronte a signore.
Il nuovo inquilino di Via Molise 2 ha un’opportunità : prendere come stella polare la sua azione il documento “Europa 2020” della Commissione Europea. E’ un testo agile a cui si deve dare ancora corpo (ed alcuni gruppi di lavoro stanno lavorando a questo fine). Ha una leva significativa che, con la riforma del Titolo V varata di corsa dalla sinistra sperando di prendere voti alla Lega, non è stata frantumata: l’energia. Operando con Eni e con Enel, può mirare a ridurre uno dei maggiori costi per il manifatturiero. Può, inoltre, mandare in pensione le polverosi unità di crisi ed agevolare ristrutturazioni e riorganizzazioni, avvalendosi degli standard internazionali che trapelano dai documenti dell’unità di valutazione poco valorizzata dai suoi predecessori. Può rilanciare la concorrenza anche tramite apposite direttive nelle materie in parte trasferite ad altri livelli di governo. Infine, ha, con altri colleghi dell’Esecutivo, molto da fare nel campo dell’innovazione Futile lamentarsi perché i capitoli di bilancio sono asciutti: “non è tempo di piagnistei “, disse Piero Bargellini (allora Sindaco di Firenze) agli Uffizi con il fango sino alle ginocchia. Guardi al Long Term Investment Club creato dalla Cassa Depositi e Prestiti, con la Caisse de Depôts e Consignations francese, la Bei, il Fondo sovrano cinese ed altri. Le buone idee trovano sempre finanziatori.

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