Perché la crisi fa bello il Fmi
Quando nel luglio 2007 la crisi finanziaria internazionale ha cominciato a mordere, nel magnifico edificio all’angolo tra la 19sima Strada e Pennsylvania Avenue della capitale degli Stati Uniti - sede del Fondo monetario internazionale (Fmi) - si è tirato un sospiro di sollievo: il mondo entrava in crisi, quindi loro ne uscivano. E si allontanava non solo il blocco degli stipendi ma anche la paventata riduzione del 20 percento dell’organico.
Per chi non conosce i meandri delle istituzioni create a Bretton Woods nel 1944 (oltre al Fmi, le cinque distinte organizzazioni del Gruppo Banca mondiale) è difficile comprendere le difficoltà del Fondo. Mentre nel corso dei decenni la Banca mondiale ha mostrato un alto grado di “efficienza adattiva”, ossia è riuscita a re-inventare sempre se stessa (passando dal finanziamento della ricostruzione in Francia, Germania, Giappone ed Italia allo “sradicamento della povertà”), il Fondo è rimasto bloccato alla missione definita dai “padri fondatori”: aiutare, tramite prestiti a breve termine, Stati con i conti con l’'estero in profondo rosso. Ha cercato di arricchirla con vari marchingegni (ad esempio i prestiti per il riassetto strutturale), ed ora spera di trovarne una nella vigilanza. Man mano che, negli anni della crescita di buon livello dell’'economia mondiale, perdeva non solo clienti (poiché quasi tutto il resto del mondo diventava prestatore netto nei confronti degli Stati Uniti), ma anche introiti (sostanzialmente gli interessi sui prestiti). Le aree un tempo emergenti (Asia in primo luogo ma anche America Latina) non hanno esigenza di ricorrere al Fmi che raramente; il Bacino del Pacifico ha pure messo in cantiere un proprio strumento per le emergenze.
Al cambiamento dell’'economia mondiale, non ha corrisposto una modifica del sistema di governance. Mentre la Banca mondiale, è essenzialmente un’istituzione Presidenziale (a ragione delle deleghe attribuite dal CdA, che pur si riunisce mediamente una volta la settimana), il Fmi ha al proprio cuore un CdA che si riunisce tre volte la settimana e un Managing Director (attualmente il francese Dominique Strauss-Kahn) che opera su mandato specifico dei 24 Direttori Esecutivi. Il sistema di nomina dei Direttori Esecutivi è analogo al Fmi ed in Banca mondiale (e con gli aggiustamenti del caso in altre banche e fondi regionali). Un numero di Direttori sono nominati dai Governi (Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia, Regno Unito) e dispongono del 40 percento circa dei voti, gli altri, eletti da gruppi di Stati membri (Il Direttore italiano rappresenta pure Albania,Grecia, Malta , Portogallo, San Marino e Timor Leste, per un totale del 4,1 percento dei voti). Gli ex-emergenti vogliono contare di più e lamentato che i voti di cui dispongono al mondo non corrispondono al loro peso nel pil e nell’'export mondiale.
Un programma graduale di riforme, varato nella primavera 2006, ha fornito aumenti delle rispettive quote a Cina, Corea, Messico e Turchia e progressivamente innalzerà quelle di altri 54 Stati “sottorapresentati”, che fanno sentire, ad ogni occasione, la loro voce. Anche se in Italia quasi non se ne parla. Quelli che strillano di più sono i latino-americani, che avranno forse già a metà ottobre e più probabilmente tra due anni qualche poltronissima e un pesante pacco di voti in cambio (pare promessi loro specificamente da Barack Obama).
Le quote, e i relativi voti, sono solo uno degli aspetti problematici: un libro curato da Paolo Guerrieri e Domenico Lombardi ("L'’Architettura del Mondo Nuovo", Arel, 2010) mette in risalto come il CdA sia “debole” (i grandi “nominati” riferiscono ai loro Governi, gli altri si barcamenano con i loro “elettori”, pochi o nessuno dà la priorità alla missione Fmi), e “passivo” (non sollecita opinioni esterne, raramente prende posizioni dialettiche con il Managing Director).
In questo quadro si pongono i nodi del ruolo dell’'Europa nel Fondo. In base ad una cordiale intesa del 1944, il Managing Director è un europeo (mentre il Presidente della Banca mondiale è un americano). L'’Asia ha provato, senza tanto calore, a ottenere la poltrona; è più interessata al riassetto del sistema monetario (che si negozia in sedi quali il G8 ed il G20) e ai voti nel CdA. Se l’'Ue avesse un seggio unico a rotazione (con voti commensurati al suo peso nel Pil e nell’export mondiale), potrebbe disporre del circa il 30 per cento dei voti e essere l'’azionista di riferimento invece degli gli Stati Uniti con il 16 per cento dei voti (le decisioni più importanti richiedono l'’85 percento dei voti). Anche al più recente Ecofin, Francia, Germania e Regno Uniti sono restii a “perdere” i “loro” Direttori Esecutivi. L’'attuale CdA scade il 31 ottobre. Si preannuncia il solito teatrino per qualche poltrona in condominio.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
di Giuseppe Pennisi
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mercoledì 29 settembre 2010
*Le tute blu al viale del tramonto Il Velino 29 settembre
ECO - *Le tute blu al viale del tramonto
Roma, 29 set (Il Velino) -
La magistratura non ha accolto le richieste della Fiom rivolte a fare tornare sulle linee produttive i tre licenziati a Melfi. È un segno isolato o si pone in più vasto consenso del declino delle tute blu e del loro peso politico- sociale? È interrogativo che merita di essere posto poiché se la risposta è positiva, ciò vuole anche dire che sono velleitari i tentativi di fare un “patto sociale” per la ripresa tra forze produttive (imprenditori-sindacati) , lasciando fuori dalla porta il Governo.
I dati sono impietosi. La Monthly Labor Review, sulla base di un’elaborazione effettuata nel 2006, conclude che il tasso di sindacalizzazione nell’Unione Europea è passato dal 38 per cento del totale degli occupati nel 1970 al 26 per cento nel 2002; oggi secondo stime, sfiorerebbe il 20 per cento. In Francia si è al di sotto dell’8 per cento. In Gran Bretagna del 25 per cento ed in Germania del 20 per cento. I dati relativi all’Italia non sono considerati attendibili perché mancando una legge sulla rappresentanza, c’è chi è iscritto a più sindacati (spesso senza neanche saperlo). In Europa Orientale, si è passati dal 90 per cento prima del crollo del muro di Berlino a meno del 10 per cento secondo le stime più recenti. Uno studio della Fondazione Europea per lo Studio delle Condizioni di Vita afferma che in 22 dei 24 Paesi censiti nei cinque anni precedenti il 2008, il tasso di sindacalizzazione ha subito un forte declino. Un’inchiesta di Sarah Morris e Gavin Jones in corso di pubblicazione in questi giorni nei servizi speciali Reuters aggiunge che alla contrazione numerica si accompagna una perdita di credibilità. Per questo motivo, ad esempio, la protesta contro il programma di austerità ha fatto scendere in piazza solo 12mila persone rispetto al milione che nel 2001 ha manifestato contro il progetto di cambiare l’età pensionabile. Oppure nonostante fonti sindacali stimano in 1-2 milioni di persone coloro che hanno dimostrato in Francia due settimane fa contro la riforma delle pensioni, si è trattato di una sola giornata non delle tre settimane che paralizzarono il Paese a metà Anni Novanta. In Gran Bretagna c’è stato uno sciopero di 24 ore rispetto alla riduzione del personale della metropolitana- nulla di analogo alle maxi proteste anti Thathcher degli Anni Settanta ed Ottanta. La perdita di credibilità, oltre che di popolarità – afferma uno studio spagnolo - dipende dal fatto che le confederazioni sono percepite tutelare chi ha un rapporto di lavoro a tempo indeterminato non la crescente massa di “flessibili” e di “partite Iva”.
In Italia, il problema riguarda principalmente la Cgil che ormai pare sul percorso del proprio crepuscolo. Una nuova sconfitta potrebbe avere, per la confederazione, esiti simili a quelli che la battaglia di Sedan ebbe, nel 1870, per il Secondo Impero francese : dimostrerebbe a tutto campo che la Cgil non è stata in grado di effettuare un cambiamento tale da riflettere quelli dell’economia, dell’occupazione e della società. La sentenza su Melfi potrebbe essere se non la nuova Sedan, l’annuncio che la débacle non è così lontana. Nell’Italia del Terzo Millennio, la Cgil mostra di considerare i metalmeccanici la propria àncora e la propria avanguardia, nonostante da oltre 30 anni due terzi degli occupati siano nei servizi, non nel manifatturiero. È un crepuscolo triste e grave su cui deve riflettere la nuova dirigenza del sindacato.
È triste perché nei lontani Anni Cinquanta, la Cgil fu il sindacato che mostrò di meglio avvertire il cambiamento e di spostare la propria attenzione dall’agricoltura all’industria, trasformandosi da voce dei braccianti a espressione degli operai. È grave perché è difficile congetturare quale spazio e quale ruolo avrà la Cgil nel futuro del dialogo sociale dell’Italia. I servizi – specialmente le pubbliche amministrazioni che predominano nel terziario - hanno trovato da lustri rappresentanza nella Cisl, nella Uil, nella Ugl e nella Cisal.
(Giuseppe Pennisi) 29 set 2010 20:12
Roma, 29 set (Il Velino) -
La magistratura non ha accolto le richieste della Fiom rivolte a fare tornare sulle linee produttive i tre licenziati a Melfi. È un segno isolato o si pone in più vasto consenso del declino delle tute blu e del loro peso politico- sociale? È interrogativo che merita di essere posto poiché se la risposta è positiva, ciò vuole anche dire che sono velleitari i tentativi di fare un “patto sociale” per la ripresa tra forze produttive (imprenditori-sindacati) , lasciando fuori dalla porta il Governo.
I dati sono impietosi. La Monthly Labor Review, sulla base di un’elaborazione effettuata nel 2006, conclude che il tasso di sindacalizzazione nell’Unione Europea è passato dal 38 per cento del totale degli occupati nel 1970 al 26 per cento nel 2002; oggi secondo stime, sfiorerebbe il 20 per cento. In Francia si è al di sotto dell’8 per cento. In Gran Bretagna del 25 per cento ed in Germania del 20 per cento. I dati relativi all’Italia non sono considerati attendibili perché mancando una legge sulla rappresentanza, c’è chi è iscritto a più sindacati (spesso senza neanche saperlo). In Europa Orientale, si è passati dal 90 per cento prima del crollo del muro di Berlino a meno del 10 per cento secondo le stime più recenti. Uno studio della Fondazione Europea per lo Studio delle Condizioni di Vita afferma che in 22 dei 24 Paesi censiti nei cinque anni precedenti il 2008, il tasso di sindacalizzazione ha subito un forte declino. Un’inchiesta di Sarah Morris e Gavin Jones in corso di pubblicazione in questi giorni nei servizi speciali Reuters aggiunge che alla contrazione numerica si accompagna una perdita di credibilità. Per questo motivo, ad esempio, la protesta contro il programma di austerità ha fatto scendere in piazza solo 12mila persone rispetto al milione che nel 2001 ha manifestato contro il progetto di cambiare l’età pensionabile. Oppure nonostante fonti sindacali stimano in 1-2 milioni di persone coloro che hanno dimostrato in Francia due settimane fa contro la riforma delle pensioni, si è trattato di una sola giornata non delle tre settimane che paralizzarono il Paese a metà Anni Novanta. In Gran Bretagna c’è stato uno sciopero di 24 ore rispetto alla riduzione del personale della metropolitana- nulla di analogo alle maxi proteste anti Thathcher degli Anni Settanta ed Ottanta. La perdita di credibilità, oltre che di popolarità – afferma uno studio spagnolo - dipende dal fatto che le confederazioni sono percepite tutelare chi ha un rapporto di lavoro a tempo indeterminato non la crescente massa di “flessibili” e di “partite Iva”.
In Italia, il problema riguarda principalmente la Cgil che ormai pare sul percorso del proprio crepuscolo. Una nuova sconfitta potrebbe avere, per la confederazione, esiti simili a quelli che la battaglia di Sedan ebbe, nel 1870, per il Secondo Impero francese : dimostrerebbe a tutto campo che la Cgil non è stata in grado di effettuare un cambiamento tale da riflettere quelli dell’economia, dell’occupazione e della società. La sentenza su Melfi potrebbe essere se non la nuova Sedan, l’annuncio che la débacle non è così lontana. Nell’Italia del Terzo Millennio, la Cgil mostra di considerare i metalmeccanici la propria àncora e la propria avanguardia, nonostante da oltre 30 anni due terzi degli occupati siano nei servizi, non nel manifatturiero. È un crepuscolo triste e grave su cui deve riflettere la nuova dirigenza del sindacato.
È triste perché nei lontani Anni Cinquanta, la Cgil fu il sindacato che mostrò di meglio avvertire il cambiamento e di spostare la propria attenzione dall’agricoltura all’industria, trasformandosi da voce dei braccianti a espressione degli operai. È grave perché è difficile congetturare quale spazio e quale ruolo avrà la Cgil nel futuro del dialogo sociale dell’Italia. I servizi – specialmente le pubbliche amministrazioni che predominano nel terziario - hanno trovato da lustri rappresentanza nella Cisl, nella Uil, nella Ugl e nella Cisal.
(Giuseppe Pennisi) 29 set 2010 20:12
martedì 28 settembre 2010
Libri, come prepararsi ad ascoltare la stagione dei grandi pianisti Il Velino 28 settembre
CLT - Libri, come prepararsi ad ascoltare la stagione dei grandi pianisti
Roma, 28 set (Il Velino) - In prossimità del bicentenario della nascita di Franz Listz, molte stagioni concertistiche dedicano ampio spazio al grande compositore e alla “scuola” da lui creata. Per esempio, l’Accademia di Santa Cecilia (i cui programmi iniziano il 16 ottobre) presenta sette maratone listziane con Berezovksy, Pappano e Campanella. Anche il Bologna Festival, pur imperniato sul moderno e sull’antico anziché sul romanticismo, è cominciato il 27 settembre con una maratona pianistica di Pietro De Maria. Oltre alla “Listzomania”, per mutuare il titolo di un bel film di Ken Russell del lontano 1975, c’è anche un’esigenza finanziaria. Molte organizzazione concertistiche, come i vari “Amici della Musica” sparsi su tutta la Penisola, danno priorità alla musica da camera e in particolare alla pianistica in una fase, come l’attuale, in cui i bilanci sono molto stretti.
Per i frequentatori di concerti, specialmente in città che non hanno l’offerta di Roma, Milano, Torino e Palermo, è di estrema utilità la collana “I grandi pianisti” del piccolo ma dinamico Zecchini Editore. Ce ne siamo già occupati a proposito delle ricorrenze di Chopin. Ora Piero Rattalino, che è stato direttore artistico di un’importante fondazione lirica (e che ha perso lustro da quando non se ne occupa più), ha appena pubblicato due libri che vanno gustati pagina dopo pagina. Il primo riguarda Alfred Cortot: “Il sosia”. Una curiosità per i non specialisti del mondo del pianoforte. Cornot non è stato un enfant prodige; voleva diventare un maestro concertatore. Appassionatosi di Wagner, dopo una visita a Bayreuth, organizzò a Parigi l’esecuzione del “Crepuscolo degli Dei”, da lui diretto. Grande successo artistico ma disastro finanziario. Da lì prese avvio una carriera pianistica internazionale, per saldare i debiti, che dal 1914 al 1962 si interseca con la storia d’Europa e del mondo, le due guerre mondiali, l’ascesa del nazismo, la Repubblica di Vichy in Francia, la ricostruzione. Europeissimo sino al midollo, la sua fama arrivò però negli Stati Uniti, dove venne riconosciuto il suo stile inconfondibile.
L’altro libro, riguarda Alfred Brendel: “La tartaruga”. Nato nel 1941, vincitore di grandi concorsi (quali il Busoni), si impose come professionista solidissimo a cui case discografiche e organizzazioni concertistiche potevano affidare gravose imprese. Solo dopo i 40 anni cominciò a farsi veramente notare e dopo la cinquantina a diventare quel protagonista internazionale che fu sino al suo ritiro dal concertismo con una trionfale tournee in tutto il mondo.
(Hans Sachs) 28 set 2010 13:04
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Roma, 28 set (Il Velino) - In prossimità del bicentenario della nascita di Franz Listz, molte stagioni concertistiche dedicano ampio spazio al grande compositore e alla “scuola” da lui creata. Per esempio, l’Accademia di Santa Cecilia (i cui programmi iniziano il 16 ottobre) presenta sette maratone listziane con Berezovksy, Pappano e Campanella. Anche il Bologna Festival, pur imperniato sul moderno e sull’antico anziché sul romanticismo, è cominciato il 27 settembre con una maratona pianistica di Pietro De Maria. Oltre alla “Listzomania”, per mutuare il titolo di un bel film di Ken Russell del lontano 1975, c’è anche un’esigenza finanziaria. Molte organizzazione concertistiche, come i vari “Amici della Musica” sparsi su tutta la Penisola, danno priorità alla musica da camera e in particolare alla pianistica in una fase, come l’attuale, in cui i bilanci sono molto stretti.
Per i frequentatori di concerti, specialmente in città che non hanno l’offerta di Roma, Milano, Torino e Palermo, è di estrema utilità la collana “I grandi pianisti” del piccolo ma dinamico Zecchini Editore. Ce ne siamo già occupati a proposito delle ricorrenze di Chopin. Ora Piero Rattalino, che è stato direttore artistico di un’importante fondazione lirica (e che ha perso lustro da quando non se ne occupa più), ha appena pubblicato due libri che vanno gustati pagina dopo pagina. Il primo riguarda Alfred Cortot: “Il sosia”. Una curiosità per i non specialisti del mondo del pianoforte. Cornot non è stato un enfant prodige; voleva diventare un maestro concertatore. Appassionatosi di Wagner, dopo una visita a Bayreuth, organizzò a Parigi l’esecuzione del “Crepuscolo degli Dei”, da lui diretto. Grande successo artistico ma disastro finanziario. Da lì prese avvio una carriera pianistica internazionale, per saldare i debiti, che dal 1914 al 1962 si interseca con la storia d’Europa e del mondo, le due guerre mondiali, l’ascesa del nazismo, la Repubblica di Vichy in Francia, la ricostruzione. Europeissimo sino al midollo, la sua fama arrivò però negli Stati Uniti, dove venne riconosciuto il suo stile inconfondibile.
L’altro libro, riguarda Alfred Brendel: “La tartaruga”. Nato nel 1941, vincitore di grandi concorsi (quali il Busoni), si impose come professionista solidissimo a cui case discografiche e organizzazioni concertistiche potevano affidare gravose imprese. Solo dopo i 40 anni cominciò a farsi veramente notare e dopo la cinquantina a diventare quel protagonista internazionale che fu sino al suo ritiro dal concertismo con una trionfale tournee in tutto il mondo.
(Hans Sachs) 28 set 2010 13:04
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lunedì 27 settembre 2010
I teatri rischiano di chiudere: puntare sulle nuove generazioni può risolvere alcuni problemi Il Foglio 27 settembre
27 settembre 2010
Per la crisi dei teatri chiamiamo i giovani
I teatri rischiano di chiudere: puntare sulle nuove generazioni può risolvere alcuni problemi
Il risvolto delle crisi sono le opportunità che schiudono. In questi giorni, sulla scia delle altre probabilità di messa in liquidazione del Teatro Carlo Felice di Genova (a fronte di costi per 27 milioni di euro, ricavi di appena 3 milioni, un debito patrimoniale di 16 milioni, soci privati che scappano) e delle difficoltà in cui si dibattono altre dieci fondazioni lirico-sinfoniche (su 14), si dovrebbero fare proposte innovative sotto il profilo sia organizzativo sia artistico. Alcune sono state delineate su Il Foglio del 9 settembre; riguardavano principalmente il riassetto del settore nel medio periodo (e nell’ambito dei regolamenti a cui sta lavorando il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali).
Nell’immediato, però, circa 4500-5000 persone rischiano di trovarsi senza lavoro ed , in gran misura, senza ammortizzatori sociali. Nelle “le masse tecnico artistiche” ci sono (come in altri settori) lavativi e fannulloni. Tuttavia, c’è il rischio che mentre il settore si riorganizza, l’Italia perda capitale umano in una delle forme artistiche italiane maggiormente diffuse nel mondo. Alcuni prenderanno la via dell’estero come hanno già fatto in molti (Germania, Usa, Giappone). La professionalità di altri minaccia di deteriorarsi poiché quello umano è l’unica forma di capitale che se non utilizzato, si sfarina. La crisi dei teatri potrebbe essere il grimaldello non per una mera estensione di ammortizzatori (quali cassa integrazione in deroga) al comparto ma per quella riforma degli ammortizzatori che è bloccata non solo dai vincoli di bilancio ma anche da particolarismi sindacali (fortissimi in un settore in cui la rappresentanza è molto frazionata).
Nel breve termine c’è anche un’altra misura: puntare sui giovani, spesso in Italia spiazzata dalla gerontocrazia che si annida nel settore.Due esempi recenti, si sono visti ed ascoltati alla Sagra Musicale Umbra sui “pellegrinaggi dello spirito” ed al Teatro Massimo di Palermo. Alla manifestazione umbra, si è risposto alla riduzione dei finanziamenti, pubblici e privati, affidando il concerto iniziale alla la Gustav Mahler Jungendorchester , creata nel 1986 da Claudio Abbado e ora guidata dal 28enne David Afkham. Centodieci giovani mediamente sui 23 anni hanno eseguito al Teatro Morlacchi due composizioni di non poca difficoltà: la sinfonia tratta dai tre preludi di Mathis der Mahler di Paul Hindemith e la Sinfonia n.9 in re minore di Anton Bruckner. Il Morlacchi è una cassa armonica in legno pregiato per 700 spettatori. I centodieci strumentisti affollavano un palcoscenico di modeste dimensioni ed utilizzato principalmente per la prosa. Nei loro smoking (per i ragazzi) ed abiti lunghi (per le ragazze) guidati da un giovane spilungone alle prese con il dramma del ruolo dell’intellettuale in politica nella prima parte e dell’incontro di un artista con Dio nella seconda, ce la mettevano tutta con entusiasmo che sprizzava dai ricci di molti di loro. Al termine del concerto, dieci minuti di applausi mentre i ragazzi , per la gioia, si abbracciavano e chiamavano, battendo i piedi, il loro maestro concertatore.
Nel “Barbiere” palermitano Figaro è un “precario” che mette le sue doti al servizio dei potenti sia al tramonto (Don Bartolo, Don Basilio) sia emergenti (Almaviva e , soprattutto, la pepata Rosina). Siamo all’inizio dell’Ottocento come lo vedrebbe Mirò , ma come lo metterebbe in scena Almodovàr (la regia è del 38nnei Francesco Micheli). Siviglia ha colori sfavillanti, i costumi , in sgargiante shantung di seta, di Figaro (in rosso), di Almaviva (blu) e di Rosina (in giallo) contrastano con il nero di quelli di Don Bartolo e Don Basilio. Una lettura nuova che non tradisce lo spirito (e la lettera) del libretto e dello spartito, ma ne mostra i lati più moderni.
Gli aspetti musicali sono affidati a cinque giovani: concerta con entusiasmo ed allegria il trentenne Michele Mariotti. Hanno solo qualche anno più di lui lo scatenato Figaro di Fabio Maria Capitanucci e l’atletico (anche vocalmente) Dmitry Korchak . Ventottenne la bella e brava Ketevan Kemoklidze che, di fatto, debutta in Italia dopo avere vinto il concorso Operalia. Loro coetano, ma truccato da anziano, Nicola Alaimo (Don Bartolo) mentre Don Basilio è il cinquantenne Simone Alaimo. Cachet forse sparagnini ma tournee e DvD in vista . Ed una prima al Massimo pieno di giovani.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
di Giuseppe Pennisi
Per la crisi dei teatri chiamiamo i giovani
I teatri rischiano di chiudere: puntare sulle nuove generazioni può risolvere alcuni problemi
Il risvolto delle crisi sono le opportunità che schiudono. In questi giorni, sulla scia delle altre probabilità di messa in liquidazione del Teatro Carlo Felice di Genova (a fronte di costi per 27 milioni di euro, ricavi di appena 3 milioni, un debito patrimoniale di 16 milioni, soci privati che scappano) e delle difficoltà in cui si dibattono altre dieci fondazioni lirico-sinfoniche (su 14), si dovrebbero fare proposte innovative sotto il profilo sia organizzativo sia artistico. Alcune sono state delineate su Il Foglio del 9 settembre; riguardavano principalmente il riassetto del settore nel medio periodo (e nell’ambito dei regolamenti a cui sta lavorando il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali).
Nell’immediato, però, circa 4500-5000 persone rischiano di trovarsi senza lavoro ed , in gran misura, senza ammortizzatori sociali. Nelle “le masse tecnico artistiche” ci sono (come in altri settori) lavativi e fannulloni. Tuttavia, c’è il rischio che mentre il settore si riorganizza, l’Italia perda capitale umano in una delle forme artistiche italiane maggiormente diffuse nel mondo. Alcuni prenderanno la via dell’estero come hanno già fatto in molti (Germania, Usa, Giappone). La professionalità di altri minaccia di deteriorarsi poiché quello umano è l’unica forma di capitale che se non utilizzato, si sfarina. La crisi dei teatri potrebbe essere il grimaldello non per una mera estensione di ammortizzatori (quali cassa integrazione in deroga) al comparto ma per quella riforma degli ammortizzatori che è bloccata non solo dai vincoli di bilancio ma anche da particolarismi sindacali (fortissimi in un settore in cui la rappresentanza è molto frazionata).
Nel breve termine c’è anche un’altra misura: puntare sui giovani, spesso in Italia spiazzata dalla gerontocrazia che si annida nel settore.Due esempi recenti, si sono visti ed ascoltati alla Sagra Musicale Umbra sui “pellegrinaggi dello spirito” ed al Teatro Massimo di Palermo. Alla manifestazione umbra, si è risposto alla riduzione dei finanziamenti, pubblici e privati, affidando il concerto iniziale alla la Gustav Mahler Jungendorchester , creata nel 1986 da Claudio Abbado e ora guidata dal 28enne David Afkham. Centodieci giovani mediamente sui 23 anni hanno eseguito al Teatro Morlacchi due composizioni di non poca difficoltà: la sinfonia tratta dai tre preludi di Mathis der Mahler di Paul Hindemith e la Sinfonia n.9 in re minore di Anton Bruckner. Il Morlacchi è una cassa armonica in legno pregiato per 700 spettatori. I centodieci strumentisti affollavano un palcoscenico di modeste dimensioni ed utilizzato principalmente per la prosa. Nei loro smoking (per i ragazzi) ed abiti lunghi (per le ragazze) guidati da un giovane spilungone alle prese con il dramma del ruolo dell’intellettuale in politica nella prima parte e dell’incontro di un artista con Dio nella seconda, ce la mettevano tutta con entusiasmo che sprizzava dai ricci di molti di loro. Al termine del concerto, dieci minuti di applausi mentre i ragazzi , per la gioia, si abbracciavano e chiamavano, battendo i piedi, il loro maestro concertatore.
Nel “Barbiere” palermitano Figaro è un “precario” che mette le sue doti al servizio dei potenti sia al tramonto (Don Bartolo, Don Basilio) sia emergenti (Almaviva e , soprattutto, la pepata Rosina). Siamo all’inizio dell’Ottocento come lo vedrebbe Mirò , ma come lo metterebbe in scena Almodovàr (la regia è del 38nnei Francesco Micheli). Siviglia ha colori sfavillanti, i costumi , in sgargiante shantung di seta, di Figaro (in rosso), di Almaviva (blu) e di Rosina (in giallo) contrastano con il nero di quelli di Don Bartolo e Don Basilio. Una lettura nuova che non tradisce lo spirito (e la lettera) del libretto e dello spartito, ma ne mostra i lati più moderni.
Gli aspetti musicali sono affidati a cinque giovani: concerta con entusiasmo ed allegria il trentenne Michele Mariotti. Hanno solo qualche anno più di lui lo scatenato Figaro di Fabio Maria Capitanucci e l’atletico (anche vocalmente) Dmitry Korchak . Ventottenne la bella e brava Ketevan Kemoklidze che, di fatto, debutta in Italia dopo avere vinto il concorso Operalia. Loro coetano, ma truccato da anziano, Nicola Alaimo (Don Bartolo) mentre Don Basilio è il cinquantenne Simone Alaimo. Cachet forse sparagnini ma tournee e DvD in vista . Ed una prima al Massimo pieno di giovani.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
di Giuseppe Pennisi
domenica 26 settembre 2010
Teatro Massimo: un modello che può fare bene al Sud Ffwebmagazine 26 settembre
Focus
Un sistema virtuoso da analizzare con orgoglio
Teatro Massimo: un modello
che può fare bene al Sud
di Giuseppe Pennisi
I più giovani non ricorderanno certo Piero Bargellini, allora sindaco di Firenze, con il fango sino alle ginocchia negli splendidi Uffizi durante l’alluvione dell’Arno del 1966. Mentre tutti si strappavano le vesti (non potendosi rotolare per terra a causa del fango), disse con voce stentorea: "Non è tempo di piagnistei"
. La frase rovesciò la situazione: da una Toscana depressa ed avvilita si passò ad un entusiasmo che si diffuse in tutt’Italia per la ricostruzione ed il restauro delle meraviglie della città del Giglio e del resto della regione.
Si è mai pensato ad adottare una strategia analoga per il Sud e le Isole? Diversi anni fa, venne proposta da Luca Meldolesi dell’Università Federico II di Napoli in un saggio intitolato Mezzogiorno con Gioia! Allora non erano ancora di moda la neuro-economia e l’economia della felicità (di cui si occuperà il prossimo numero di Charta minuta); filoni di pensiero e di ricerca che hanno suffragato le intuizioni della seconda metà degli Anni Ottanta.
Non proponiamo di addentrarci su questi ardui sentieri sul nostro webmagazine ma di segnale storie di successo nel Sud, tanto più importanti perché poco conosciute. La più significativa è quella del risanamento del Teatro Massimo di Palermo, il cui restauro è durato circa un quarto di secolo ed è stato contrappuntato da vicende (vere od immaginarie) di scorrettezze di ogni natura. Attenzione, come è noto, l’intero comparto delle fondazioni liriche è in pieno caos. Il debito accumulato dalla loro creazione con la “Legge Veltroni” supera i 300 milioni di euro. Il totale dei sussidi pubblici (Stato, Regioni, Province, Comuni) è aumentato dal 2001 al 2008 da 332 a 351 milioni di euro l’anno, ma nell’arco dello stesso periodo i costi di produzione sono passati da 506 a 558 milioni. Il Carlo Felice di Genova è sull’orlo del fallimento. I Teatri comunali di Bologna e Firenze sono sulla stessa strada. Il San Carlo è stato commissariato per anni e la scorsa stagione ha presentato appena una manciata di titoli.
Nel 2004, il Teatro Massimo di Palermo era afflitto da una crisi grave. Il management ha adottato una cura da cavallo: consolidare i debiti con un mutuo contratto con una grande banca internazionale, ampliare la produzione (non ridurla) abbattendo i costi tramite coproduzioni con grandi teatri italiani e stranieri, l’impiego di artisti giovani con cachet contenuti (ma nell’arco di qualche anno protagonisti nei maggiori palcoscenici mondiale), un programma mirato alle scuole, un cartellone che equilibra innovazione con tradizione. Da cinque anni, il Massimo chiude i bilanci consuntivi in attivo (al netto del servizio del mutuo) ; questa stagione presenta 104 recite d’opera e balletto a confronto delle 125 della Scala di Milano e delle 25 del San Carlo di Napoli; ha anche un nutrito programma di sinfonica e recite speciali per i giovani (30.000 ragazzi di Palermo e dintorni vanno ogni anno almeno una volta all’opera). Il risanamento del Massimo viene studiato dai maggiori teatri stranieri ed ha interessato la maggiore stampa estera specializzata.
E’ una vicenda da analizzare. Con orgoglio. Non solo con gioia.
Un sistema virtuoso da analizzare con orgoglio
Teatro Massimo: un modello
che può fare bene al Sud
di Giuseppe Pennisi
I più giovani non ricorderanno certo Piero Bargellini, allora sindaco di Firenze, con il fango sino alle ginocchia negli splendidi Uffizi durante l’alluvione dell’Arno del 1966. Mentre tutti si strappavano le vesti (non potendosi rotolare per terra a causa del fango), disse con voce stentorea: "Non è tempo di piagnistei"
. La frase rovesciò la situazione: da una Toscana depressa ed avvilita si passò ad un entusiasmo che si diffuse in tutt’Italia per la ricostruzione ed il restauro delle meraviglie della città del Giglio e del resto della regione.
Si è mai pensato ad adottare una strategia analoga per il Sud e le Isole? Diversi anni fa, venne proposta da Luca Meldolesi dell’Università Federico II di Napoli in un saggio intitolato Mezzogiorno con Gioia! Allora non erano ancora di moda la neuro-economia e l’economia della felicità (di cui si occuperà il prossimo numero di Charta minuta); filoni di pensiero e di ricerca che hanno suffragato le intuizioni della seconda metà degli Anni Ottanta.
Non proponiamo di addentrarci su questi ardui sentieri sul nostro webmagazine ma di segnale storie di successo nel Sud, tanto più importanti perché poco conosciute. La più significativa è quella del risanamento del Teatro Massimo di Palermo, il cui restauro è durato circa un quarto di secolo ed è stato contrappuntato da vicende (vere od immaginarie) di scorrettezze di ogni natura. Attenzione, come è noto, l’intero comparto delle fondazioni liriche è in pieno caos. Il debito accumulato dalla loro creazione con la “Legge Veltroni” supera i 300 milioni di euro. Il totale dei sussidi pubblici (Stato, Regioni, Province, Comuni) è aumentato dal 2001 al 2008 da 332 a 351 milioni di euro l’anno, ma nell’arco dello stesso periodo i costi di produzione sono passati da 506 a 558 milioni. Il Carlo Felice di Genova è sull’orlo del fallimento. I Teatri comunali di Bologna e Firenze sono sulla stessa strada. Il San Carlo è stato commissariato per anni e la scorsa stagione ha presentato appena una manciata di titoli.
Nel 2004, il Teatro Massimo di Palermo era afflitto da una crisi grave. Il management ha adottato una cura da cavallo: consolidare i debiti con un mutuo contratto con una grande banca internazionale, ampliare la produzione (non ridurla) abbattendo i costi tramite coproduzioni con grandi teatri italiani e stranieri, l’impiego di artisti giovani con cachet contenuti (ma nell’arco di qualche anno protagonisti nei maggiori palcoscenici mondiale), un programma mirato alle scuole, un cartellone che equilibra innovazione con tradizione. Da cinque anni, il Massimo chiude i bilanci consuntivi in attivo (al netto del servizio del mutuo) ; questa stagione presenta 104 recite d’opera e balletto a confronto delle 125 della Scala di Milano e delle 25 del San Carlo di Napoli; ha anche un nutrito programma di sinfonica e recite speciali per i giovani (30.000 ragazzi di Palermo e dintorni vanno ogni anno almeno una volta all’opera). Il risanamento del Massimo viene studiato dai maggiori teatri stranieri ed ha interessato la maggiore stampa estera specializzata.
E’ una vicenda da analizzare. Con orgoglio. Non solo con gioia.
sabato 25 settembre 2010
C’E’ UNA “CABINA DI REGIA” SULLE VALUTE? Avvenire 25 settembre
C’E’ UNA “CABINA DI REGIA” SULLE VALUTE?
Giuseppe Pennisi
E’ cominciato tutto in Estremo Oriente- segno eloquente di come sono cambiati i tempi perché in passato le tensioni valutarie iniziavano di solito sull’Atlantico. Mercoledì scorso , 15 settembre, la Bank of Japan è intervenuta alla grande sul mercato dei cambi- la prima volta in oltre sei anni. In una sola giornata, Tokio ha venduto l’equivalente di circa 22 miliardi di dollari al fine d’arrestare un apprezzamento strisciante della moneta dell’Impero del Sol Levante. Il Ministro delle Finanze, Yoshihiko Noda, ha dichiarato che la misura era diretta ad impedire che l’aumento del valore internazionale della divisa frenasse la crescita del Paese. La settimana si è chiusa con un’altra impennata dello yen. E la crescita? Dopo un decennio di sonno profondo il Giappone sembra stare per svegliarsi: i pre-consuntivi del 2010 indicano un aumento del Pil del 2,8%, che rischierebbe di scendere all’1,4% nel 2011.
Il Presidente dell’Eurogruppo, Jean-Claude Jucker, ha rilasciato una dichiarazione per affermare che l’area dell’euro non è d’accordo con interventi “unilaterali” sui tassi di cambio. Solo pochi giorni prima , l’Ecofin – ovviamente in via unilaterale- ha varato nuove istituzioni per il monitoraggio delle transazioni finanziarie in Europa ed, a ruota, la Commissione Europea un programma di contenimento di operazioni allo scoperto e di controlli sui derivati. Queste misure tendono a rendere più appetibili le attività in euro.
Tokio sta agendo senza un’intesa preventiva o nel quadro di un accordo più vasto ? Il giorno dopo l’inizio degli “interventi” del Giappone, il Segretario al Tesoro Usa , Timothy Geithner, ha tenuto un’audizione al Senato: non un commento su quanto in corso nel Sol Levante ma colpi di mascella alla Cina e richieste di rivalutazione dello yuan.
Di norma, le monete non ballano da sole. Una fonte del Tesoro Usa che non desidera essere citata conferma che “una cabina di regia” c’è ma non precisa il grado di coinvolgimento dell’Ue e dell’Eurogruppo. L’Europa ha 9 seggi su 24 nel Consiglio d’Amministrazione del Fondo monetario internazionalr, ma raramente i rappresentanti del Vecchio Continente, che potrebbero controllare l’istituto, agiscono in maniera coordinata.
L’obiettivo delle operazioni sullo yen e dei colpi di mascella allo yuan è quello di giungere ad un riassetto dei cambi prima dell’inizio delle riunioni preparatorie (G7, G24, vari “caucus” ossia gruppi regionali) dell’assemblea annuale del Fmi e della Banca mondiale. C’è un nesso tra le misure degli ultimi dieci giorni , e quelle che si vedranno nelle prossime settimane. Mentre sulle piazze asiatiche si cerca un riequilibrio tra cambi nominali, cambi effettivi (ed in una più lunga prospettiva parità di potere d’acquisto e squilibri dei conti con l’estero), in Europa l’obiettivo è quello di mettere ordine nel settore bancario e nel mercato finanziario in senso più lato. In effetti, i nodi di fondo sono un’economia reale in cui i trattori sono Stati Uniti ed Asia (tranne Giappone) ed il trainato è la vecchia Europa. Il riassetto dei cambi e la riorganizzazione del mercato finanziario europeo vengono visti come ingrediente essenziale per un percorso più equilibrato (dell’attuale) per uscire dalla crisi. E’ banale pensare che non ci sia una “cabina di regia” dato che si sta operando come se ci fosse stato un nuovo “accordo del Plaza” (concluso il 22 settembre 1985) tra quelli che allora erano i Cinque Grandi in cui Germania e Giappone si impegnarono a ritoccare i cambi ed accelerare la crescita. Oggi non c’è esigenza di un incontro furtivo di sabato ed in una stanza d’albergo. La telematica fa questo e altro. E’ interessante capire se anche l’Europa dell’euro (e l’Italia) fanno parte della “cabina” o ne sono stati lasciati fuori.
Cosa è il carry trade
Quando si parla della bilancia dei pagamenti del Giappone (all’ultima conta, un attivo pari al 3,4% del Pil mentre quella dell’area dell’euro sono in sostanziale pareggio e gli Usa espongono un disavanzo del 3,2% del prodotto interno) e del ruolo dello yen nel sistema monetario internazionale , ricorre spesso la locuzione carry trade. Pochi lettori, anche attenti ai temi economici, sanno di cosa si tratta. In breve, è una strategia in base alla quale un operatore vende divise di un Paese a bassi tassi d’interesse ed utilizza il ricavato per acquistare divise di un Paese a alti tassi d’interesse): se l’operazione è effettuata con una forte leva finanziaria, i ricavi possono essere elevati. Da almeno 15 anni il carry trade ha caratterizzato le transazione tra dollaro Usa e euro, da un lato, e yen, dall’altro poiché il Sol Levante ha tenuto una politica di tassi d’interesse bassissimi (ora i titoli di Stato decennali hanno un tasso dell’1% l’anno) ed a volte anche negativi, con l’obiettivo (peraltro mancato) d’attivare crescita economica. Il carry trade non è privo di rischi: il maggiore è la fluttuazione dei cambi. Dati della Banca dei Regolamenti Internazionali (Bri) indicano una contrazione proprio in concomitanza con gli interventi della Banca del Giappone diretti a frenare l’apprezzamento dello yen.
Giuseppe Pennisi
E’ cominciato tutto in Estremo Oriente- segno eloquente di come sono cambiati i tempi perché in passato le tensioni valutarie iniziavano di solito sull’Atlantico. Mercoledì scorso , 15 settembre, la Bank of Japan è intervenuta alla grande sul mercato dei cambi- la prima volta in oltre sei anni. In una sola giornata, Tokio ha venduto l’equivalente di circa 22 miliardi di dollari al fine d’arrestare un apprezzamento strisciante della moneta dell’Impero del Sol Levante. Il Ministro delle Finanze, Yoshihiko Noda, ha dichiarato che la misura era diretta ad impedire che l’aumento del valore internazionale della divisa frenasse la crescita del Paese. La settimana si è chiusa con un’altra impennata dello yen. E la crescita? Dopo un decennio di sonno profondo il Giappone sembra stare per svegliarsi: i pre-consuntivi del 2010 indicano un aumento del Pil del 2,8%, che rischierebbe di scendere all’1,4% nel 2011.
Il Presidente dell’Eurogruppo, Jean-Claude Jucker, ha rilasciato una dichiarazione per affermare che l’area dell’euro non è d’accordo con interventi “unilaterali” sui tassi di cambio. Solo pochi giorni prima , l’Ecofin – ovviamente in via unilaterale- ha varato nuove istituzioni per il monitoraggio delle transazioni finanziarie in Europa ed, a ruota, la Commissione Europea un programma di contenimento di operazioni allo scoperto e di controlli sui derivati. Queste misure tendono a rendere più appetibili le attività in euro.
Tokio sta agendo senza un’intesa preventiva o nel quadro di un accordo più vasto ? Il giorno dopo l’inizio degli “interventi” del Giappone, il Segretario al Tesoro Usa , Timothy Geithner, ha tenuto un’audizione al Senato: non un commento su quanto in corso nel Sol Levante ma colpi di mascella alla Cina e richieste di rivalutazione dello yuan.
Di norma, le monete non ballano da sole. Una fonte del Tesoro Usa che non desidera essere citata conferma che “una cabina di regia” c’è ma non precisa il grado di coinvolgimento dell’Ue e dell’Eurogruppo. L’Europa ha 9 seggi su 24 nel Consiglio d’Amministrazione del Fondo monetario internazionalr, ma raramente i rappresentanti del Vecchio Continente, che potrebbero controllare l’istituto, agiscono in maniera coordinata.
L’obiettivo delle operazioni sullo yen e dei colpi di mascella allo yuan è quello di giungere ad un riassetto dei cambi prima dell’inizio delle riunioni preparatorie (G7, G24, vari “caucus” ossia gruppi regionali) dell’assemblea annuale del Fmi e della Banca mondiale. C’è un nesso tra le misure degli ultimi dieci giorni , e quelle che si vedranno nelle prossime settimane. Mentre sulle piazze asiatiche si cerca un riequilibrio tra cambi nominali, cambi effettivi (ed in una più lunga prospettiva parità di potere d’acquisto e squilibri dei conti con l’estero), in Europa l’obiettivo è quello di mettere ordine nel settore bancario e nel mercato finanziario in senso più lato. In effetti, i nodi di fondo sono un’economia reale in cui i trattori sono Stati Uniti ed Asia (tranne Giappone) ed il trainato è la vecchia Europa. Il riassetto dei cambi e la riorganizzazione del mercato finanziario europeo vengono visti come ingrediente essenziale per un percorso più equilibrato (dell’attuale) per uscire dalla crisi. E’ banale pensare che non ci sia una “cabina di regia” dato che si sta operando come se ci fosse stato un nuovo “accordo del Plaza” (concluso il 22 settembre 1985) tra quelli che allora erano i Cinque Grandi in cui Germania e Giappone si impegnarono a ritoccare i cambi ed accelerare la crescita. Oggi non c’è esigenza di un incontro furtivo di sabato ed in una stanza d’albergo. La telematica fa questo e altro. E’ interessante capire se anche l’Europa dell’euro (e l’Italia) fanno parte della “cabina” o ne sono stati lasciati fuori.
Cosa è il carry trade
Quando si parla della bilancia dei pagamenti del Giappone (all’ultima conta, un attivo pari al 3,4% del Pil mentre quella dell’area dell’euro sono in sostanziale pareggio e gli Usa espongono un disavanzo del 3,2% del prodotto interno) e del ruolo dello yen nel sistema monetario internazionale , ricorre spesso la locuzione carry trade. Pochi lettori, anche attenti ai temi economici, sanno di cosa si tratta. In breve, è una strategia in base alla quale un operatore vende divise di un Paese a bassi tassi d’interesse ed utilizza il ricavato per acquistare divise di un Paese a alti tassi d’interesse): se l’operazione è effettuata con una forte leva finanziaria, i ricavi possono essere elevati. Da almeno 15 anni il carry trade ha caratterizzato le transazione tra dollaro Usa e euro, da un lato, e yen, dall’altro poiché il Sol Levante ha tenuto una politica di tassi d’interesse bassissimi (ora i titoli di Stato decennali hanno un tasso dell’1% l’anno) ed a volte anche negativi, con l’obiettivo (peraltro mancato) d’attivare crescita economica. Il carry trade non è privo di rischi: il maggiore è la fluttuazione dei cambi. Dati della Banca dei Regolamenti Internazionali (Bri) indicano una contrazione proprio in concomitanza con gli interventi della Banca del Giappone diretti a frenare l’apprezzamento dello yen.
Orphée dalla Rive gauche agli inferi con le baccanti In Milano Finanza 25 settembre
inscena
Orphée dalla Rive gauche agli inferi con le baccanti
di Giuseppe Pennisi
La 25sima edizione del RomaEuropa Festival, in scena fino al 2 dicembre, ha debutatto con Orphée di José Montalvo e Dominique Hervieu. Lo spettacolo è in linea con l'obiettivo della manifestazione, ossia quello di privilegiare l'innovazione mantenendo, però, un aspetto tradizionale.
L'evento si dipana tra 35 spettacoli, alcuni con più repliche (info: www.romaeuropa.net). L'Orphée è una versione moderna dell'«opéra-ballet», la musica di Monteverdi e Gluck è coniugata con ritmi moderni su nastro magnetico. Due soprani, un tenore, un controtenore e una vera e propria folla di acrobatici ballerini portano lo spettatore da moderni Campi Elisi sulla parigina Rive gauche agli inferi e all'ira delle baccanti che uccidono Orfeo quando, persa Euridice, si dedica a culti solo maschili. Lo spettacolo, la cui tournée internazionale tocca Reggio Emilia tra qualche settimana, funziona grazie ai bravi interpreti e ai due solisti di violoncello e tiorba. Per gli appassionati di musica elettronica in cartellone sono previsti anche gli interessanti Sensoralia e Visual Concert. Per coloro che preferiscono il classico contemporaneo sono da preferire i Kafka Fragments di Kurtag con la regia di Peter Sellars. Per i più tradizionali, la rara esecuzione della sinfonia Leningrado di Shostakovic diretta dal giovane ma già mitico Kirill Petrenko, il russo che ha rilanciato la Komische Oper di Berlino. (riproduzione riservata)
baccanti
Campi Elisi
inferi
Orphée dalla Rive gauche agli inferi con le baccanti
di Giuseppe Pennisi
La 25sima edizione del RomaEuropa Festival, in scena fino al 2 dicembre, ha debutatto con Orphée di José Montalvo e Dominique Hervieu. Lo spettacolo è in linea con l'obiettivo della manifestazione, ossia quello di privilegiare l'innovazione mantenendo, però, un aspetto tradizionale.
L'evento si dipana tra 35 spettacoli, alcuni con più repliche (info: www.romaeuropa.net). L'Orphée è una versione moderna dell'«opéra-ballet», la musica di Monteverdi e Gluck è coniugata con ritmi moderni su nastro magnetico. Due soprani, un tenore, un controtenore e una vera e propria folla di acrobatici ballerini portano lo spettatore da moderni Campi Elisi sulla parigina Rive gauche agli inferi e all'ira delle baccanti che uccidono Orfeo quando, persa Euridice, si dedica a culti solo maschili. Lo spettacolo, la cui tournée internazionale tocca Reggio Emilia tra qualche settimana, funziona grazie ai bravi interpreti e ai due solisti di violoncello e tiorba. Per gli appassionati di musica elettronica in cartellone sono previsti anche gli interessanti Sensoralia e Visual Concert. Per coloro che preferiscono il classico contemporaneo sono da preferire i Kafka Fragments di Kurtag con la regia di Peter Sellars. Per i più tradizionali, la rara esecuzione della sinfonia Leningrado di Shostakovic diretta dal giovane ma già mitico Kirill Petrenko, il russo che ha rilanciato la Komische Oper di Berlino. (riproduzione riservata)
baccanti
Campi Elisi
inferi
venerdì 24 settembre 2010
Finanziaria: gli spazi angusti per lo sviluppo Il Velino 24 settembre
ECO - Finanziaria: gli spazi angusti per lo sviluppo
Roma, 24 set (Il Velino) -
La settimana prossima il governo presenterà la legge finanziaria. Sarà un disegno di legge molto breve – il Tesoro afferma che si tratterà di tre succinti articoli e tre tabelle. Sulla legge di bilancio si stagliano varie determinanti: a) gli ultimi dati sulla situazione occupazionale, particolarmente preoccupanti per i giovani e per il Mezzogiorno; b) le proposte della Commissione europea, a fronte dell’aumento dello stock di debito pubblico in tutti gli Stati Ue (una conseguenza della crisi), di porre un tetto dell’1 per cento all’aumento della spesa pubblica dei più indebitati (l’Italia è nelle prime file, in compagnia di Spagna, Portogallo e naturalmente Grecia); c) la necessità di porsi un obiettivo per portare lo stock di debito pubblico (in rapporto al Pil) a livelli in linea con quelli previsti dal Trattato di Maastricht e del patto di stabilità, due accordi internazionali che abbiamo firmato. Questo ultimo punto è spesso trascurato nella pubblicistica: quale che sia il governo comporta l’impegno di tornare a un significativo “saldo primario” (differenza tra entrate e spese al netto del servizio del debito pubblico) variamente stimabili tra il 4 per cento e il 5 per cento del Pil se ci si propone di giungere a uno stock di debito pubblico attorno all’80-60 per cento del Pil tra il 2025 ed il 2030 (ossia con circa 30-40 anni di ritardo rispetto alle proposte iniziali del Trattato di Maastricht). Ciò comporta un’”austerità” non di breve o anche medio periodo ma di almeno tre- quattro lustri, ossia per un’intera generazione. Inoltre, non è un’austerità imposta dai “cinici eurocrati”, ma dai mercati internazionali come si è visto nel recente caso della Grecia. Chi l’ha dimenticata, legga l’analisi da Francoforte di Jack Ewing sull’International Herald Tribune di venerdì 24 settembre: i mercati finanziari della zona dell’euro sono in tensione e anche gli impieghi finanziari più liquidi hanno difficoltà a trovare un motore. A fronte di questo quadro, non certo roseo, sarebbe errato rotolarsi per terra ululando contro la malignità del Fato e la cattiveria degli esseri umani. Ci sono, infatti, spazi di manovra da parte sia del privato (imprese ed individui) sia del pubblico (Stato, Province, Regioni, Comuni). La via maestra per il privato è l’aumento della produttività e delle ore effettivamente lavorate: in termini di output per ora di lavoro la produttività media di un italiano è il 70 per cento di quella di un americano; il numero effettivo di ore lavorate l’anno per un italiano è 1450 rispetto a 1850 di un americano e 2830 di un coreano del Sud. Ciò comporta riorganizzazioni del modo di lavorare di cui l’accordo di Pomigliano è solo un assaggio. Da parte del pubblico, le novene per un miglioramento di efficienza ed efficacia funzionano solamente se hanno denti. In attesa che i “piani industriali” per migliorare la Pa diano, nel medio periodo, i loro frutti, occorre togliere risorse a chi non le spende o le spende male. Un primo passo è in corso d’attuazione: la concentrazione in un’autorità di spesa la responsabilità per i Fondi europei che rischiano di essere dirottati verso altri Paesi poiché alcune Regioni non riescono a utilizzarli. Uno più significativo consisterebbe nell’anticipare al 2011 la riforma della contabilità di bilancio (peraltro da attuarsi nel 2012 se non intervengono deroghe), passando al bilancio di cassa e azzerando “contabilità speciali” (cospicue quelle dei ministeri delle infrastrutture e dei beni culturali) dove si annidano fondi che potrebbero essere destinati allo sviluppo con strumenti quali il Fondo investimenti e occupazione degli anni Ottanta e il Fondo per il Rientro dalla disoccupazione degli anni Novanta (ovviamente riveduti e corretti sulla base di risultati ed esperienze).
Roma, 24 set (Il Velino) -
La settimana prossima il governo presenterà la legge finanziaria. Sarà un disegno di legge molto breve – il Tesoro afferma che si tratterà di tre succinti articoli e tre tabelle. Sulla legge di bilancio si stagliano varie determinanti: a) gli ultimi dati sulla situazione occupazionale, particolarmente preoccupanti per i giovani e per il Mezzogiorno; b) le proposte della Commissione europea, a fronte dell’aumento dello stock di debito pubblico in tutti gli Stati Ue (una conseguenza della crisi), di porre un tetto dell’1 per cento all’aumento della spesa pubblica dei più indebitati (l’Italia è nelle prime file, in compagnia di Spagna, Portogallo e naturalmente Grecia); c) la necessità di porsi un obiettivo per portare lo stock di debito pubblico (in rapporto al Pil) a livelli in linea con quelli previsti dal Trattato di Maastricht e del patto di stabilità, due accordi internazionali che abbiamo firmato. Questo ultimo punto è spesso trascurato nella pubblicistica: quale che sia il governo comporta l’impegno di tornare a un significativo “saldo primario” (differenza tra entrate e spese al netto del servizio del debito pubblico) variamente stimabili tra il 4 per cento e il 5 per cento del Pil se ci si propone di giungere a uno stock di debito pubblico attorno all’80-60 per cento del Pil tra il 2025 ed il 2030 (ossia con circa 30-40 anni di ritardo rispetto alle proposte iniziali del Trattato di Maastricht). Ciò comporta un’”austerità” non di breve o anche medio periodo ma di almeno tre- quattro lustri, ossia per un’intera generazione. Inoltre, non è un’austerità imposta dai “cinici eurocrati”, ma dai mercati internazionali come si è visto nel recente caso della Grecia. Chi l’ha dimenticata, legga l’analisi da Francoforte di Jack Ewing sull’International Herald Tribune di venerdì 24 settembre: i mercati finanziari della zona dell’euro sono in tensione e anche gli impieghi finanziari più liquidi hanno difficoltà a trovare un motore. A fronte di questo quadro, non certo roseo, sarebbe errato rotolarsi per terra ululando contro la malignità del Fato e la cattiveria degli esseri umani. Ci sono, infatti, spazi di manovra da parte sia del privato (imprese ed individui) sia del pubblico (Stato, Province, Regioni, Comuni). La via maestra per il privato è l’aumento della produttività e delle ore effettivamente lavorate: in termini di output per ora di lavoro la produttività media di un italiano è il 70 per cento di quella di un americano; il numero effettivo di ore lavorate l’anno per un italiano è 1450 rispetto a 1850 di un americano e 2830 di un coreano del Sud. Ciò comporta riorganizzazioni del modo di lavorare di cui l’accordo di Pomigliano è solo un assaggio. Da parte del pubblico, le novene per un miglioramento di efficienza ed efficacia funzionano solamente se hanno denti. In attesa che i “piani industriali” per migliorare la Pa diano, nel medio periodo, i loro frutti, occorre togliere risorse a chi non le spende o le spende male. Un primo passo è in corso d’attuazione: la concentrazione in un’autorità di spesa la responsabilità per i Fondi europei che rischiano di essere dirottati verso altri Paesi poiché alcune Regioni non riescono a utilizzarli. Uno più significativo consisterebbe nell’anticipare al 2011 la riforma della contabilità di bilancio (peraltro da attuarsi nel 2012 se non intervengono deroghe), passando al bilancio di cassa e azzerando “contabilità speciali” (cospicue quelle dei ministeri delle infrastrutture e dei beni culturali) dove si annidano fondi che potrebbero essere destinati allo sviluppo con strumenti quali il Fondo investimenti e occupazione degli anni Ottanta e il Fondo per il Rientro dalla disoccupazione degli anni Novanta (ovviamente riveduti e corretti sulla base di risultati ed esperienze).
giovedì 23 settembre 2010
Roma Europa Festival, con “Orphée” festeggia i suoi 25 anni Il Velino 23 settembre
CLT - Roma Europa Festival, con “Orphée” festeggia i suoi 25 anni
Roma, 23 set (Il Velino) - Festeggia la 25esima edizione il Roma Europa Festival che, cominciato il 21 settembre, proseguirà fino al 2 dicembre. La manifestazione nacque come una scommessa: portare nella Capitale il modo nuovo di fare musica e danza nel resto d’Europa, principalmente in Francia. L’iniziativa veniva da uno dei “padri nobili” della programmazione (Giovanni Pierracini) diventato successivamente un grande specialista di assicurazioni e di finanza, ma sempre appassionato di arte contemporanea (dal visivo alla musica, pure elettronica) e ancora attivissimo, a 92 anni. Lo affiancava una (allora) giovane organizzatrice musicale francese, Monique Vaude, adesso vicepresidente operativo di un evento sempre più complesso. Al finanziamento pubblico si aggiungeva quello privato perché il Festival portava a Roma spettacoli di musica, danza e teatro totale con grande enfasi sulle nuove tecnologie digitali dell’informazione e della comunicazione. Il riscontro fu immediato, specialmente presso il pubblico più giovane. Da essenzialmente italo-francese, la manifestazione è diventata sempre più internazionale, portando per la prima volta a Roma registi americani come Peter Sellars e autori e spettacoli dal resto d’Europa e dalla sponda inferiore del Mediterraneo. Inizialmente inquilino principalmente di Villa Medici e del Teatro Olimpico, adesso coinvolge anche l’Auditorium di via della Conciliazione, il Parco della Musica, i Teatri Del Vascello, Eliseo e Palladio, le Officine Marconi, il Centro Sociale Brancaleone e lo spazio Angelo Mei. Copre, in effetti, tutta la Capitale.
L’edizione 2010 è stata inaugurata con “Orphée” di José Montalvo e Dominique Hervieu. In linea con gli obiettivi della manifestazione (35 spettacoli, alcuni con più repliche; per i dettagli si veda www.romaeuropa.net) di coniugare musica “colta” con tecnologia dell’informazione e della comunicazione e di privilegiare l’innovazione, mantenendo spazio al tradizionale, questo “Orphée” è una versione moderna dell’“opéra-ballet” francese del Sei-Settecento (Rameau, Lully) ancora viva quando Gluck portò la sua “rivoluzione”, preceduta peraltro dalle rappresentazioni parigine de “La serva padrona” di Pergolesi. Fedele al mito, il nuovo “Orphée” si dipana nella Parigi di oggi. La musica di Monteverdi, Gluck e Glass è plasmata con ritmi moderni su nastro magnetico. Due soprani, un tenore e un controtenore, nonché una folla di acrobatici ballerini ci portano dai Campi Elisi sulla Rive Gauche agli inferi (una Parigi grigia) e all’ira delle baccanti che uccidono Orfeo quando, persa Euridice, si dedica a culti solo maschili (con più di un pizzico di ambiguità sull’orientamento sessuale del poeta dopo il viaggio nell’aldilà). Lo spettacolo, la cui tournée internazionale tocca Reggio Emilia tra qualche settimana, funziona grazie ai bravi interpreti e ai due solisti di violoncello e tiorba.
Cosa suggerire per i prossimi appuntamenti? Per gli appassionati di musica elettronica “Sensoralia” e “Visual Concert”. Per coloro che preferiscono il “classico contemporaneo” i “Kafka Fragments” di Kurtag con la regia di Peter Sellars e la ormai veterana Dawn Upshaw. Per i più tradizionali, la rara esecuzione della sinfonia “Leningrado” di Shostakovic diretta dal giovane ma già mitico Kirill Petrenko, il russo che ha rilanciato la Komische Oper di Berlino. Un menu vasto in cui c’è molto da scegliere.
(Hans Sachs) 23 set 2010 10:45
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Roma, 23 set (Il Velino) - Festeggia la 25esima edizione il Roma Europa Festival che, cominciato il 21 settembre, proseguirà fino al 2 dicembre. La manifestazione nacque come una scommessa: portare nella Capitale il modo nuovo di fare musica e danza nel resto d’Europa, principalmente in Francia. L’iniziativa veniva da uno dei “padri nobili” della programmazione (Giovanni Pierracini) diventato successivamente un grande specialista di assicurazioni e di finanza, ma sempre appassionato di arte contemporanea (dal visivo alla musica, pure elettronica) e ancora attivissimo, a 92 anni. Lo affiancava una (allora) giovane organizzatrice musicale francese, Monique Vaude, adesso vicepresidente operativo di un evento sempre più complesso. Al finanziamento pubblico si aggiungeva quello privato perché il Festival portava a Roma spettacoli di musica, danza e teatro totale con grande enfasi sulle nuove tecnologie digitali dell’informazione e della comunicazione. Il riscontro fu immediato, specialmente presso il pubblico più giovane. Da essenzialmente italo-francese, la manifestazione è diventata sempre più internazionale, portando per la prima volta a Roma registi americani come Peter Sellars e autori e spettacoli dal resto d’Europa e dalla sponda inferiore del Mediterraneo. Inizialmente inquilino principalmente di Villa Medici e del Teatro Olimpico, adesso coinvolge anche l’Auditorium di via della Conciliazione, il Parco della Musica, i Teatri Del Vascello, Eliseo e Palladio, le Officine Marconi, il Centro Sociale Brancaleone e lo spazio Angelo Mei. Copre, in effetti, tutta la Capitale.
L’edizione 2010 è stata inaugurata con “Orphée” di José Montalvo e Dominique Hervieu. In linea con gli obiettivi della manifestazione (35 spettacoli, alcuni con più repliche; per i dettagli si veda www.romaeuropa.net) di coniugare musica “colta” con tecnologia dell’informazione e della comunicazione e di privilegiare l’innovazione, mantenendo spazio al tradizionale, questo “Orphée” è una versione moderna dell’“opéra-ballet” francese del Sei-Settecento (Rameau, Lully) ancora viva quando Gluck portò la sua “rivoluzione”, preceduta peraltro dalle rappresentazioni parigine de “La serva padrona” di Pergolesi. Fedele al mito, il nuovo “Orphée” si dipana nella Parigi di oggi. La musica di Monteverdi, Gluck e Glass è plasmata con ritmi moderni su nastro magnetico. Due soprani, un tenore e un controtenore, nonché una folla di acrobatici ballerini ci portano dai Campi Elisi sulla Rive Gauche agli inferi (una Parigi grigia) e all’ira delle baccanti che uccidono Orfeo quando, persa Euridice, si dedica a culti solo maschili (con più di un pizzico di ambiguità sull’orientamento sessuale del poeta dopo il viaggio nell’aldilà). Lo spettacolo, la cui tournée internazionale tocca Reggio Emilia tra qualche settimana, funziona grazie ai bravi interpreti e ai due solisti di violoncello e tiorba.
Cosa suggerire per i prossimi appuntamenti? Per gli appassionati di musica elettronica “Sensoralia” e “Visual Concert”. Per coloro che preferiscono il “classico contemporaneo” i “Kafka Fragments” di Kurtag con la regia di Peter Sellars e la ormai veterana Dawn Upshaw. Per i più tradizionali, la rara esecuzione della sinfonia “Leningrado” di Shostakovic diretta dal giovane ma già mitico Kirill Petrenko, il russo che ha rilanciato la Komische Oper di Berlino. Un menu vasto in cui c’è molto da scegliere.
(Hans Sachs) 23 set 2010 10:45
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mercoledì 22 settembre 2010
Profumo&Summers: dimissioni parallele Il Foglio 23 settembre
Profumo&Summers: dimissioni parallele
Lo stesso giorno in cui Alessandro Profumo ha lasciato la guida di Unicredit (i posteri e i topi di archivi, diranno se ha dato le dimissioni o se è stato dimissionato, con la pillola di una lauta transazione finanziaria), sull'altra sponda dell'Atlantico Lawrence Summers sbatteva la porta degli Executive Offices (il palazzone in stile torta di nozze a fianco della Casa Bianca) e tornava nel Massachussets, alla Università di Harvard.
Due vite molto differenti, quindi tutt'altro che parallele: da un lato, lo studente-lavoratore diventato il più importante banchiere italiano e dall'altro lo studioso, figlio di studiosi, con grandi incarichi pubblici sia internazionali (Banca mondiale) sia nazionali (Tesoro). Dimissioni, però, parallele di due personalità molto diverse. Ricordano una frase del "Giulio Cesare" Shakespeariano - quella in cui il leader viene messo sull'avviso di guardarsi da Cassio, "freddo e magro", e di aspirare all'amicizia dei "grassi, a volte burberi ma sempre buoni in fondo al cuore".
Hanno un tratto in comune: l'arroganza. "Larry" sprizza arroganza da tutti i pori, da tutti gli etti e tutti i (molteplici) chili. Ma sprizza pari intelligenza, senso dell'humour e grande attenzione per il suo interlocutore. E' di maniere brusche ma sincere. Quando ad Harvard arrivarono i primi personal computer, a chi diceva che la macchina serviva per l'aggiornamento continuo del curriculum vitae, replicava che invece l'uso appropriato era quello di aggiornare permanentemente una lettera di dimissioni irrevocabili da utilizzare alla bisogna. Quando lasciò la Banca mondiale non toccò un dollaro del "package" previsto dall'ordinamento del personale dell'istituto. E' probabile che dagli Executive Offices si sia portato, da solo o con l'aiuto di qualche assistente, una cassa di cartone con qualche libro.
Alessandro è snello, non magro. Arrogante quanto "Larry" lo fa avvertire subito al proprio interlocutore, guardando intensamente (e con senso di noia) il soffitto mentre quest'ultimo gli parla. Non ispira simpatia; e fa subito capire che di essere simpatico se ne impipa. Dà l'impressione di essere astuto più che dotato di una profonda intelligenza analitica. Ha minacciato più volte le dimissioni con la convinzione di essere indispensabile a Unicredit, all'Italia, all'Europa, all'universo mondo. Dimenticando la massima secondo cui di indispensabili sono pieni i cimiteri. Tutti. Non solo il Monumentale di Milano.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
di Giuseppe Pennisi
Lo stesso giorno in cui Alessandro Profumo ha lasciato la guida di Unicredit (i posteri e i topi di archivi, diranno se ha dato le dimissioni o se è stato dimissionato, con la pillola di una lauta transazione finanziaria), sull'altra sponda dell'Atlantico Lawrence Summers sbatteva la porta degli Executive Offices (il palazzone in stile torta di nozze a fianco della Casa Bianca) e tornava nel Massachussets, alla Università di Harvard.
Due vite molto differenti, quindi tutt'altro che parallele: da un lato, lo studente-lavoratore diventato il più importante banchiere italiano e dall'altro lo studioso, figlio di studiosi, con grandi incarichi pubblici sia internazionali (Banca mondiale) sia nazionali (Tesoro). Dimissioni, però, parallele di due personalità molto diverse. Ricordano una frase del "Giulio Cesare" Shakespeariano - quella in cui il leader viene messo sull'avviso di guardarsi da Cassio, "freddo e magro", e di aspirare all'amicizia dei "grassi, a volte burberi ma sempre buoni in fondo al cuore".
Hanno un tratto in comune: l'arroganza. "Larry" sprizza arroganza da tutti i pori, da tutti gli etti e tutti i (molteplici) chili. Ma sprizza pari intelligenza, senso dell'humour e grande attenzione per il suo interlocutore. E' di maniere brusche ma sincere. Quando ad Harvard arrivarono i primi personal computer, a chi diceva che la macchina serviva per l'aggiornamento continuo del curriculum vitae, replicava che invece l'uso appropriato era quello di aggiornare permanentemente una lettera di dimissioni irrevocabili da utilizzare alla bisogna. Quando lasciò la Banca mondiale non toccò un dollaro del "package" previsto dall'ordinamento del personale dell'istituto. E' probabile che dagli Executive Offices si sia portato, da solo o con l'aiuto di qualche assistente, una cassa di cartone con qualche libro.
Alessandro è snello, non magro. Arrogante quanto "Larry" lo fa avvertire subito al proprio interlocutore, guardando intensamente (e con senso di noia) il soffitto mentre quest'ultimo gli parla. Non ispira simpatia; e fa subito capire che di essere simpatico se ne impipa. Dà l'impressione di essere astuto più che dotato di una profonda intelligenza analitica. Ha minacciato più volte le dimissioni con la convinzione di essere indispensabile a Unicredit, all'Italia, all'Europa, all'universo mondo. Dimenticando la massima secondo cui di indispensabili sono pieni i cimiteri. Tutti. Non solo il Monumentale di Milano.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
di Giuseppe Pennisi
LA TOBIN TAX CHE NON PIACEVA AL SUO IDEATORE Avvenire 23 settembre
LA TOBIN TAX CHE NON PIACEVA AL SUO IDEATORE
Giuseppe Pennisi
Probabilmente James B. Tobin si sta rivoltando nella tomba dove giace dal marzo 2002 in quanto l’imposta (in italiano, parlare di “tassa” è tecnicamente errato) sui movimenti di capitale a breve, a cui è associato il suo nome, pare tornata di moda . Ha sedotto anche autorevoli uomini d Governo all’interno del più ristretto G7 ed è stato uno dei temi centrali dell’Eurogruppo e dell’Ecofin del 7 settembre in vista dell’assemblea annuale del Fondo monetario in calendario all’inizio di ottobre. In Europa, sono principalmente la Francia e la Germania che favoriscono l’introduzione dell’imposta Sia Bercy sia a Wilhelstrasse sono state elaborate varie proposte tecniche. E l’Italia ? Sembra in una posizione di non-belliggeranza : non vuole disturbare l’asse franco-tedesco (dove si vuole inserire a pieno titolo) senza grande convinzione (gli Stati Uniti e buona parte dell’Asia non celano la loro opposizione).
In più occasioni, James B. Tobin, consigliere economico di John F. Kennedy definì i limiti dell’imposta da lui delineata in un libro del 1972. Ad esempio, alla conferenza annuale sullo sviluppo economico tenuta a Washington nell’aprile 1998, nel bel mezzo cioè della “crisi asiatica”, Tobin, precisò che la proposta del 1972 aveva unicamente l’obiettivo di frenare movimenti di capitale a breve che avrebbero potuto causare fluttuazioni troppo forti del mercato dei cambi (pp.63-76 degli atti della conferenza). Precisò , poi, che , contrariamente alla vulgata (diventata ancora più forte), non si sarebbe trattato di un’imposta internazionale ma di una misura che avrebbero potuto prendere unilateralmente i singoli Paesi che si sentivano minacciati da flussi e deflussi di capitali a breve. Tornò sul tema un paio di volte su “The Financial Times”, affermando che “non ripudiava la sua proposta del 1972 ma l’interpretazione distorta che se ne era data”. La controindicazione è sia la difficoltà di distinguere tra movimenti a breve, medio e lungo termine ed il pericolo, quindi, di penalizzare potenziali investimenti diretti verso Paesi od aree (come il nostro Sud) in sviluppo.
Cosa fare? Meglio formulare controproposte che porsi in una situazione di “muro contro muro”. Soprattutto si vuole essere “non belligeranti” ed utilizzare a pieno la capacità italiana della mediazione. Si può controproporre, ad esempio, un’imposta sul trading valutario . L’ultimo rapporto della Banca dei Regolamenti Internazionali (Bri) rileva che nonostante la crisi finanziaria (oppure a ragione della crisi che ha scoraggiato impieghi tradizionali) il mercato delle transazioni valutare è triplicato rispetto al 2001 e sfiora, ogni giorno, i 4 mila miliardi di dollari- quasi il Pil annuale della Germania. Appena il 13 percento riguarda “operatori non finanziari” ed il 40 per cento si riferisce a transazioni tra banche di grandi dimensioni – principalmente le 20 maggiori al mondo. Un’imposta sulle transazioni valutarie eviterebbe la complessità di escogitare una formula giuridica per distinguere movimenti a breve dagli altri e non inciderebbe su investimenti diretti. Passarla sui consumatori fina sarebbe un percorso lungo perché riguarderebbe principalmente transazioni valutarie interbancarie. E si frenerebbero guadagni potenzialmente facili: a ragione dell’elevata volatilità, sui mercati valutari si possono ottenere rendimenti buoni se la tempistica è azzeccata (pure solo per un colpo di fortuna).
Giuseppe Pennisi
Probabilmente James B. Tobin si sta rivoltando nella tomba dove giace dal marzo 2002 in quanto l’imposta (in italiano, parlare di “tassa” è tecnicamente errato) sui movimenti di capitale a breve, a cui è associato il suo nome, pare tornata di moda . Ha sedotto anche autorevoli uomini d Governo all’interno del più ristretto G7 ed è stato uno dei temi centrali dell’Eurogruppo e dell’Ecofin del 7 settembre in vista dell’assemblea annuale del Fondo monetario in calendario all’inizio di ottobre. In Europa, sono principalmente la Francia e la Germania che favoriscono l’introduzione dell’imposta Sia Bercy sia a Wilhelstrasse sono state elaborate varie proposte tecniche. E l’Italia ? Sembra in una posizione di non-belliggeranza : non vuole disturbare l’asse franco-tedesco (dove si vuole inserire a pieno titolo) senza grande convinzione (gli Stati Uniti e buona parte dell’Asia non celano la loro opposizione).
In più occasioni, James B. Tobin, consigliere economico di John F. Kennedy definì i limiti dell’imposta da lui delineata in un libro del 1972. Ad esempio, alla conferenza annuale sullo sviluppo economico tenuta a Washington nell’aprile 1998, nel bel mezzo cioè della “crisi asiatica”, Tobin, precisò che la proposta del 1972 aveva unicamente l’obiettivo di frenare movimenti di capitale a breve che avrebbero potuto causare fluttuazioni troppo forti del mercato dei cambi (pp.63-76 degli atti della conferenza). Precisò , poi, che , contrariamente alla vulgata (diventata ancora più forte), non si sarebbe trattato di un’imposta internazionale ma di una misura che avrebbero potuto prendere unilateralmente i singoli Paesi che si sentivano minacciati da flussi e deflussi di capitali a breve. Tornò sul tema un paio di volte su “The Financial Times”, affermando che “non ripudiava la sua proposta del 1972 ma l’interpretazione distorta che se ne era data”. La controindicazione è sia la difficoltà di distinguere tra movimenti a breve, medio e lungo termine ed il pericolo, quindi, di penalizzare potenziali investimenti diretti verso Paesi od aree (come il nostro Sud) in sviluppo.
Cosa fare? Meglio formulare controproposte che porsi in una situazione di “muro contro muro”. Soprattutto si vuole essere “non belligeranti” ed utilizzare a pieno la capacità italiana della mediazione. Si può controproporre, ad esempio, un’imposta sul trading valutario . L’ultimo rapporto della Banca dei Regolamenti Internazionali (Bri) rileva che nonostante la crisi finanziaria (oppure a ragione della crisi che ha scoraggiato impieghi tradizionali) il mercato delle transazioni valutare è triplicato rispetto al 2001 e sfiora, ogni giorno, i 4 mila miliardi di dollari- quasi il Pil annuale della Germania. Appena il 13 percento riguarda “operatori non finanziari” ed il 40 per cento si riferisce a transazioni tra banche di grandi dimensioni – principalmente le 20 maggiori al mondo. Un’imposta sulle transazioni valutarie eviterebbe la complessità di escogitare una formula giuridica per distinguere movimenti a breve dagli altri e non inciderebbe su investimenti diretti. Passarla sui consumatori fina sarebbe un percorso lungo perché riguarderebbe principalmente transazioni valutarie interbancarie. E si frenerebbero guadagni potenzialmente facili: a ragione dell’elevata volatilità, sui mercati valutari si possono ottenere rendimenti buoni se la tempistica è azzeccata (pure solo per un colpo di fortuna).
LA SPINTA DELE ORE LAVORATE Avvenire 23 settembre
LA SPINTA DELE ORE LAVORATE
Giuseppe Pennisi
Da alcuni anni è in corso un dibattito sulle ore effettivamente lavorate in Europa e nel resto del mondo. La ha innescato un saggio dell’economista Edward Prescott pubblicato (ma si tratta di mera coincidenza) lo stesso anno (il 2004) in cui gli è stato conferito il Premio Nobel. Sulla base di un’elaborata analisi statistica, Prescott documentava che mediamente, un americano lavorava il 50 per cento di più ffettivamente lavorate in 12 mesi). Se – come hanno sempre ritenuto gli economisti “classici” – c’è un nesso tra lavoro e crescita, è questa una ragione per cui a partire dagli Anni Ottanta, l’Europa arranca e l’America galoppa. Non è sempre stato cosi: Alberto Alesina e Bruce Sacerdote hanno ricordato che non è sempre stato così: all’inizio degli Anni Settanta , le ore effettivamente lavorate degli occupati americani ed europei si equivalevano ma da allora è iniziato uno strisciante divario che ha portato alla situazione documentata da Prescott.
Prima che scoppiasse la crisi finanziaria e rallentasse l’economia, un contributo importante è venuto dall’Organizzazione internazione del lavoro (Ilo, International Labor Organization) i cui rapporti periodici sugli indicatori chiave del mercato del lavoro afferma che gli stakanovisti non sono gli americani (con le loro 1824 ore l’anno effettivamente lavorate, mediamente, da ciascun occupato) ma i coreani del sud (con 2380 ore – ossia 48 ore la settimana , tenendo conto di due settimane di vacanza ). In Europa, poi, gli sfaticati (per così dire) non sono gli spagnoli con le loro mediamente 1799 ore , più delle 1669 dei britannici , per non parlare delle 1450 ore circa dei francesi e degli italiani. Gli Stati Uniti galoppano non solo perché ciascuno di loro lavora più ore degli europei non perché la loro produttività oraria (output per ora lavorata) è maggiore di quella rilevata nel continente vecchio. La produttività oraria dei francesi è quasi pari a quella degli americani (quella degli italiani è il 70% di quella Usa). La determinante principale sono i congedi annuali per ferie, per malattia o altro e le festività ufficiali.
Il dibattito ha gradualmente interessato più i sociologici del lavoro che gli economisti. Nello scavare nel differenziale ci si è chiesto sempre di più se gli europei non dessero maggiore valore ad altri aspetti della qualità della vita (il tempo libero, la famiglia, le attività culturali) rispetto al lavoro.
Il tema, sopito negli anni della crisi finanziaria, torna ad essere d’attualità ora che dalla crisi si spera di uscire: nell’area dell’euro il tasso di disoccupazione è pari al 10% delle forze di lavoro, negli Usa al 9,6%. La differenza è impercettibile. Il Pil degli Stati Uniti, però, cresce circa al 3% l’anno, quello dell’area dell’euro all’1,5% (quello dell’Italia attorno all’1%). Dato che una maggiore crescita del Pil è universalmente ritenuta come ingrediente per ridurre il flagello della disoccupazione, non è utile tornare ad indagare sulle differenze di ore di lavoro tra i due lati dell’Atlantico?
Lo hanno fatto in un documento in corso di pubblicazione Linda Bell dell’Istituto Tedesco di Studi sul Lavoro e Richard Freeman dell’Università di Harvard tramite un’indagine empirica rigorosamente economica , ossia amministrando questionari ad un campione di lavoratori tedeschi ed americani. Le differenze in ore lavorate e impegno ( quindi, produttività) ed il loro cambiamento negli ultimi 30 anni non risalgono a determinanti sociologiche ma a come lo stato sociale (con i relativi ammortizzatori) si è esteso in Germania (e nel resto d’Europa) mentre è rimasto minimo negli Usa. Negli Stati Uniti, in breve, si lavorano più ore che in Europa perché si teme di finire sul lastrico se si resta senza lavoro. Altra determinante è il prestigio sociale che gli americani attribuiscono agli alti redditi da lavoro.
Se dunque, durante la fase acuta della crisi, il nostro sistema d’ammortizzatori sociali, in particolare la cassa integrazione, ha meglio protetto i lavoratori ed i loro redditi, durante la fase di ripresa il saper di potere contare su ammortizzatori generosi (almeno per i dipendenti) rischia di frenare la spinta e la produttività.
Giuseppe Pennisi
Da alcuni anni è in corso un dibattito sulle ore effettivamente lavorate in Europa e nel resto del mondo. La ha innescato un saggio dell’economista Edward Prescott pubblicato (ma si tratta di mera coincidenza) lo stesso anno (il 2004) in cui gli è stato conferito il Premio Nobel. Sulla base di un’elaborata analisi statistica, Prescott documentava che mediamente, un americano lavorava il 50 per cento di più ffettivamente lavorate in 12 mesi). Se – come hanno sempre ritenuto gli economisti “classici” – c’è un nesso tra lavoro e crescita, è questa una ragione per cui a partire dagli Anni Ottanta, l’Europa arranca e l’America galoppa. Non è sempre stato cosi: Alberto Alesina e Bruce Sacerdote hanno ricordato che non è sempre stato così: all’inizio degli Anni Settanta , le ore effettivamente lavorate degli occupati americani ed europei si equivalevano ma da allora è iniziato uno strisciante divario che ha portato alla situazione documentata da Prescott.
Prima che scoppiasse la crisi finanziaria e rallentasse l’economia, un contributo importante è venuto dall’Organizzazione internazione del lavoro (Ilo, International Labor Organization) i cui rapporti periodici sugli indicatori chiave del mercato del lavoro afferma che gli stakanovisti non sono gli americani (con le loro 1824 ore l’anno effettivamente lavorate, mediamente, da ciascun occupato) ma i coreani del sud (con 2380 ore – ossia 48 ore la settimana , tenendo conto di due settimane di vacanza ). In Europa, poi, gli sfaticati (per così dire) non sono gli spagnoli con le loro mediamente 1799 ore , più delle 1669 dei britannici , per non parlare delle 1450 ore circa dei francesi e degli italiani. Gli Stati Uniti galoppano non solo perché ciascuno di loro lavora più ore degli europei non perché la loro produttività oraria (output per ora lavorata) è maggiore di quella rilevata nel continente vecchio. La produttività oraria dei francesi è quasi pari a quella degli americani (quella degli italiani è il 70% di quella Usa). La determinante principale sono i congedi annuali per ferie, per malattia o altro e le festività ufficiali.
Il dibattito ha gradualmente interessato più i sociologici del lavoro che gli economisti. Nello scavare nel differenziale ci si è chiesto sempre di più se gli europei non dessero maggiore valore ad altri aspetti della qualità della vita (il tempo libero, la famiglia, le attività culturali) rispetto al lavoro.
Il tema, sopito negli anni della crisi finanziaria, torna ad essere d’attualità ora che dalla crisi si spera di uscire: nell’area dell’euro il tasso di disoccupazione è pari al 10% delle forze di lavoro, negli Usa al 9,6%. La differenza è impercettibile. Il Pil degli Stati Uniti, però, cresce circa al 3% l’anno, quello dell’area dell’euro all’1,5% (quello dell’Italia attorno all’1%). Dato che una maggiore crescita del Pil è universalmente ritenuta come ingrediente per ridurre il flagello della disoccupazione, non è utile tornare ad indagare sulle differenze di ore di lavoro tra i due lati dell’Atlantico?
Lo hanno fatto in un documento in corso di pubblicazione Linda Bell dell’Istituto Tedesco di Studi sul Lavoro e Richard Freeman dell’Università di Harvard tramite un’indagine empirica rigorosamente economica , ossia amministrando questionari ad un campione di lavoratori tedeschi ed americani. Le differenze in ore lavorate e impegno ( quindi, produttività) ed il loro cambiamento negli ultimi 30 anni non risalgono a determinanti sociologiche ma a come lo stato sociale (con i relativi ammortizzatori) si è esteso in Germania (e nel resto d’Europa) mentre è rimasto minimo negli Usa. Negli Stati Uniti, in breve, si lavorano più ore che in Europa perché si teme di finire sul lastrico se si resta senza lavoro. Altra determinante è il prestigio sociale che gli americani attribuiscono agli alti redditi da lavoro.
Se dunque, durante la fase acuta della crisi, il nostro sistema d’ammortizzatori sociali, in particolare la cassa integrazione, ha meglio protetto i lavoratori ed i loro redditi, durante la fase di ripresa il saper di potere contare su ammortizzatori generosi (almeno per i dipendenti) rischia di frenare la spinta e la produttività.
martedì 21 settembre 2010
PERCHE’ LA TOBIN TAX DI SARKOZY E’ SOLO UNA TROVTA MEDIATICA Il Foglio 22 settembre
PERCHE’ LA TOBIN TAX DI SARKOZY E’ SOLO UNA TROVTA MEDIATICA
Giuseppe Pennisi
Chi si avvantaggia dall’imposta “globale” sulle transazioni proposta con toni enfatici, dal podio dell’assemblea generale dell’ONU, da Nicolas Sarkozy (a cui si è prontamente accodato José Luis Zapatero)? I benefici, comunque di breve periodo, li ha esclusivamente chi la lancia e ne parla. Sono ricavi mediatici che possono, per alcune settimane, distrarre l’attenzione da nodi più seri del proponente e del resto del mondo ma che, entro un arco di tempo breve, si sfarinano e se ne vanno via col vento. Non solamente a ragione di numerosi aspetti pratico-operativi. Chi propone imposte “globali” dovrebbe chiarire chi avrebbe la potestà d’imposizione, d’esazione, di controllo dell’evasione (le Nazioni Uniti già scarsamente in grado di svolgere i compiti essenziali loro affidati dai trattati in vigore?) e chi avrebbe il compito di gestirne l’eventuale gettito (sempre l’Onu che non ha fama né di efficienza, né di efficacia, né di trasparenza?) nonché come giungerebbe ad un accordo tributario “globale” una comunità internazionale che non riesce da nove anni a parafare un accordo multilaterale minimale sul commercio (la Doha Development Agenda).
Non che tali aspetti pratico-operativi siano di poco conto ma ci sono ostacoli di natura rigorosamente economica che rendono il marchingegno poco credibile. I temi ed i problemi dei movimenti di capitale a breve termine sono nettamente distinti da quelli dell’aiuto allo sviluppo. Pur se in certi casi possono intersecarsi, occorre tenerli separati per non fare confusione. L’aiuto allo sviluppo richiede capitali a lungo termine (e non solo quelli), mentre i flussi a breve termine possono, a seconda del contesto, irrobustire od indebolire le politiche di sviluppo. In certe situazioni, un flusso rapido e copioso di capitali a breve può essere dannoso, se innescato con l’aspettativa di rendimenti elevati da rivalutazione del cambio della moneta del Paese verso cui affluisce. La rivalutazione comporta un freno all’export e un rallentamento dello sviluppo (per chi segue strategia di crescita trainata dalle esportazioni) In tali casi, un’imposta può essere utile ma ; per essere efficace, deve essere unilaterale , varata all’improvviso (per dare una sculacciata a chi spera in guadagni facili) e tolta quando non ce ne è più esigenza. Ben lo sanno Paesi come la Malesia e la Corea che alla metà degli Anni Novanta non seguirono i consigli in tal senso e si trovarono al centro di quella che venne chiamata “la crisi asiatica”.
Si può pensare ad un’alleanza tra Paesi ad alto reddito ma con difficoltà di bilancio (a ragione della crisi in atto dal 2007) per trovare, temporaneamente, un cespite nuovo per tenere alta la bandiera dell’aiuto allo sviluppo, specialmente del continente con problemi più gravi (l’Africa). In tal caso, potrebbe essere utile una misura concertata e temporanea per prelevare gettito dal trading valutario, triplicato dal 2001 ed oggi pari quotidianamente al Pil della Germania Federale. Richiederebbe un trattato tra un numero limitato di Paesi e sarebbe di esazione relativamente facile dato che il 40% di tale trading è tra le 20 maggiori banche al mondo. Gli aiuti verrebbero gestiti tramite le strutture statali preposte a questo fine. Ha una giustificazione poiché con il trading valutario si possono fare forti utili solo con una buona tempistica. Ma avrebbe il sapore di misura punitiva nei confronti delle grandi banche.
Chi ci perde dall’”imposta globale”? Un po’ tutta la comunità internazionale poiché ha l’effetto di un “red herring” , l’aringa rossa gettata per distrarre dai problemi veri dell’economia internazionale. I quali sono molteplici:sia grandi come il sistema monetario, i cambi, il negoziato commerciale sia spiccioli come le poltrone del Fondo monetario.
Giuseppe Pennisi
Chi si avvantaggia dall’imposta “globale” sulle transazioni proposta con toni enfatici, dal podio dell’assemblea generale dell’ONU, da Nicolas Sarkozy (a cui si è prontamente accodato José Luis Zapatero)? I benefici, comunque di breve periodo, li ha esclusivamente chi la lancia e ne parla. Sono ricavi mediatici che possono, per alcune settimane, distrarre l’attenzione da nodi più seri del proponente e del resto del mondo ma che, entro un arco di tempo breve, si sfarinano e se ne vanno via col vento. Non solamente a ragione di numerosi aspetti pratico-operativi. Chi propone imposte “globali” dovrebbe chiarire chi avrebbe la potestà d’imposizione, d’esazione, di controllo dell’evasione (le Nazioni Uniti già scarsamente in grado di svolgere i compiti essenziali loro affidati dai trattati in vigore?) e chi avrebbe il compito di gestirne l’eventuale gettito (sempre l’Onu che non ha fama né di efficienza, né di efficacia, né di trasparenza?) nonché come giungerebbe ad un accordo tributario “globale” una comunità internazionale che non riesce da nove anni a parafare un accordo multilaterale minimale sul commercio (la Doha Development Agenda).
Non che tali aspetti pratico-operativi siano di poco conto ma ci sono ostacoli di natura rigorosamente economica che rendono il marchingegno poco credibile. I temi ed i problemi dei movimenti di capitale a breve termine sono nettamente distinti da quelli dell’aiuto allo sviluppo. Pur se in certi casi possono intersecarsi, occorre tenerli separati per non fare confusione. L’aiuto allo sviluppo richiede capitali a lungo termine (e non solo quelli), mentre i flussi a breve termine possono, a seconda del contesto, irrobustire od indebolire le politiche di sviluppo. In certe situazioni, un flusso rapido e copioso di capitali a breve può essere dannoso, se innescato con l’aspettativa di rendimenti elevati da rivalutazione del cambio della moneta del Paese verso cui affluisce. La rivalutazione comporta un freno all’export e un rallentamento dello sviluppo (per chi segue strategia di crescita trainata dalle esportazioni) In tali casi, un’imposta può essere utile ma ; per essere efficace, deve essere unilaterale , varata all’improvviso (per dare una sculacciata a chi spera in guadagni facili) e tolta quando non ce ne è più esigenza. Ben lo sanno Paesi come la Malesia e la Corea che alla metà degli Anni Novanta non seguirono i consigli in tal senso e si trovarono al centro di quella che venne chiamata “la crisi asiatica”.
Si può pensare ad un’alleanza tra Paesi ad alto reddito ma con difficoltà di bilancio (a ragione della crisi in atto dal 2007) per trovare, temporaneamente, un cespite nuovo per tenere alta la bandiera dell’aiuto allo sviluppo, specialmente del continente con problemi più gravi (l’Africa). In tal caso, potrebbe essere utile una misura concertata e temporanea per prelevare gettito dal trading valutario, triplicato dal 2001 ed oggi pari quotidianamente al Pil della Germania Federale. Richiederebbe un trattato tra un numero limitato di Paesi e sarebbe di esazione relativamente facile dato che il 40% di tale trading è tra le 20 maggiori banche al mondo. Gli aiuti verrebbero gestiti tramite le strutture statali preposte a questo fine. Ha una giustificazione poiché con il trading valutario si possono fare forti utili solo con una buona tempistica. Ma avrebbe il sapore di misura punitiva nei confronti delle grandi banche.
Chi ci perde dall’”imposta globale”? Un po’ tutta la comunità internazionale poiché ha l’effetto di un “red herring” , l’aringa rossa gettata per distrarre dai problemi veri dell’economia internazionale. I quali sono molteplici:sia grandi come il sistema monetario, i cambi, il negoziato commerciale sia spiccioli come le poltrone del Fondo monetario.
lunedì 20 settembre 2010
Opera, a Palermo è il momento del “precario” di Siviglia Il Velino 20 settembre
CLT - Opera, a Palermo è il momento del “precario” di Siviglia
Roma, 20 set (Il Velino) - Una lettura giovane e nuova sotto tutti i punti di vista del “Barbiere di Siviglia”. La propone fino al 26 settembre a Palermo il Teatro Massimo con un allestimento destinato a girare in Italia e all’estero. Ricordiamo brevemente la trama della pièce di Beaumarchais. Bartolo, medico di una certa età, vuole impalmare la giovane, bella e ricca Rosina di cui è tutore, ossia, rifacendoci al clima dell’epoca, di cui è protettore-amante da qualche tempo. Il desiderio di portarla a nozze non è tanto di carpirne una cospicua eredità (non se ne parla mai) ma perché vede giovanotti di bella presenza, e pure con il portafoglio pieno, ronzare attorno alla ragazza con l’intenzione di portargliela via. In effetti, la fanciulla ha messo gli occhi su un attraente studente (si dichiara tale, ma è un contino donnaiolo di chiara fama). Con l’aiuto di un barbiere tuttofare Figaro, specialmente se c’è denaro in vista, il giovanotto assume varie vesti (oltre a quelli di studente, indossa i panni di militare e di prete insegnante di musica) per entrare nella barricatissima abitazione di Bartolo, corteggiare la ragazza ed essere lui a sposarla, per poi tentare di tradirla (come si vede nella seconda puntata della trilogia) con la cameriera ma essere dalle due donne beffato.
A fine Settecento, la pièce di Beaumarchais aveva una certa carica rivoluzionaria: il “Terzo stato” Figaro metteva ordine nei pasticci di clero, aristocrazia decadente e borghesia emergente. Messa in musica dall’anziano Giovanni Paisiello diventò un’elegante e delicata commedia sentimentale. Pochi anni più tardi, al giovane Gioacchino Rossini venne chiesto di musicarla nell’arco di una settimana. Nelle mani di Rossini, “teocon” davvero reazionario ma “bonvivant” e pieno di amanti già a 24 anni, diventò frizzante come il lambrusco e brillante come la cucina romagnola. Riconosciuta come una delle quattro maggiori commedie in musica dell’Ottocento, “Il Barbiere” continuò ad avere strepitoso successo anche quando imperversava il melodramma verdiano e quasi tutti i lavori rossiniani erano finiti nel dimenticatoio. E’ ancora oggi una delle opere più frequentemente rappresentate.
Nello spettacolo in scena al Massimo, Figaro è un “precario” che mette le sue doti al servizio dei potenti sia al tramonto (Don Bartolo, Don Basilio) sia emergenti (il giovane Conte d’Almaviva e, soprattutto, la pepata Rosina). Cerca, come tutti i “precari”, un posto fisso. E lo otterrà. Al servizio di Almaviva che, come sapremo dal proseguo della vicenda, tenterà di portare nel proprio letto la sua fidanzata, restandone, però, scornato di fronte all’universo mondo. Nell’allestimento palermitano, l’intreccio non viene portato ai giorni nostri, come si farebbe (disponendo di un cast giovane) in Germania. La vicenda è ambientata all’inizio dell’Ottocento, ma di un Ottocento come lo vedrebbe Mirò (scene di Angelo Cantù, costumi di Marja Hoffmann) e come lo metterebbe in scena Almodovàr (la regia è di Francesco Micheli). Siviglia ha colori sfavillanti e l’eros sprizza da ogni muro, da ogni parete e da ogni mobile; le scene sono in materiale leggero per facilitare le tournee. I costumi, in sgargiante shantung di seta, di Figaro (in rosso), di Almaviva (blu) e di Rosina (in giallo) contrastano con il nero di quelli di Don Bartolo e Don Basilio. Una volta liberata dai lacci del tutore, Rosina mostra gli artigli di una proto femminista che darà filo da torcere ad Almaviva. In breve, una lettura nuova che non tradisce lo spirito (e la lettera) del libretto e dello spartito, ma ne mostra i lati più moderni.
Data la gerontocrazia della regia lirica italiana, il trentottenne Francesco Micheli può essere considerato ancora giovane. Gli aspetti musicali sono affidati a cinque giovani: concerta con entusiasmo ed allegria il trentenne Michele Mariotti. Hanno solo qualche anno più di lui lo scatenato Figaro di Fabio Maria Capitanucci e l’atletico (anche vocalmente) Dmitry Korchak. Ventottenne la bella e brava Ketevan Kemoklidze che, di fatto, debutta in Italia dopo avere vinto il concorso Operalia. Loro coetaneo, ma truccato da anziano, Nicola Alaimo (Don Bartolo) mentre Don Basilio è il cinquantenne Simone Alaimo. Uno spettacolo piacevolissimo a cui si può fare solo un appunto: perché è stata seguita la tradizione di tagliare l’ultima impervia aria del tenore (“Cessa di più resistere” )? Korchak ha la stoffa per cantarla (anche se è piena di “Do” e di acuti). E’ vero che la ha reintrodotta Blake una decina di anni fa dopo circa due secoli in cui nessuno osava cantarla. Ma in un “Barbiere” di questa levatura ce la saremmo aspettata.
(Hans Sachs) 20 set 2010 11:21
Roma, 20 set (Il Velino) - Una lettura giovane e nuova sotto tutti i punti di vista del “Barbiere di Siviglia”. La propone fino al 26 settembre a Palermo il Teatro Massimo con un allestimento destinato a girare in Italia e all’estero. Ricordiamo brevemente la trama della pièce di Beaumarchais. Bartolo, medico di una certa età, vuole impalmare la giovane, bella e ricca Rosina di cui è tutore, ossia, rifacendoci al clima dell’epoca, di cui è protettore-amante da qualche tempo. Il desiderio di portarla a nozze non è tanto di carpirne una cospicua eredità (non se ne parla mai) ma perché vede giovanotti di bella presenza, e pure con il portafoglio pieno, ronzare attorno alla ragazza con l’intenzione di portargliela via. In effetti, la fanciulla ha messo gli occhi su un attraente studente (si dichiara tale, ma è un contino donnaiolo di chiara fama). Con l’aiuto di un barbiere tuttofare Figaro, specialmente se c’è denaro in vista, il giovanotto assume varie vesti (oltre a quelli di studente, indossa i panni di militare e di prete insegnante di musica) per entrare nella barricatissima abitazione di Bartolo, corteggiare la ragazza ed essere lui a sposarla, per poi tentare di tradirla (come si vede nella seconda puntata della trilogia) con la cameriera ma essere dalle due donne beffato.
A fine Settecento, la pièce di Beaumarchais aveva una certa carica rivoluzionaria: il “Terzo stato” Figaro metteva ordine nei pasticci di clero, aristocrazia decadente e borghesia emergente. Messa in musica dall’anziano Giovanni Paisiello diventò un’elegante e delicata commedia sentimentale. Pochi anni più tardi, al giovane Gioacchino Rossini venne chiesto di musicarla nell’arco di una settimana. Nelle mani di Rossini, “teocon” davvero reazionario ma “bonvivant” e pieno di amanti già a 24 anni, diventò frizzante come il lambrusco e brillante come la cucina romagnola. Riconosciuta come una delle quattro maggiori commedie in musica dell’Ottocento, “Il Barbiere” continuò ad avere strepitoso successo anche quando imperversava il melodramma verdiano e quasi tutti i lavori rossiniani erano finiti nel dimenticatoio. E’ ancora oggi una delle opere più frequentemente rappresentate.
Nello spettacolo in scena al Massimo, Figaro è un “precario” che mette le sue doti al servizio dei potenti sia al tramonto (Don Bartolo, Don Basilio) sia emergenti (il giovane Conte d’Almaviva e, soprattutto, la pepata Rosina). Cerca, come tutti i “precari”, un posto fisso. E lo otterrà. Al servizio di Almaviva che, come sapremo dal proseguo della vicenda, tenterà di portare nel proprio letto la sua fidanzata, restandone, però, scornato di fronte all’universo mondo. Nell’allestimento palermitano, l’intreccio non viene portato ai giorni nostri, come si farebbe (disponendo di un cast giovane) in Germania. La vicenda è ambientata all’inizio dell’Ottocento, ma di un Ottocento come lo vedrebbe Mirò (scene di Angelo Cantù, costumi di Marja Hoffmann) e come lo metterebbe in scena Almodovàr (la regia è di Francesco Micheli). Siviglia ha colori sfavillanti e l’eros sprizza da ogni muro, da ogni parete e da ogni mobile; le scene sono in materiale leggero per facilitare le tournee. I costumi, in sgargiante shantung di seta, di Figaro (in rosso), di Almaviva (blu) e di Rosina (in giallo) contrastano con il nero di quelli di Don Bartolo e Don Basilio. Una volta liberata dai lacci del tutore, Rosina mostra gli artigli di una proto femminista che darà filo da torcere ad Almaviva. In breve, una lettura nuova che non tradisce lo spirito (e la lettera) del libretto e dello spartito, ma ne mostra i lati più moderni.
Data la gerontocrazia della regia lirica italiana, il trentottenne Francesco Micheli può essere considerato ancora giovane. Gli aspetti musicali sono affidati a cinque giovani: concerta con entusiasmo ed allegria il trentenne Michele Mariotti. Hanno solo qualche anno più di lui lo scatenato Figaro di Fabio Maria Capitanucci e l’atletico (anche vocalmente) Dmitry Korchak. Ventottenne la bella e brava Ketevan Kemoklidze che, di fatto, debutta in Italia dopo avere vinto il concorso Operalia. Loro coetaneo, ma truccato da anziano, Nicola Alaimo (Don Bartolo) mentre Don Basilio è il cinquantenne Simone Alaimo. Uno spettacolo piacevolissimo a cui si può fare solo un appunto: perché è stata seguita la tradizione di tagliare l’ultima impervia aria del tenore (“Cessa di più resistere” )? Korchak ha la stoffa per cantarla (anche se è piena di “Do” e di acuti). E’ vero che la ha reintrodotta Blake una decina di anni fa dopo circa due secoli in cui nessuno osava cantarla. Ma in un “Barbiere” di questa levatura ce la saremmo aspettata.
(Hans Sachs) 20 set 2010 11:21
venerdì 17 settembre 2010
Un nuovo “Plaza”, ma dietro le quinte Il Velino 17 settembre
ECO - Un nuovo “Plaza”, ma dietro le quinte
Roma, 17 set (Il Velino) - Se tanti eventi di economia internazionale avvengono all’unisono, in varie parti del mondo, unicamente gli ingenui possono pensare che ciò è frutto del destino, in questo caso benevolo, non cinico e baro. Una “cabina di regia” c’è - lo conferma una fonte del Tesoro Usa che non desidera essere citata. L’obiettivo è quello di giungere ad un riassetto dei cambi (se non del sistema monetario internazionale) prima dell’inizio delle riunioni preparatorie (G7, G24, vari “caucus” ossia gruppi regionali di Africa, Asia, America Latina) dell’assemblea annuale del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale. Andiamo con ordine. In primo luogo, i mercati valutari asiatici sono in subbuglio. Il Giappone ha già speso oltre 25 miliardi di dollari per frenare quella che sembrava un’inarrestabile ascesa dello cambio yen rispetto al dollaro, anzi fargli fare una leggerissima (ma probabilmente fragile) marcia indietro. Un impiego di risorse tale che le autorità di Governo (la banca centrale nipponica ha un’autonomia molto limitata) hanno avuto difficoltà a dare spiegazioni in Parlamento arrampicandosi sugli specchi. In parallelo, il Segretario al Tesoro americano Tim Geithner ha mostrato muscoli e mascelle in un’audizione in Senato in cui ha definito deprezzato in modo significativo lo yuan cinese. In parallelo, la Commissione Europea ha presentato un programma per mettere ordine su una parte importante del mercato finanziario del Vecchio Continente: le parti più importanti riguardano regole più rigorose in materia di derivati e di operazioni allo scoperto – solo la punta di un iceberg molto più vasto mirato a dare denti alle agenzie di monitoraggio di alcuni settori del mercato finanziario la cui istituzione è stata deliberata il 7 settembre, in occasione dell’ultimo Ecofin. C’è un nesso forte tra queste tre misure , e le altre che si vedranno nelle prossime due settimane. Mentre sulle piazze asiatiche si cerca un riequilibrio tra cambi nominali, cambi effettivi (ed in una più lunga prospettiva parità di potere d’acquisto e squilibri dei conti con l’estero), in Europa l’obiettivo è quello di mettere ordine nel proprio settore bancario e nel mercato finanziario in senso più lato. Sarebbe banale pensare che si tratti soltanto di aggiustamenti tecnici e che non ci sia una cabina di regia. In effetti, i nodi di fondo sono un’economia reale in cui i trattori sono Stati Uniti ed Asia (tranne Giappone) ed i trainati sono la vecchia Europa ed il sonnolente Impero del Sol Levante. Il riassetto dei cambi e la riorganizzazione del mercato finanziario europeo vengono visti come ingrediente essenziale per un percorso più equilibrato (dell’attuale) per uscire dalla crisi. Quindi, si sta operando come se ci fosse stato un nuovo “accordo del Plaza” analogo a quello concluso il 22 settembre 1985 tra quelli che allora erano i Cinque Grandi in cui Germania e Giappone si impegnarono a ritoccare i cambi con il dollaro ed accelerare la crescita dell’economia reale. E’ in corso qualcosa di simile? La tempistica è chiara: giungere all’Assemblea Fmi con qualcosa almeno in atto dato che alla riunione si dovrà parlare della riorganizzazione del Fondo, dei diritti di voto di singoli Paesi e gruppi di Paesi e di poltrone - una materia che molti Paesi asiatici non sono disposti a toccare se non si delinea preventivamente un riassetto del sistema monetario ed un riordino degli squilibri. Oggi non c’è esigenza di un incontro furtivo di sabato ed in una stanza d’albergo. La telematica fa questo e altro. E’ interessante capire se anche l’Italia era ed è on line.
(Giuseppe Pennisi) 17 set 2010 17:06
Roma, 17 set (Il Velino) - Se tanti eventi di economia internazionale avvengono all’unisono, in varie parti del mondo, unicamente gli ingenui possono pensare che ciò è frutto del destino, in questo caso benevolo, non cinico e baro. Una “cabina di regia” c’è - lo conferma una fonte del Tesoro Usa che non desidera essere citata. L’obiettivo è quello di giungere ad un riassetto dei cambi (se non del sistema monetario internazionale) prima dell’inizio delle riunioni preparatorie (G7, G24, vari “caucus” ossia gruppi regionali di Africa, Asia, America Latina) dell’assemblea annuale del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale. Andiamo con ordine. In primo luogo, i mercati valutari asiatici sono in subbuglio. Il Giappone ha già speso oltre 25 miliardi di dollari per frenare quella che sembrava un’inarrestabile ascesa dello cambio yen rispetto al dollaro, anzi fargli fare una leggerissima (ma probabilmente fragile) marcia indietro. Un impiego di risorse tale che le autorità di Governo (la banca centrale nipponica ha un’autonomia molto limitata) hanno avuto difficoltà a dare spiegazioni in Parlamento arrampicandosi sugli specchi. In parallelo, il Segretario al Tesoro americano Tim Geithner ha mostrato muscoli e mascelle in un’audizione in Senato in cui ha definito deprezzato in modo significativo lo yuan cinese. In parallelo, la Commissione Europea ha presentato un programma per mettere ordine su una parte importante del mercato finanziario del Vecchio Continente: le parti più importanti riguardano regole più rigorose in materia di derivati e di operazioni allo scoperto – solo la punta di un iceberg molto più vasto mirato a dare denti alle agenzie di monitoraggio di alcuni settori del mercato finanziario la cui istituzione è stata deliberata il 7 settembre, in occasione dell’ultimo Ecofin. C’è un nesso forte tra queste tre misure , e le altre che si vedranno nelle prossime due settimane. Mentre sulle piazze asiatiche si cerca un riequilibrio tra cambi nominali, cambi effettivi (ed in una più lunga prospettiva parità di potere d’acquisto e squilibri dei conti con l’estero), in Europa l’obiettivo è quello di mettere ordine nel proprio settore bancario e nel mercato finanziario in senso più lato. Sarebbe banale pensare che si tratti soltanto di aggiustamenti tecnici e che non ci sia una cabina di regia. In effetti, i nodi di fondo sono un’economia reale in cui i trattori sono Stati Uniti ed Asia (tranne Giappone) ed i trainati sono la vecchia Europa ed il sonnolente Impero del Sol Levante. Il riassetto dei cambi e la riorganizzazione del mercato finanziario europeo vengono visti come ingrediente essenziale per un percorso più equilibrato (dell’attuale) per uscire dalla crisi. Quindi, si sta operando come se ci fosse stato un nuovo “accordo del Plaza” analogo a quello concluso il 22 settembre 1985 tra quelli che allora erano i Cinque Grandi in cui Germania e Giappone si impegnarono a ritoccare i cambi con il dollaro ed accelerare la crescita dell’economia reale. E’ in corso qualcosa di simile? La tempistica è chiara: giungere all’Assemblea Fmi con qualcosa almeno in atto dato che alla riunione si dovrà parlare della riorganizzazione del Fondo, dei diritti di voto di singoli Paesi e gruppi di Paesi e di poltrone - una materia che molti Paesi asiatici non sono disposti a toccare se non si delinea preventivamente un riassetto del sistema monetario ed un riordino degli squilibri. Oggi non c’è esigenza di un incontro furtivo di sabato ed in una stanza d’albergo. La telematica fa questo e altro. E’ interessante capire se anche l’Italia era ed è on line.
(Giuseppe Pennisi) 17 set 2010 17:06
Non abbiamo altre guance in Ffwebmagazine del 17 settembre
Un affronto europeo all'Italia. E uno del governo a chi scrive...
Non abbiamo
altre guance
di Giuseppe Pennisi Ci si accorgeva che il mio amico Tito Apodaca, romano del New Mexico poiché per decenni funzionario della Fao e bravo cattolico, era davvero arrabbiato quando diceva: «Non ho più altre guance», ossia «ho davvero perso la pazienza e invece di offrire l’altra guancia rispondo agli schiaffi sfoderando la Colt».
È su tutti i giornali, non solamente su quelli italiani, l’affronto fatto all’Italia con le nomine dei capi missione del neonato (e non meglio definito) servizio diplomatico europeo. È meno nota un’altra vicenda, piccola, in cui l’Italia sta facendo una magra figura: le direttive del Ministero dell’Economia e delle finanze e del ministro dell’Innovazione e della Funzione pubblica vengono sberleffate e la stessa Fondazione Farefuturo riceve un buffetto da chi pensa che in questo modo ci si ingrazi l’Alto e l’Inclito.
In breve, il Dipartimento per l’Attuazione del programma decide di organizzare la presentazione in Italia di un saggio sull’analisi costi benefici in assetti di governo a più livelli (ad esempio, una Federazione) di un funzionario della Commissione. Una palese iniziativa di promozione del testo e dell’autore – che , per delicatezza, si preferisce non menzionare. Non certo un’iniziativa di formazione, poiché un apposito decreto affida la competenza in materia alla Scuola superiore della pubblica amministrazione o alle Scuole di formazione dei singoli Ministeri. Non è neanche un’iniziativa di monitoraggio dell’attuazione del programma di governo, in quanto il testo (pure in questo caso è meglio non citare il titolo) è un lavoro in parte puramente compilativo e in parte matematico, privo di implicazioni operative. È l’aggiornamento di una tesi di dottorato di un paio di lustri fa.
In effetti, ricorda per certi aspetti il libro di Sorokin, il principe degli economisti staliniani, che acquistai nel 1969 al Cairo (allora Nasser regnava e governava, anzi imperava, sulla Repubblica Araba Unita attorniato da consiglieri sovietici) nella bella libreria di Kars El Ni di fronte alla gelateria italiana Gotti. Per altri ricorda la polemica tra il liberale Von Mises e il marxista Luckàs in cui il secondo mostrava che con la strumentazione matematica si sarebbe potuto simulare perfettamente il mercato e il primo dimostrò che si sarebbe tratto di un mercatino di cento persone che si scambiano dieci beni e servizi – ossia un caseggiato.
Inviati questi commenti all’autore, e notato come ricette quali quelle da lui proposte avrebbero avuto poco utilità per l’amministrazione italiana, è iniziato un vero e proprio balletto da parte dell’eurocrate. In una mattinata intera, il dissenziente avrebbe avuto non più di 15 minuti (rispetto ai 30-45 minuti degli altri). Proprio in quei giorni due quotidiani parlavano del “dissenziente” come collaboratore della Fondazione Farefuturo e di questo webmagazine. Fatto presente che non era possibile articolare commenti compiuti in così poco tempo e che in tal caso si sarebbe preferito non esser parte dell’operazione, si è stati depennati senza neanche uno scambio di vedute. Messaggi telefonici lasciati a Bruxelles non hanno avuto riscontro – segno di mancanza non solo di cortesia ma anche di minimo di correttezza.
È un episodio piccolo, piccolo. Sintomo eloquente del modo di vedere l’Italia e chi dissente.
17 settembre 2010
Non abbiamo
altre guance
di Giuseppe Pennisi Ci si accorgeva che il mio amico Tito Apodaca, romano del New Mexico poiché per decenni funzionario della Fao e bravo cattolico, era davvero arrabbiato quando diceva: «Non ho più altre guance», ossia «ho davvero perso la pazienza e invece di offrire l’altra guancia rispondo agli schiaffi sfoderando la Colt».
È su tutti i giornali, non solamente su quelli italiani, l’affronto fatto all’Italia con le nomine dei capi missione del neonato (e non meglio definito) servizio diplomatico europeo. È meno nota un’altra vicenda, piccola, in cui l’Italia sta facendo una magra figura: le direttive del Ministero dell’Economia e delle finanze e del ministro dell’Innovazione e della Funzione pubblica vengono sberleffate e la stessa Fondazione Farefuturo riceve un buffetto da chi pensa che in questo modo ci si ingrazi l’Alto e l’Inclito.
In breve, il Dipartimento per l’Attuazione del programma decide di organizzare la presentazione in Italia di un saggio sull’analisi costi benefici in assetti di governo a più livelli (ad esempio, una Federazione) di un funzionario della Commissione. Una palese iniziativa di promozione del testo e dell’autore – che , per delicatezza, si preferisce non menzionare. Non certo un’iniziativa di formazione, poiché un apposito decreto affida la competenza in materia alla Scuola superiore della pubblica amministrazione o alle Scuole di formazione dei singoli Ministeri. Non è neanche un’iniziativa di monitoraggio dell’attuazione del programma di governo, in quanto il testo (pure in questo caso è meglio non citare il titolo) è un lavoro in parte puramente compilativo e in parte matematico, privo di implicazioni operative. È l’aggiornamento di una tesi di dottorato di un paio di lustri fa.
In effetti, ricorda per certi aspetti il libro di Sorokin, il principe degli economisti staliniani, che acquistai nel 1969 al Cairo (allora Nasser regnava e governava, anzi imperava, sulla Repubblica Araba Unita attorniato da consiglieri sovietici) nella bella libreria di Kars El Ni di fronte alla gelateria italiana Gotti. Per altri ricorda la polemica tra il liberale Von Mises e il marxista Luckàs in cui il secondo mostrava che con la strumentazione matematica si sarebbe potuto simulare perfettamente il mercato e il primo dimostrò che si sarebbe tratto di un mercatino di cento persone che si scambiano dieci beni e servizi – ossia un caseggiato.
Inviati questi commenti all’autore, e notato come ricette quali quelle da lui proposte avrebbero avuto poco utilità per l’amministrazione italiana, è iniziato un vero e proprio balletto da parte dell’eurocrate. In una mattinata intera, il dissenziente avrebbe avuto non più di 15 minuti (rispetto ai 30-45 minuti degli altri). Proprio in quei giorni due quotidiani parlavano del “dissenziente” come collaboratore della Fondazione Farefuturo e di questo webmagazine. Fatto presente che non era possibile articolare commenti compiuti in così poco tempo e che in tal caso si sarebbe preferito non esser parte dell’operazione, si è stati depennati senza neanche uno scambio di vedute. Messaggi telefonici lasciati a Bruxelles non hanno avuto riscontro – segno di mancanza non solo di cortesia ma anche di minimo di correttezza.
È un episodio piccolo, piccolo. Sintomo eloquente del modo di vedere l’Italia e chi dissente.
17 settembre 2010
giovedì 16 settembre 2010
Quando le crisi fanno bene ai giovani artisti Il Velino 16 settembre
CLT - Quando le crisi fanno bene ai giovani artisti
Quando le crisi fanno bene ai giovani artisti
Perugia, 16 set (Il Velino) - Le crisi finanziarie ed economiche si accaniscono soprattutto sui giovani, spesso i primi a perdere il lavoro; secondo l’Istat un giovane su quattro oggi in Italia cerca un’occupazione senza trovarla. Ci sono, però, talvolta alcune categorie di giovani per le cui le crisi sono, nel senso etimologico della parola, opportunità- spesso opportunità positive. Ciò avviene in settori dove vige uno star system e una cupola blocca l’accesso alle nuove leve. Lo spettacolo dal vivo è in molto Paesi uno di questi campo.
Questo pensiero è venuto in mente al vostro chroniqueur a Corso Vannucci a Perugia vedendo un centinaio di ragazzi e ragazzi (per l’esattezza 110) sciamare, nelle prime ore del pomeriggio, verso una delle migliori gelaterie della città: era la Gustav Mahler Jungendorchester , che, creata nel 1986 da Claudio Abbado, aveva provato la mattina, guidata dal 28enne David Afkham, al Teatro Morlacchi due composizioni sinfoniche di non poca difficoltà: la sinfonia tratta dai tre preludi di Mathis der Mahler di Paul Hindemith e la Sinfonia n.9 in re minore di Anton Bruckner. Due lavori per grande organico, ma molto differenti. Il primo , concepito verso la metà degli Anni Trenta e vietato nella Germania hitleriana in quanto “musica degenerata” prodotta da “un fabbricante di rumore atonale”. Il secondo è l’addio alla vita (peraltro incompiuto) di uno dei compositori tardo romantici più profondamente religiosi. La Gustav Mahler Jungendorchester , un complesso di grande livello in quanto i giovani professionisti sono scelti al termine di una procedura di selezione molto rigoroso, era, a Perugia, al termine di una tournée estiva in varie capitale europee- tournée, a sua volta, almeno in parte causata dal fatto che una Jungendorchester chiede cachet e spese di trasporto ed alloggio di un insieme orchestrale di adulti; se non altro, i ragazzi sono pronti a dividere le stanze di albergo – una voce di costo non indifferente quando si tratta di alloggiare 110 musicisti. La Sagra Musicale Umbra 2010 ha un bilancio complessivo di 100.000 inferiore a quello 2009; quindi, deve mantenere la proverbiale alta qualità risparmiando all’osso.
La sera il concerto è stato entusiasmante. Il Teatro Morlacchi è tutto di legno – una struttura “all’italiana” con ordini di palchi per non più di 700 spettatori. I 110 giovani strumentisti affollavano un palcoscenico di modeste dimensioni ed utilizzato principalmente per la prosa. Nei loro smoking (per i ragazzi) ed abiti lunghi (per le ragazze) guidati da un giovane spilungone alle prese con il dramma del ruolo dell’intellettuale in politica nella prima parte e dell’incontro di un artista con Dio nella seconda, ce la mettevano davvero tutta con entusiasmo che sprizzava dai ricci di molti di loro. La sale del Morlacchi è diventata una cassa armonica per una musica, al tempo stesso, trascinante e raffinatissima. Al termine del concerto, dieci minuti di applausi mentre i ragazzi , per la gioia, si abbracciavano e chiamavano, battendo i piedi, il loro maestro concertatore. Una serata davvero memorabile.
Unica? Non è detto. Il Teatro Massimo di Palermo che, dopo una lunga crisi, presenta da cinque anni bilanci in attivo, ha reclutato per Il Barbiere di Siviglia due giovani il tenore russo Dmitry Korchak , già da qualche anno sulle scene italiane ed il mezzosoprano georgiano Ketevan Kemoklidze (al debutto), entrambi vincitori del concorso Operalia presieduto da Placido Domingo. E’ politica del teatro quella di valorizzare i giovani anche al fine di mostrare che la sinfonica e l’opera non sono attrezzi da museo.
(Hans Sachs) 16 set 2010 12:26
Quando le crisi fanno bene ai giovani artisti
Perugia, 16 set (Il Velino) - Le crisi finanziarie ed economiche si accaniscono soprattutto sui giovani, spesso i primi a perdere il lavoro; secondo l’Istat un giovane su quattro oggi in Italia cerca un’occupazione senza trovarla. Ci sono, però, talvolta alcune categorie di giovani per le cui le crisi sono, nel senso etimologico della parola, opportunità- spesso opportunità positive. Ciò avviene in settori dove vige uno star system e una cupola blocca l’accesso alle nuove leve. Lo spettacolo dal vivo è in molto Paesi uno di questi campo.
Questo pensiero è venuto in mente al vostro chroniqueur a Corso Vannucci a Perugia vedendo un centinaio di ragazzi e ragazzi (per l’esattezza 110) sciamare, nelle prime ore del pomeriggio, verso una delle migliori gelaterie della città: era la Gustav Mahler Jungendorchester , che, creata nel 1986 da Claudio Abbado, aveva provato la mattina, guidata dal 28enne David Afkham, al Teatro Morlacchi due composizioni sinfoniche di non poca difficoltà: la sinfonia tratta dai tre preludi di Mathis der Mahler di Paul Hindemith e la Sinfonia n.9 in re minore di Anton Bruckner. Due lavori per grande organico, ma molto differenti. Il primo , concepito verso la metà degli Anni Trenta e vietato nella Germania hitleriana in quanto “musica degenerata” prodotta da “un fabbricante di rumore atonale”. Il secondo è l’addio alla vita (peraltro incompiuto) di uno dei compositori tardo romantici più profondamente religiosi. La Gustav Mahler Jungendorchester , un complesso di grande livello in quanto i giovani professionisti sono scelti al termine di una procedura di selezione molto rigoroso, era, a Perugia, al termine di una tournée estiva in varie capitale europee- tournée, a sua volta, almeno in parte causata dal fatto che una Jungendorchester chiede cachet e spese di trasporto ed alloggio di un insieme orchestrale di adulti; se non altro, i ragazzi sono pronti a dividere le stanze di albergo – una voce di costo non indifferente quando si tratta di alloggiare 110 musicisti. La Sagra Musicale Umbra 2010 ha un bilancio complessivo di 100.000 inferiore a quello 2009; quindi, deve mantenere la proverbiale alta qualità risparmiando all’osso.
La sera il concerto è stato entusiasmante. Il Teatro Morlacchi è tutto di legno – una struttura “all’italiana” con ordini di palchi per non più di 700 spettatori. I 110 giovani strumentisti affollavano un palcoscenico di modeste dimensioni ed utilizzato principalmente per la prosa. Nei loro smoking (per i ragazzi) ed abiti lunghi (per le ragazze) guidati da un giovane spilungone alle prese con il dramma del ruolo dell’intellettuale in politica nella prima parte e dell’incontro di un artista con Dio nella seconda, ce la mettevano davvero tutta con entusiasmo che sprizzava dai ricci di molti di loro. La sale del Morlacchi è diventata una cassa armonica per una musica, al tempo stesso, trascinante e raffinatissima. Al termine del concerto, dieci minuti di applausi mentre i ragazzi , per la gioia, si abbracciavano e chiamavano, battendo i piedi, il loro maestro concertatore. Una serata davvero memorabile.
Unica? Non è detto. Il Teatro Massimo di Palermo che, dopo una lunga crisi, presenta da cinque anni bilanci in attivo, ha reclutato per Il Barbiere di Siviglia due giovani il tenore russo Dmitry Korchak , già da qualche anno sulle scene italiane ed il mezzosoprano georgiano Ketevan Kemoklidze (al debutto), entrambi vincitori del concorso Operalia presieduto da Placido Domingo. E’ politica del teatro quella di valorizzare i giovani anche al fine di mostrare che la sinfonica e l’opera non sono attrezzi da museo.
(Hans Sachs) 16 set 2010 12:26
mercoledì 15 settembre 2010
Musica, la Sagra Umbra offre la pace Il Velino 14 settembre
CLT -
Roma, 14 set (Il Velino) - Naturalmente non c’era stata un’organizzazione preventiva, ma nel giorno stesso in cui, nell’anniversario dell’11 settembre 2001, il presidente degli Stati Uniti Obama ha offerto la pace all’Islam, a Perugia, la 65sima Sagra Musicale Umbra è iniziata non con il consueto grande concerto al Teatro Morlacchi, ma con una doppia offerta di pace al mondo intero con l’auspicio che parta dalle religioni monoteiste del Mediterraneo e si estenda agli altri continenti. La Sagra ha preso avvio con un evento inconsueto: la celebrazione (ovviamente aperta a tutti) nella grandiosa cattedrale di San Lorenzo di una grande Messa Solenne cantata. Una Messa Solenne con tutte le regole del caso, presieduta dall’arcivescovo e con due sacerdoti concelebranti. L’aspetto innovativo è stata la parte musicale. Canti gregoriani che precedevano in gran misura il Concilio di Trento, scoperti nella Biblioteca Laurence Feininger presso il Castello del Buon Consiglio, una vera e propria miniera (in gran parte ancora in corso di esplorazione) poiché è una delle maggiori biblioteche di musica liturgica al mondo. In occasione di una recente mostra, il gruppo vocale “Laurence Feininger” ha curato i punti d’ascolto, da posizioni multimediali, offrendo ai visitatori la possibilità di ascoltare i canti della tradizione cristiana seguendoli direttamente dai libri esposti nelle sale. Nell’immensa cattedrale di San Lorenzo a Perugia, il gruppo vocale, guidato da Roberto Giannotti, era a sinistra dell’altare accanto all’enorme organo (alla tastiera Roberto Gini) ma l’acustica è tale che si sono avuti effetti stereofonici. La musica gregoriana (in particolare la “Missa in Nativitate Beatae Mariae Virginis” interpolata da un “Credo Regis” a due voci) ha avuto un obiettivo preciso: trasmettere il senso dell’unità del popolo cristiano prima della Riforma e della Controriforma, offrendo un bouquet di musica rara.
Alla Messa Solenne ha fatto seguito, sempre l’11 settembre, un evento davvero eccezionale, anzi straordinario nel senso etimologico della parola di “fuori dall’ordinario”. Nella chiesa di San Bevignate, edificata dai Templari ma sconsacrata da secoli, ridotta a magazzino e solo di recente restaurata ed utilizzata per spettacoli dal vivo ed altri eventi, il complesso di Jordi Savall (Hisperion XXI) ha offerto un concerto in quattro sezioni in cui, in ciascuna sezione, musica arabo-andalusa, musica berbera, musica sefardita e musica cristiana (si tratta di composizioni dal Medio Evo alle soglie del Rinascimento, quindi precedenti la Riforma) è stata eseguita con strumenti antichi oppure ricostruiti seguendo il più possibile le regole e le prassi dell’epoca. Savall e Hisperion hanno al loro attivo 54 cd e diversi libri musicologici. Va sottolineato come la gamma di strumenti suonati da un ensemble di quattro esecutori (oltre a Savall, lo spagnolo David Mayoral, il greco Dimitri Psonis e il marocchino Driss El Maloumi) abbia prodotto composizioni per molti aspetti analoghe basate su micro tonalità. Un procedimento molto moderno, non lontano da certi tratti della scuola dodecafonica viennese, che mostra a chi sa ascoltare l’unitarietà delle grandi religioni monoteiste del Mediterraneo con la musica, di recente ricordata da Papa Benedetto XVI come la più alta delle espressioni artistiche, quella che più avvicina l’uomo all’Alto.
Roma, 14 set (Il Velino) - Naturalmente non c’era stata un’organizzazione preventiva, ma nel giorno stesso in cui, nell’anniversario dell’11 settembre 2001, il presidente degli Stati Uniti Obama ha offerto la pace all’Islam, a Perugia, la 65sima Sagra Musicale Umbra è iniziata non con il consueto grande concerto al Teatro Morlacchi, ma con una doppia offerta di pace al mondo intero con l’auspicio che parta dalle religioni monoteiste del Mediterraneo e si estenda agli altri continenti. La Sagra ha preso avvio con un evento inconsueto: la celebrazione (ovviamente aperta a tutti) nella grandiosa cattedrale di San Lorenzo di una grande Messa Solenne cantata. Una Messa Solenne con tutte le regole del caso, presieduta dall’arcivescovo e con due sacerdoti concelebranti. L’aspetto innovativo è stata la parte musicale. Canti gregoriani che precedevano in gran misura il Concilio di Trento, scoperti nella Biblioteca Laurence Feininger presso il Castello del Buon Consiglio, una vera e propria miniera (in gran parte ancora in corso di esplorazione) poiché è una delle maggiori biblioteche di musica liturgica al mondo. In occasione di una recente mostra, il gruppo vocale “Laurence Feininger” ha curato i punti d’ascolto, da posizioni multimediali, offrendo ai visitatori la possibilità di ascoltare i canti della tradizione cristiana seguendoli direttamente dai libri esposti nelle sale. Nell’immensa cattedrale di San Lorenzo a Perugia, il gruppo vocale, guidato da Roberto Giannotti, era a sinistra dell’altare accanto all’enorme organo (alla tastiera Roberto Gini) ma l’acustica è tale che si sono avuti effetti stereofonici. La musica gregoriana (in particolare la “Missa in Nativitate Beatae Mariae Virginis” interpolata da un “Credo Regis” a due voci) ha avuto un obiettivo preciso: trasmettere il senso dell’unità del popolo cristiano prima della Riforma e della Controriforma, offrendo un bouquet di musica rara.
Alla Messa Solenne ha fatto seguito, sempre l’11 settembre, un evento davvero eccezionale, anzi straordinario nel senso etimologico della parola di “fuori dall’ordinario”. Nella chiesa di San Bevignate, edificata dai Templari ma sconsacrata da secoli, ridotta a magazzino e solo di recente restaurata ed utilizzata per spettacoli dal vivo ed altri eventi, il complesso di Jordi Savall (Hisperion XXI) ha offerto un concerto in quattro sezioni in cui, in ciascuna sezione, musica arabo-andalusa, musica berbera, musica sefardita e musica cristiana (si tratta di composizioni dal Medio Evo alle soglie del Rinascimento, quindi precedenti la Riforma) è stata eseguita con strumenti antichi oppure ricostruiti seguendo il più possibile le regole e le prassi dell’epoca. Savall e Hisperion hanno al loro attivo 54 cd e diversi libri musicologici. Va sottolineato come la gamma di strumenti suonati da un ensemble di quattro esecutori (oltre a Savall, lo spagnolo David Mayoral, il greco Dimitri Psonis e il marocchino Driss El Maloumi) abbia prodotto composizioni per molti aspetti analoghe basate su micro tonalità. Un procedimento molto moderno, non lontano da certi tratti della scuola dodecafonica viennese, che mostra a chi sa ascoltare l’unitarietà delle grandi religioni monoteiste del Mediterraneo con la musica, di recente ricordata da Papa Benedetto XVI come la più alta delle espressioni artistiche, quella che più avvicina l’uomo all’Alto.
lunedì 13 settembre 2010
LE PROSPETTIVE ALLA RIPRESA AUTUNNALE Investimenti Finanziari Settembre
LE PROSPETTIVE ALLA RIPRESA AUTUNNALE
Giuseppe Pennisi
All’inizio dell’estate- dal 25 al 27 giugno, le prospettive di crescita per l’economia mondiale sono state il tema centrale delle riunioni del G8 e del G20 tenute in Canada nei pressi di Toronto. Tiriamone un bilancio al fine di ricavarne prospettive per gli operatori.
Nel comunicato del G20 la parola “crescita” ed il verbo “crescere” appaiono almeno una mezza dozzina di volte, ma il solo impegno concreto preso dal G20 riguarda il dimezzamento dei disavanzi di bilancio entro il 2013. Sulle politiche di crescita si è avvitato il vertice..Alla vigilia, i 20 istituti econometrici internazionali, tutti privati, che costituiscono il “gruppo del consenus”, hanno diramato le proprie stime: crescita sostenuta negli Usa ( il 3,3% nel 2010 ed il 3% nel 2011) e in Paesi emergenti come India e Cina (rispettivamente 7,8% e 8% la prima e 9,9% e 8,2% la seconda), ma piatta nell’area dell’euro (1,1% e 1,3% nei due anni presi in considerazione).. Nel quadro di una decelerazione in Europa (a ragione delle manovre parallele di bilancio dei maggiori Paesi Ue), non è in incoraggiante la situazione dell’Italia: l’analisi econometrica preliminare dello stesso Ministero dell’Economia prevede una contrazione dell’occupazione (e, quindi, un aumento di coloro che cercano lavoro senza trovarlo) sino al 2014 e, quindi, una riduzione di salari medi e di consumi.
Due determinanti frenano l’Ue: la struttura demografica (e le implicazioni dell’invecchiamento sulla produttività) e gli statuti che limitano al 2% l’anno il tasso d’aumento dei prezzi al consumo ammissibili prima d’interventi diretti a restringere l’offerta monetaria . Inoltre un lavoro ancora inedito del Gruppo Bruegel (uno dei più stimati osservatori dell’economia europea) documenta che sino a quando l’economia e la finanza internazionale saranno dominati dal profondo rosso dei conti con l’estero Usa (420 miliardi di dollari negli ultimi 12 mesi) in gran parte saldati con acquisto di titoli americani da parte della Cina (un saldo attivo di 282 miliardi di dollari nello stesso arco di tempo), l’Europa appare condannata ad essere il vaso di coccio a crescita bassa. Lo è, però, ancora di più se si presenta (come ha fatto al G20 di Toronto) con posizioni solo formalmente unitarie, ma disunita (anzi, ai ferri corti tra Stati dell’Eurozona) su questioni cruciali (quali la riorganizzazione del Fondo monetario internazionale). Ciò vuole dire che i mercati saranno caratterizzati da una notevole volatilità in quanto Usa e Ue marceranno a ritmi differenti. In aggiunta, è in atto una vera e propria corsa all’acquisto di materie prime nell’aspettativa (che potrebbe essere delusa) di una nuova ripresa dell’economia mondiale (lo afferma anche un recente rapporto Ocse).
In che misura l’annuncio di una maggiore flessibilità del cambio dello yaun potrà contribuire alla crescita. Un libro pubblicato a fine 2009 da Mark Shiao dell’Università di Londra ("Financial Regulation of Derivatives, Trust and Securitisation in China" Carswell Thomson Rueter) mostra a tutto tondo come la politica del cambio è solo un tassello di un complesso sistema di regolazione del mercato finanziario interno. Non è necessariamente il principale anche perché il sistema di regolazione è in rapida evoluzione e di difficile comprensione ad europei ed americani. In breve, un cambio più flessibile, o pure anche una svalutazione, possono essere agevolmente neutralizzati ritoccando le regolazione interne. Lo sostengono, in un saggio in “The World Economy”, Ronald Mckinnon dell’Università di Stanford e Gunther Schanabl di quella di Lipsia. Unitamente ad un veterano delle analisi della contabilità economica nazionale di vari Paesi, Angus Maddison, i due economisti sottolineano che se in termini di parità di potere d’acquisto il Pil cinese è pari all’80% di quello Usa, nel contesto attuale, una rivalutazione dello yuan rispetto al dollaro non è forse nell’interesse né della comunità internazionale né della Cina. In altri termini, la ripresa mondiale richiede che l’Impero di Mezzo cresca all’8% l’anno; un probabile effetto di una rivalutazione significativa provocherebbe un rallento della crescita cinese e, con esso di quella mondiale. Gli scenari più pessimisti sono quelli tratteggiati negli Stati Uniti, dove Dipartimento di Stato e Pentagono sembrano avere divergente di punti di vista con il Tesoro e con la Federal Reserve proprio su questo punto: nel settore “moderno” della Cina, in breve, ci sarebbero ben 150 milioni di uomini e donne in cerca di lavoro, questo numero aumenterebbe in caso di decelerazione della crescita, innescando seri problemi interni d’ordine pubblico e fomentando guerre e guerriglie locali (di cui in Occidente si sa poco o nulla). I cinesi sono consapevoli di questi , ed altri, problemi ancora più di quanto lo siano i sinologhi Usa. Come leggere allora il comunicato della Banca centrale? Una mera intenzione di riprendere, con gradualità, la strategia di ritocchi al margine già attuata nel 2005-2008. Senza incidere né sugli squilibri mondiali né, ancor meno, sui problemi interni del Paese.
Giuseppe Pennisi
All’inizio dell’estate- dal 25 al 27 giugno, le prospettive di crescita per l’economia mondiale sono state il tema centrale delle riunioni del G8 e del G20 tenute in Canada nei pressi di Toronto. Tiriamone un bilancio al fine di ricavarne prospettive per gli operatori.
Nel comunicato del G20 la parola “crescita” ed il verbo “crescere” appaiono almeno una mezza dozzina di volte, ma il solo impegno concreto preso dal G20 riguarda il dimezzamento dei disavanzi di bilancio entro il 2013. Sulle politiche di crescita si è avvitato il vertice..Alla vigilia, i 20 istituti econometrici internazionali, tutti privati, che costituiscono il “gruppo del consenus”, hanno diramato le proprie stime: crescita sostenuta negli Usa ( il 3,3% nel 2010 ed il 3% nel 2011) e in Paesi emergenti come India e Cina (rispettivamente 7,8% e 8% la prima e 9,9% e 8,2% la seconda), ma piatta nell’area dell’euro (1,1% e 1,3% nei due anni presi in considerazione).. Nel quadro di una decelerazione in Europa (a ragione delle manovre parallele di bilancio dei maggiori Paesi Ue), non è in incoraggiante la situazione dell’Italia: l’analisi econometrica preliminare dello stesso Ministero dell’Economia prevede una contrazione dell’occupazione (e, quindi, un aumento di coloro che cercano lavoro senza trovarlo) sino al 2014 e, quindi, una riduzione di salari medi e di consumi.
Due determinanti frenano l’Ue: la struttura demografica (e le implicazioni dell’invecchiamento sulla produttività) e gli statuti che limitano al 2% l’anno il tasso d’aumento dei prezzi al consumo ammissibili prima d’interventi diretti a restringere l’offerta monetaria . Inoltre un lavoro ancora inedito del Gruppo Bruegel (uno dei più stimati osservatori dell’economia europea) documenta che sino a quando l’economia e la finanza internazionale saranno dominati dal profondo rosso dei conti con l’estero Usa (420 miliardi di dollari negli ultimi 12 mesi) in gran parte saldati con acquisto di titoli americani da parte della Cina (un saldo attivo di 282 miliardi di dollari nello stesso arco di tempo), l’Europa appare condannata ad essere il vaso di coccio a crescita bassa. Lo è, però, ancora di più se si presenta (come ha fatto al G20 di Toronto) con posizioni solo formalmente unitarie, ma disunita (anzi, ai ferri corti tra Stati dell’Eurozona) su questioni cruciali (quali la riorganizzazione del Fondo monetario internazionale). Ciò vuole dire che i mercati saranno caratterizzati da una notevole volatilità in quanto Usa e Ue marceranno a ritmi differenti. In aggiunta, è in atto una vera e propria corsa all’acquisto di materie prime nell’aspettativa (che potrebbe essere delusa) di una nuova ripresa dell’economia mondiale (lo afferma anche un recente rapporto Ocse).
In che misura l’annuncio di una maggiore flessibilità del cambio dello yaun potrà contribuire alla crescita. Un libro pubblicato a fine 2009 da Mark Shiao dell’Università di Londra ("Financial Regulation of Derivatives, Trust and Securitisation in China" Carswell Thomson Rueter) mostra a tutto tondo come la politica del cambio è solo un tassello di un complesso sistema di regolazione del mercato finanziario interno. Non è necessariamente il principale anche perché il sistema di regolazione è in rapida evoluzione e di difficile comprensione ad europei ed americani. In breve, un cambio più flessibile, o pure anche una svalutazione, possono essere agevolmente neutralizzati ritoccando le regolazione interne. Lo sostengono, in un saggio in “The World Economy”, Ronald Mckinnon dell’Università di Stanford e Gunther Schanabl di quella di Lipsia. Unitamente ad un veterano delle analisi della contabilità economica nazionale di vari Paesi, Angus Maddison, i due economisti sottolineano che se in termini di parità di potere d’acquisto il Pil cinese è pari all’80% di quello Usa, nel contesto attuale, una rivalutazione dello yuan rispetto al dollaro non è forse nell’interesse né della comunità internazionale né della Cina. In altri termini, la ripresa mondiale richiede che l’Impero di Mezzo cresca all’8% l’anno; un probabile effetto di una rivalutazione significativa provocherebbe un rallento della crescita cinese e, con esso di quella mondiale. Gli scenari più pessimisti sono quelli tratteggiati negli Stati Uniti, dove Dipartimento di Stato e Pentagono sembrano avere divergente di punti di vista con il Tesoro e con la Federal Reserve proprio su questo punto: nel settore “moderno” della Cina, in breve, ci sarebbero ben 150 milioni di uomini e donne in cerca di lavoro, questo numero aumenterebbe in caso di decelerazione della crescita, innescando seri problemi interni d’ordine pubblico e fomentando guerre e guerriglie locali (di cui in Occidente si sa poco o nulla). I cinesi sono consapevoli di questi , ed altri, problemi ancora più di quanto lo siano i sinologhi Usa. Come leggere allora il comunicato della Banca centrale? Una mera intenzione di riprendere, con gradualità, la strategia di ritocchi al margine già attuata nel 2005-2008. Senza incidere né sugli squilibri mondiali né, ancor meno, sui problemi interni del Paese.
L'Ue e il nuovo patto di stabilità Ffwebmagazine 13 settembre
E andare al voto sarebbe, anche per questo, una mossa sbagliata
L'Ue e il nuovo patto di stabilità:
l'Italia dovrà giocare le sue carte
di Giuseppe Pennisi Chi in questi giorni chiede elezioni dovrebbe guardare al delicato momento europeo e al ruolo dell’Italia. Non solo la ripresa è fragile e insidiata da un possibile aumento dei tassi d’interesse, proveniente da oltre-Atlantico, che è particolarmente pericoloso per Stati (come il nostro) con un forte debito pubblico in proporzione al Pil, ma è anche in fase di elaborazione un nuovo patto di stabilità. In effetti, più importante della creazione di tre agenzie europee per la vigilanza dei mercati finanziari, dei fondi pensione e delle assicurazioni, è in fase di messa a punto un nuovo “patto di stabilità” . Una bozza avanzata del documento verrà presentata a metà ottobre al Consiglio dei Capi di Stato e di Governo dell’Unione europea.
Le riunioni dell’Eurogruppo e dell’Ecofin del 6 e del 7 settembre hanno mostrato che non si tratta unicamente di un lavoro di manutenzione e aggiornamento del “patto” concluso quando entrò in circolazione l’euro, a sua volta modellato su alcuni articoli del Trattato di Maastricht. A 20 anni circa dalla formulazione dei cinque parametri (poi diventati due: indebitamento netto e stock di debito in rapporto al Pil), una revisione sulla base dell’esperienza sarebbe stata comunque necessaria. In effetti, ne venne effettuata una nel marzo 2005 tramite un “protocollo interpretativo” che ne rendeva l’applicazione più flessibile. Ora, dopo i timori di una crisi finanziaria tale da coinvolgere pesantemente i titoli di Stato di vari Stati dell’Eurogruppo (Grecia, Portogallo e Spagna, in primo luogo) non si tratta semplicemente di serrare i freni (tornando alla lettera e allo spirito di una dozzina di anni fa) ma di dare nuovi concetti e nuovi contenuti all’accordo di base dei soci del Club dell’euro.
Le nuova architettura è composta da due nuovi acronimi “Scp” (Stability and Convergence Program- Programma di Stabilità e di Convergenza) e “Nrp” (National Reform Program – Programma Nazionale di Riforme). Il secondo, ossia le riforme, indicherebbe gli strumenti per dare corpo al primo, la stabilità finanziaria e la convergenza economica. La novità procedurale sarebbe l’organizzazioni di sessioni di bilancio parallele negli Stati dell’euro.
È un’innovazione che ha una portata molto più limitata di quanto non si voglia fare apparire: già da anni i principali Stati del gruppo (Francia, Germania, Italia, Spagna) e molti dei minori hanno adottato esercizi di bilancio che più o meno coincidono con l’anno solare e, di conseguenza, la presentazione del bilancio preventivo avviene in autunno e la sessione di bilancio termina verso Natale. Il significato sarebbe maggiore se il nuovo “patto” prevedesse che tutti gli Stati dell’area dell’euro passassero al bilancio “di cassa” (come ha fatto l’Italia) e a classificazioni di bilancio analoghe. Sono traguardi non irrealistici, nell’arco – ad esempio – di cinque anni e tali da fornire le basi ad una politica di bilancio comune da poter giustapporre ad una politica della moneta anche essa comune.
Questi strumenti potrebbero comportare una batteria di indicatori quantitativi che non sostituirebbe gli attuali ma li arricchirebbe. Per quanto si deve auspicare che il nuovo “patto” non tratti solo di deficit annuale e stock di debito pubblico in rapporto al Pil e che vengano introdotti indicatori di economia reale, d’occupazione e di situazione sociale, occorre fare attenzione: l’Ue ha avuto la tendenza ad ampliare la gamma degli indicatori tanto da rendere le politiche ingestibili o, peggio ancora, di invitare implicitamente a truccare i numeri. Il destino dei “protocolli di Lisbona” che nel marzo 2000 avrebbero dovuto rendere l’Ue l’area più dinamica del mondo dovrebbe essere un monito a non strafare, ma anzi a tenersi il più “essenziali” possibile.
Un’Italia in campagna elettorale non potrebbe avere che un ruolo da comprimario, e non certo da protagonista, nel “grande negoziato” dei prossimi mesi. Con conseguenze negative per il futuro.
13 settembre 2010
L'Ue e il nuovo patto di stabilità:
l'Italia dovrà giocare le sue carte
di Giuseppe Pennisi Chi in questi giorni chiede elezioni dovrebbe guardare al delicato momento europeo e al ruolo dell’Italia. Non solo la ripresa è fragile e insidiata da un possibile aumento dei tassi d’interesse, proveniente da oltre-Atlantico, che è particolarmente pericoloso per Stati (come il nostro) con un forte debito pubblico in proporzione al Pil, ma è anche in fase di elaborazione un nuovo patto di stabilità. In effetti, più importante della creazione di tre agenzie europee per la vigilanza dei mercati finanziari, dei fondi pensione e delle assicurazioni, è in fase di messa a punto un nuovo “patto di stabilità” . Una bozza avanzata del documento verrà presentata a metà ottobre al Consiglio dei Capi di Stato e di Governo dell’Unione europea.
Le riunioni dell’Eurogruppo e dell’Ecofin del 6 e del 7 settembre hanno mostrato che non si tratta unicamente di un lavoro di manutenzione e aggiornamento del “patto” concluso quando entrò in circolazione l’euro, a sua volta modellato su alcuni articoli del Trattato di Maastricht. A 20 anni circa dalla formulazione dei cinque parametri (poi diventati due: indebitamento netto e stock di debito in rapporto al Pil), una revisione sulla base dell’esperienza sarebbe stata comunque necessaria. In effetti, ne venne effettuata una nel marzo 2005 tramite un “protocollo interpretativo” che ne rendeva l’applicazione più flessibile. Ora, dopo i timori di una crisi finanziaria tale da coinvolgere pesantemente i titoli di Stato di vari Stati dell’Eurogruppo (Grecia, Portogallo e Spagna, in primo luogo) non si tratta semplicemente di serrare i freni (tornando alla lettera e allo spirito di una dozzina di anni fa) ma di dare nuovi concetti e nuovi contenuti all’accordo di base dei soci del Club dell’euro.
Le nuova architettura è composta da due nuovi acronimi “Scp” (Stability and Convergence Program- Programma di Stabilità e di Convergenza) e “Nrp” (National Reform Program – Programma Nazionale di Riforme). Il secondo, ossia le riforme, indicherebbe gli strumenti per dare corpo al primo, la stabilità finanziaria e la convergenza economica. La novità procedurale sarebbe l’organizzazioni di sessioni di bilancio parallele negli Stati dell’euro.
È un’innovazione che ha una portata molto più limitata di quanto non si voglia fare apparire: già da anni i principali Stati del gruppo (Francia, Germania, Italia, Spagna) e molti dei minori hanno adottato esercizi di bilancio che più o meno coincidono con l’anno solare e, di conseguenza, la presentazione del bilancio preventivo avviene in autunno e la sessione di bilancio termina verso Natale. Il significato sarebbe maggiore se il nuovo “patto” prevedesse che tutti gli Stati dell’area dell’euro passassero al bilancio “di cassa” (come ha fatto l’Italia) e a classificazioni di bilancio analoghe. Sono traguardi non irrealistici, nell’arco – ad esempio – di cinque anni e tali da fornire le basi ad una politica di bilancio comune da poter giustapporre ad una politica della moneta anche essa comune.
Questi strumenti potrebbero comportare una batteria di indicatori quantitativi che non sostituirebbe gli attuali ma li arricchirebbe. Per quanto si deve auspicare che il nuovo “patto” non tratti solo di deficit annuale e stock di debito pubblico in rapporto al Pil e che vengano introdotti indicatori di economia reale, d’occupazione e di situazione sociale, occorre fare attenzione: l’Ue ha avuto la tendenza ad ampliare la gamma degli indicatori tanto da rendere le politiche ingestibili o, peggio ancora, di invitare implicitamente a truccare i numeri. Il destino dei “protocolli di Lisbona” che nel marzo 2000 avrebbero dovuto rendere l’Ue l’area più dinamica del mondo dovrebbe essere un monito a non strafare, ma anzi a tenersi il più “essenziali” possibile.
Un’Italia in campagna elettorale non potrebbe avere che un ruolo da comprimario, e non certo da protagonista, nel “grande negoziato” dei prossimi mesi. Con conseguenze negative per il futuro.
13 settembre 2010
domenica 12 settembre 2010
CHI TEME DI PERDERE I BENEFICI E CHI SCOMMETTE SULLA STABILITA’ Avvenire 12 settembre
CHI TEME DI PERDERE I BENEFICI E CHI SCOMMETTE SULLA STABILITA’
Giuseppe Pennisi
Chi ha paura di Basilea III, l’accordo il cui negoziato si sta completando questo fine settimana? In primo luogo, quelle grandi banche (principalmente americane, britanniche, francesi e tedesche) al centro di operazioni spericolatenegli ultimi vent’anni e di salvataggi , a spese dei contribuenti, negli ultimi tre. Perché il resto del sistema bancario è nervoso? Basilea III comporta un aumento del rapporto tra capitale degli istituti (definito in vari modi) ed operazioni ed ulteriori guarantigie in anni di vacche grasse (per fare fronte a quelli di vacche magre senza correre da Pantalone); di conseguenze, pure le banche ben gestite non avranno più gli elevati Roe (Return on Equity, rendimenti sui mezzi propri) degli anni della “grande moderazione” (incrementi continui dell’economia reale, bassa inflazione). Non c’è il rischio che a pagare il costo aggiuntivo saranno i consumatori- dai correntisti alle imprese? Molto dipende dalle normative nazionali che verranno varate per applicare l’accordo e di come le autorità di regolazione e vigilanza sulla concorrenza e sulla solidità bancaria faranno il loro lavoro. Ciò, a sua volta, è funzione di come i consumatori pungoleranno Parlamenti ed autorità indipendenti. Chi saranno i beneficiari di Basilea III? Se le norme ed i regolamenti derivanti dall’accordo (e, quel che più conta, la loro attuazione) saranno all’altezza delle aspettative, il sistema bancario mondiale sarà più stabile , con vantaggi per tutti (pure per gli stessi istituti oggi alle prese con timori e tremori). Come spiegare allora le tensioni di questi giorni? Da un lato, gli operatori economici tendono ad essere tendenzialmente “miopi”: si soffermano sui costi della transizione e li proiettano quasi all’infinito, senza tenere conto dei benefici “a regime”. Da un altro canto, per alcune categorie, quali le banche pubbliche dei Länder tedeschi, i costi saranno molto elevati in quanto abituate da sempre a bassa capitalizzazione. Da un altro ancora, pur se le norme applicative dell’accordo saranno in vigore tra diversi anni, è già iniziata la corsa agli aumenti di capitale. Ciò potrebbe, nel breve e medio periodo, essiccare risorse che sarebbero potute andare a nuovi investimenti.
Giuseppe Pennisi
Chi ha paura di Basilea III, l’accordo il cui negoziato si sta completando questo fine settimana? In primo luogo, quelle grandi banche (principalmente americane, britanniche, francesi e tedesche) al centro di operazioni spericolatenegli ultimi vent’anni e di salvataggi , a spese dei contribuenti, negli ultimi tre. Perché il resto del sistema bancario è nervoso? Basilea III comporta un aumento del rapporto tra capitale degli istituti (definito in vari modi) ed operazioni ed ulteriori guarantigie in anni di vacche grasse (per fare fronte a quelli di vacche magre senza correre da Pantalone); di conseguenze, pure le banche ben gestite non avranno più gli elevati Roe (Return on Equity, rendimenti sui mezzi propri) degli anni della “grande moderazione” (incrementi continui dell’economia reale, bassa inflazione). Non c’è il rischio che a pagare il costo aggiuntivo saranno i consumatori- dai correntisti alle imprese? Molto dipende dalle normative nazionali che verranno varate per applicare l’accordo e di come le autorità di regolazione e vigilanza sulla concorrenza e sulla solidità bancaria faranno il loro lavoro. Ciò, a sua volta, è funzione di come i consumatori pungoleranno Parlamenti ed autorità indipendenti. Chi saranno i beneficiari di Basilea III? Se le norme ed i regolamenti derivanti dall’accordo (e, quel che più conta, la loro attuazione) saranno all’altezza delle aspettative, il sistema bancario mondiale sarà più stabile , con vantaggi per tutti (pure per gli stessi istituti oggi alle prese con timori e tremori). Come spiegare allora le tensioni di questi giorni? Da un lato, gli operatori economici tendono ad essere tendenzialmente “miopi”: si soffermano sui costi della transizione e li proiettano quasi all’infinito, senza tenere conto dei benefici “a regime”. Da un altro canto, per alcune categorie, quali le banche pubbliche dei Länder tedeschi, i costi saranno molto elevati in quanto abituate da sempre a bassa capitalizzazione. Da un altro ancora, pur se le norme applicative dell’accordo saranno in vigore tra diversi anni, è già iniziata la corsa agli aumenti di capitale. Ciò potrebbe, nel breve e medio periodo, essiccare risorse che sarebbero potute andare a nuovi investimenti.
venerdì 10 settembre 2010
Un Beethoven mozartiano è la sfida romana al Mi.To Milano Finanza 11 settembre
Un Beethoven mozartiano è la sfida romana al Mi.To di Giuseppe Pennisi
Da quando, in settembre Milano e Torino sono trascinate dal MiTo, a Roma l'Accademia Nazionale di Santa Cecilia organizza quasi in parallelo un festival tematico a prezzi molto contenuti prima di dare avvio alla stagione vera e propria a metà ottobre. Dopo due festival dedicate al bel canto, è iniziata il 2 settembre un'integrale delle sinfonie di Beethoven che durerà sino al 24 settembre.
Il vero e proprio tour de force è stato affidato a un direttore ospite, Kurt Masur, che appartiene alla scuola direttoriale tedesca dei Furtwängler, Klemperer e Karajan. Anche per averne ascoltato esecuzioni a Berlino e a Lipsia, oltre che a Roma (dove è di tanto in tanto ospite), ci si sarebbe aspettato una conduzione fortemente drammatica, quasi impetuosa. Invece il passare degli anni non solo fa sì che Masur sembri toccato da eterna giovinezza, pur sprizzando patriarcale autorevolezza, ma ne ha anche addolcito lo stile. All'inizio del festival ha presentato un Beethoven raffinato e cameristico, quasi mozartiano: lo si è notato specialmente all'esecuzione della seconda sinfonia, colma di echi del Flauto Magico. La quarta e la quinta avranno verosimilmente toni intimistici e l'afflato epico de L'Eroica verrà smussato per dare corpo ad una cronaca degli eventi dell'epoca. Nella nona, nonostante l'Inno alla gioia Masur scaverà nella profonda insoddisfazione di Beethoven, che sembra chiedere a Dio perché non si accorga dell'infelicità che affligge da sempre l'umanità. (riproduzione riservata)
Da quando, in settembre Milano e Torino sono trascinate dal MiTo, a Roma l'Accademia Nazionale di Santa Cecilia organizza quasi in parallelo un festival tematico a prezzi molto contenuti prima di dare avvio alla stagione vera e propria a metà ottobre. Dopo due festival dedicate al bel canto, è iniziata il 2 settembre un'integrale delle sinfonie di Beethoven che durerà sino al 24 settembre.
Il vero e proprio tour de force è stato affidato a un direttore ospite, Kurt Masur, che appartiene alla scuola direttoriale tedesca dei Furtwängler, Klemperer e Karajan. Anche per averne ascoltato esecuzioni a Berlino e a Lipsia, oltre che a Roma (dove è di tanto in tanto ospite), ci si sarebbe aspettato una conduzione fortemente drammatica, quasi impetuosa. Invece il passare degli anni non solo fa sì che Masur sembri toccato da eterna giovinezza, pur sprizzando patriarcale autorevolezza, ma ne ha anche addolcito lo stile. All'inizio del festival ha presentato un Beethoven raffinato e cameristico, quasi mozartiano: lo si è notato specialmente all'esecuzione della seconda sinfonia, colma di echi del Flauto Magico. La quarta e la quinta avranno verosimilmente toni intimistici e l'afflato epico de L'Eroica verrà smussato per dare corpo ad una cronaca degli eventi dell'epoca. Nella nona, nonostante l'Inno alla gioia Masur scaverà nella profonda insoddisfazione di Beethoven, che sembra chiedere a Dio perché non si accorga dell'infelicità che affligge da sempre l'umanità. (riproduzione riservata)
La guerre de Troie n'aura pas lieu Il Velino 10 settembre
ECO - La guerre de Troie n'aura pas lieu
Roma, 10 set (Il Velino) - Chi ricorda ancora la magnifica commedia di Jean Giraudoux “La guerre de Troie n’aura pas lieu” ? Scritta per la regia e l’interpretazione di Louis Jouvet andò in scena nel novembre 1935, in Italia venne ripresa da Diego Fabbri negli anni Sessanta. La pièce narra come tutto fosse stato fatto per evitare la guerra di Troia; anche restituire Elena a Menelao prima che Paride mostrasse le proprie doti di uomo, ma il cinismo di alcuni politici e le manipolazione dei media fanno scoccare (per errore) la freccia fatale di un ubriaco proprio mentre si celebra la pace e scoppia il conflitto. La pièce era premonitrice di quella che sarebbe stata, pochi anni più tardi, la seconda guerra mondiale. Ci sono molte analogie con la situazione politica in Italia oggi: nessuno vuole elezioni ma il dardo può scappare all’improvviso e ci si può trovare in campagna elettorale. Su Il Velino i rischi sono stati illustrati in altre occasioni: quello più immediato riguarda i tassi d’interesse sul debito pubblico; quello più a medio e lungo termine concerne le riforme messe in cantiere, dal federalismo fiscale alla scuola. Elezioni oggi, o nel breve periodo, comportano gravi rischi di cui tutti sono consapevoli. Ma se, nonostante tutto, la freccia di un ubriaco le mettesse in moto? Cosa si dovrebbe fare in materia di politica economica? L’aspetto più delicato e più immediato riguarda i tassi e il servizio del debito pubblico. Ciò vuole dire tenere dritta la barra dei conti pubblici ed evitare finanziarie elettorali (come quella che un Governo “tecnico” fece nel 1996). Al tempo stesso, però, una campagna elettorale comporta inevitabilmente tensioni, quindi un aggravarsi delle tensioni sociali sino a poter diventare lacerazioni. Occorrerà, quindi, virtuosismo per tenere la barra dei conti ed evitare incendi sociali che potrebbero anche portare a risultati elettorali non in grado di garantire la governabilità. Ci vorrà maestria per trovare un equilibrio, necessariamente dinamico, tra questi due obiettivi all’apparenza contrapposti ma in sostanza complementari.
(Giuseppe Pennisi ) 10 set 2010 16:14
Roma, 10 set (Il Velino) - Chi ricorda ancora la magnifica commedia di Jean Giraudoux “La guerre de Troie n’aura pas lieu” ? Scritta per la regia e l’interpretazione di Louis Jouvet andò in scena nel novembre 1935, in Italia venne ripresa da Diego Fabbri negli anni Sessanta. La pièce narra come tutto fosse stato fatto per evitare la guerra di Troia; anche restituire Elena a Menelao prima che Paride mostrasse le proprie doti di uomo, ma il cinismo di alcuni politici e le manipolazione dei media fanno scoccare (per errore) la freccia fatale di un ubriaco proprio mentre si celebra la pace e scoppia il conflitto. La pièce era premonitrice di quella che sarebbe stata, pochi anni più tardi, la seconda guerra mondiale. Ci sono molte analogie con la situazione politica in Italia oggi: nessuno vuole elezioni ma il dardo può scappare all’improvviso e ci si può trovare in campagna elettorale. Su Il Velino i rischi sono stati illustrati in altre occasioni: quello più immediato riguarda i tassi d’interesse sul debito pubblico; quello più a medio e lungo termine concerne le riforme messe in cantiere, dal federalismo fiscale alla scuola. Elezioni oggi, o nel breve periodo, comportano gravi rischi di cui tutti sono consapevoli. Ma se, nonostante tutto, la freccia di un ubriaco le mettesse in moto? Cosa si dovrebbe fare in materia di politica economica? L’aspetto più delicato e più immediato riguarda i tassi e il servizio del debito pubblico. Ciò vuole dire tenere dritta la barra dei conti pubblici ed evitare finanziarie elettorali (come quella che un Governo “tecnico” fece nel 1996). Al tempo stesso, però, una campagna elettorale comporta inevitabilmente tensioni, quindi un aggravarsi delle tensioni sociali sino a poter diventare lacerazioni. Occorrerà, quindi, virtuosismo per tenere la barra dei conti ed evitare incendi sociali che potrebbero anche portare a risultati elettorali non in grado di garantire la governabilità. Ci vorrà maestria per trovare un equilibrio, necessariamente dinamico, tra questi due obiettivi all’apparenza contrapposti ma in sostanza complementari.
(Giuseppe Pennisi ) 10 set 2010 16:14
giovedì 9 settembre 2010
i “Pellegrinaggi dell’anima” alla Sagra Umbra Il Velino 9 settembre
CLT - Musica, Roma, 9 set (Il Velino) - La Sagra Musicale Umbra, uno tra i più antichi festival europei, in programma dall’11 al 19 settembre, giunge alla sua sessantacinquesima edizione e la dedica a tre grandi artisti sommi, nati rispettivamente trecento, duecentocinquanta e duecento anni or sono. Si tratta di Giovanni Battista Pergolesi, Luigi Cherubini e Robert Schumann, protagonisti di alcuni concerti ospitati, come da tradizione, nella città di Perugia, negli spazi offerti dalla benedettina Basilica di San Pietro e dallo storico Teatro Morlacchi e in alcuni fra i più suggestivi ed evocativi luoghi artistici dell’Umbria, fra i quali si segnalano il Museo di San Francesco di Montefalco, le chiese di Castel Rigone, San Gemini, Torgiano, Solomeo e il ritorno nello splendido Duomo di Orvieto. “Pellegrinaggi dell’anima da Pergolesi a Schumann” e il titolo scelto dal direttore artistico Alberto Batisti per l’edizione 2010 della storica rassegna. Grandi protagonisti della Sagra, andando a ritroso nel tempo, sono Schumann, apostolo del Romanticismo germanico, insieme all’ancora relativamente poco conosciuto Cherubini e la fulminante apparizione nella storia del genio di Pergolesi.
I “Pellegrinaggi dell’anima” prendono avvio dal tema di incontro di culture e di religioni che Jordi Savall presenta, nella serata di apertura, in quel luogo di fascino straordinario che è la chiesa di San Bevignate, con la sua purezza romanica fra memorie di templari e di crociati. Racchiuso in nove giorni di concerti distribuiti fra nove comuni, questo pellegrinaggio si apre e si chiude con due “Incompiute”: la “Nona Sinfonia” di Bruckner e la celeberrima “Sinfonia in si minore” di Schubert. Accanto a quest’ultima, nel concerto conclusivo della Sagra troviamo quella toccante elegia laica che è il “Requiem für Mignon” di Schumann, tratto dal “Wilhelm Meister” di Goethe. Nel celebrare i duecento anni dalla sua nascita, il festival offre l’opportunità rara di ascoltare tutti i canti che Schumann trasse dal grande romanzo di formazione goethiano, i Lieder dell’arpista e quelli appunto della piccola zingara Mignon, racchiusi insieme al “Requiem nell’opus 98”. Questo distillato del più puro spirito romantico vedrà protagonisti, oltre a Frieder Bernius e al suo illustre coro di Stoccarda, l’inedito e prestigioso trio di Monica Bacelli, Filippo Bettoschi e Pietro De Maria.
Oltre a Schumann, la Sagra Musicale del 2010 non poteva trascurare di rendere omaggio a due sommi protagonisti della musica sacra italiana, nati a cinquant’anni di distanza l’uno dall’altro, Giovanni Battista Pergolesi e Luigi Cherubini. Il contributo dato dal festival umbro nelle sue gloriose edizioni passate alla riscoperta del musicista fiorentino è stato determinante per riscrivere importanti pagine di storia della musica, grazie alla cultura e alle intuizioni di Francesco Siciliani. Nel duecentocinquantesimo anniversario dalla nascita di Cherubini, la Sagra presenta una ricca antologia di opere significative, a cominciare dal “Requiem in do minore”, composto nel 1816 per i funerali riparatori di Luigi XVI. Di questo “Palestrina del XIX secolo”, come ebbe a definirlo Adolphe Adam, sarà anche eseguito il grandioso “Credo a dieci voci”, capolavoro della sapienza contrappuntistica cherubiniana. In materia di riscoperte cherubiniane, il concerto di Maria Grazia Schiavo e degli Auser Musici al Teatro Cucinelli di Solomeo, offre le primizie di arie e ouvertures della gioventù e della prima maturità del compositore, un ritratto di Cherubini ventenne fra l’Italia, Londra e i suoi debutti parigini per il Théatre de Monsieur. E ancora, nel concerto del Quartetto Elisa, uno dei più bei quartetti di Cherubini sarà messo a confronto col predecessore Boccherini e con l’unico esempio di musica da camera lasciato con acribìa dimostrativa da Giuseppe Verdi.
Infine Pergolesi. Di questo genio che in soli ventisei anni di vita riuscì a cambiare le sorti delle vicende musicali europee, la Sagra presenta una ricostruzione dei “Vespri della Beata Vergine” realizzata dal musicologo Malcolm Bruno e affidata agli specialisti della Kölner Akademie diretti da Michael Alexander Willens. È una affascinante ipotesi che contiene tutti i grandi salmi composti da Pergolesi, insieme al toccante “Salve Regina” e ad altre antifone di raro ascolto. L’omaggio a Pergolesi non poteva inoltre ignorare il capolavoro sommo, quello “Stabat Mater” che incarna eternamente il sentimento della pietà cristiana e che la Sagra presenta, non a caso, nella Chiesa dell’Ospedale, dedicandolo a coloro che soffrono”. La Sagra 2010 si presenta, dunque, anche quest’anno ricca di suggestioni musicali e culturali, preziosa nella composizione dei suoi programmi, tutta da vivere e da godere, proprio per quella sua fisionomia che la distingue da ogni altro festival musicale italiano: è davvero un itinerario musicale nei luoghi della spiritualità umbra, fra bellezze paesaggistiche, monumentali e artistiche che hanno pochi termini di paragone e che preparano a un interiore “pellegrinaggio dell’anima”. Per questo, ogni concerto sarà quest’anno preceduto da un breve intervento sulla storia e le curiosità del patrimonio artistico conservato nel luogo che ospita la serata, un nuovo ciclo di approfondimento chiamato “Per suoni & Per immagini” e curato da Anna Belardinelli.
Una ulteriore novità, nel panorama dei comuni e paesi che partecipano a questi “Pellegrinaggi”, è il ritorno della Sagra a Orvieto, nella splendida cattedrale, il 19 settembre, con un programma di polifonia sacra. Inoltre, viene confermata la presenza della Sagra all’Ospedale di Perugia (17 settembre) cui si aggiunge il Complesso Penitenziale Capanne (15 settembre) per una sezione del festival chiamata “Musica della speranza”. La Sagra 2010 non si inaugura con un concerto, ma con la solenne concelebrazione eucaristica nella Cattedrale di San Lorenzo di Perugia presieduta dall’arcivescovo, in programma sabato 11 alle 18. Come da tradizione, la liturgia sarà accompagnata dal canto di inni e antifone in puro stile gregoriano, affidati al coro vincitore del concorso polifonico “Guido D’Arezzo”, il gruppo vocale “Laurence Feininger”, nato nell’anno giubilare 2000 per valorizzare e far conoscere al pubblico l’immenso e trascurato repertorio sacro conservato nella celebre biblioteca musicale Laurence Feininger, presso il Castello del Buonconsiglio di Trento, una delle maggiori biblioteche di musica liturgica esistenti al mondo. Sarà diretto da Roberto Gianotti, all’organo della cattedrale Stefano Rattini. La presenza di questi artisti avviene grazie alla collaborazione con la Fondazione Guido d’Arezzo che felicemente si rinnova anche per l’edizione 2010 della Sagra.
(Hans Sachs) 9 set 2010 15:29
I “Pellegrinaggi dell’anima” prendono avvio dal tema di incontro di culture e di religioni che Jordi Savall presenta, nella serata di apertura, in quel luogo di fascino straordinario che è la chiesa di San Bevignate, con la sua purezza romanica fra memorie di templari e di crociati. Racchiuso in nove giorni di concerti distribuiti fra nove comuni, questo pellegrinaggio si apre e si chiude con due “Incompiute”: la “Nona Sinfonia” di Bruckner e la celeberrima “Sinfonia in si minore” di Schubert. Accanto a quest’ultima, nel concerto conclusivo della Sagra troviamo quella toccante elegia laica che è il “Requiem für Mignon” di Schumann, tratto dal “Wilhelm Meister” di Goethe. Nel celebrare i duecento anni dalla sua nascita, il festival offre l’opportunità rara di ascoltare tutti i canti che Schumann trasse dal grande romanzo di formazione goethiano, i Lieder dell’arpista e quelli appunto della piccola zingara Mignon, racchiusi insieme al “Requiem nell’opus 98”. Questo distillato del più puro spirito romantico vedrà protagonisti, oltre a Frieder Bernius e al suo illustre coro di Stoccarda, l’inedito e prestigioso trio di Monica Bacelli, Filippo Bettoschi e Pietro De Maria.
Oltre a Schumann, la Sagra Musicale del 2010 non poteva trascurare di rendere omaggio a due sommi protagonisti della musica sacra italiana, nati a cinquant’anni di distanza l’uno dall’altro, Giovanni Battista Pergolesi e Luigi Cherubini. Il contributo dato dal festival umbro nelle sue gloriose edizioni passate alla riscoperta del musicista fiorentino è stato determinante per riscrivere importanti pagine di storia della musica, grazie alla cultura e alle intuizioni di Francesco Siciliani. Nel duecentocinquantesimo anniversario dalla nascita di Cherubini, la Sagra presenta una ricca antologia di opere significative, a cominciare dal “Requiem in do minore”, composto nel 1816 per i funerali riparatori di Luigi XVI. Di questo “Palestrina del XIX secolo”, come ebbe a definirlo Adolphe Adam, sarà anche eseguito il grandioso “Credo a dieci voci”, capolavoro della sapienza contrappuntistica cherubiniana. In materia di riscoperte cherubiniane, il concerto di Maria Grazia Schiavo e degli Auser Musici al Teatro Cucinelli di Solomeo, offre le primizie di arie e ouvertures della gioventù e della prima maturità del compositore, un ritratto di Cherubini ventenne fra l’Italia, Londra e i suoi debutti parigini per il Théatre de Monsieur. E ancora, nel concerto del Quartetto Elisa, uno dei più bei quartetti di Cherubini sarà messo a confronto col predecessore Boccherini e con l’unico esempio di musica da camera lasciato con acribìa dimostrativa da Giuseppe Verdi.
Infine Pergolesi. Di questo genio che in soli ventisei anni di vita riuscì a cambiare le sorti delle vicende musicali europee, la Sagra presenta una ricostruzione dei “Vespri della Beata Vergine” realizzata dal musicologo Malcolm Bruno e affidata agli specialisti della Kölner Akademie diretti da Michael Alexander Willens. È una affascinante ipotesi che contiene tutti i grandi salmi composti da Pergolesi, insieme al toccante “Salve Regina” e ad altre antifone di raro ascolto. L’omaggio a Pergolesi non poteva inoltre ignorare il capolavoro sommo, quello “Stabat Mater” che incarna eternamente il sentimento della pietà cristiana e che la Sagra presenta, non a caso, nella Chiesa dell’Ospedale, dedicandolo a coloro che soffrono”. La Sagra 2010 si presenta, dunque, anche quest’anno ricca di suggestioni musicali e culturali, preziosa nella composizione dei suoi programmi, tutta da vivere e da godere, proprio per quella sua fisionomia che la distingue da ogni altro festival musicale italiano: è davvero un itinerario musicale nei luoghi della spiritualità umbra, fra bellezze paesaggistiche, monumentali e artistiche che hanno pochi termini di paragone e che preparano a un interiore “pellegrinaggio dell’anima”. Per questo, ogni concerto sarà quest’anno preceduto da un breve intervento sulla storia e le curiosità del patrimonio artistico conservato nel luogo che ospita la serata, un nuovo ciclo di approfondimento chiamato “Per suoni & Per immagini” e curato da Anna Belardinelli.
Una ulteriore novità, nel panorama dei comuni e paesi che partecipano a questi “Pellegrinaggi”, è il ritorno della Sagra a Orvieto, nella splendida cattedrale, il 19 settembre, con un programma di polifonia sacra. Inoltre, viene confermata la presenza della Sagra all’Ospedale di Perugia (17 settembre) cui si aggiunge il Complesso Penitenziale Capanne (15 settembre) per una sezione del festival chiamata “Musica della speranza”. La Sagra 2010 non si inaugura con un concerto, ma con la solenne concelebrazione eucaristica nella Cattedrale di San Lorenzo di Perugia presieduta dall’arcivescovo, in programma sabato 11 alle 18. Come da tradizione, la liturgia sarà accompagnata dal canto di inni e antifone in puro stile gregoriano, affidati al coro vincitore del concorso polifonico “Guido D’Arezzo”, il gruppo vocale “Laurence Feininger”, nato nell’anno giubilare 2000 per valorizzare e far conoscere al pubblico l’immenso e trascurato repertorio sacro conservato nella celebre biblioteca musicale Laurence Feininger, presso il Castello del Buonconsiglio di Trento, una delle maggiori biblioteche di musica liturgica esistenti al mondo. Sarà diretto da Roberto Gianotti, all’organo della cattedrale Stefano Rattini. La presenza di questi artisti avviene grazie alla collaborazione con la Fondazione Guido d’Arezzo che felicemente si rinnova anche per l’edizione 2010 della Sagra.
(Hans Sachs) 9 set 2010 15:29
mercoledì 8 settembre 2010
RIGOLETTO FINANZIARIO Il Foglio del 9 settembre
RIGOLETTO FINANZIARIO
Giuseppe Pennisi
Alla vigilia della diretta del “Rigoletto” mondovisivo (un miliardo e mezzo di spettatori) “nei luoghi ed alle ore” della vicenda, nuove polemiche sullo stato di quella forma di spettacolo che, in Italia, contribuì all’Ottocento (e quindi al movimento d’unità nazionale) tanto quanto, in molti altri Paesi, fece il genere letterario del romanzo. Zubin Mehta, concertatore del “Rigoletto” mondovisivo, ha accusato il Governo di affossare la cultura. Il Ministro Bondi ha replicato che l’Esecutivo sta tentando di porre riparoe a decenni di mala gestione.
In effetti, c’è il pericolo che nel 150nario dell’Unità d’Italia, molti teatri chiudano i battenti. Il “Carlo Felice” di Genova, dopo un lungo commissariamento, ha funzionato per alcuni mesi, ma personale e masse artistiche sono in cassa integrazione sino a fine 2010; del “dopo” nessuno sa nulla. Il San Carlo di Napoli è commissariato da circa tre anni grazie ad una norma speciale (il commissariamento dura , di solito, sei mesi). Pare che il Teatro dell’Opera di Roma, appena uscito dal commissariamento e che dovrebbe avere un ruolo centrale nelle celebrazioni per il 150nario, sia alle prese con un nuovo disavanzo. I “teatri del Maggio Musicale” fiorentino hanno annunciato un programma di “riprese” (nessun nuovo allestimento) sino a dicembre: il nuovo Sovrintendente,una giovane ingegnere chiamata dal MiTo, vuole vederci chiaro prima di prendere impegni per il 2011. Gran parte dei cartelloni presentati per la stagione 2010-2011 sono al risparmio: rare le nuove produzioni, si punta sul tradizionale (il cui pubblico ha spesso l’età per riflettere più sui teatri dell’altro mondo che su quelli di questo), pochissimi (La Scala, Palermo) propongono “prime mondiali”. Il cane si morde la coda: il pubblico scarseggia perché non solo la musica non è di casa né nelle scuole né nelle famiglie, ma si propone vecchiume. I costi medi superano di gran lunga, le medie europee. Non necessariamente per colpa di Governi “cinici e bari” restii ad aprire i cordoni della borsa.
La “legge Bondi”, approvata da pochi mesi, mira alla riduzione dei costi del personale amministrativo e delle masse. E’ un prima passo. Il secondo, i regolamenti d’attuazione, ora in fase di elaborazione, potrebbe indurre il management dei teatri a comportamenti virtuosi, imponendo un aumento della produzione e richiedendo coproduzioni per il 70% degli spettacoli. Si dovrebbe prevedere premialità per le fondazioni che producono molto e bene (a giudizio di una commissione internazionale) e chiusura di quelle che producono poco e accumulano debiti, nonché l’ applicazione rigorosa della normativa per i dipendenti (con sanzioni per chi salta le prove per secondi lavori). Inoltre, si dovrebbe a) introdurre il principio del matching grant (chi ottiene più finanziamenti privati , ha più finanziamenti pubblici, mentre oggi l’apporto pubblico viene spesso ridotto a chi attira quello privato),b) costituire un corpo di ballo nazionale che operi in vari teatri , a seconda delle esigenze, c) rivedere le piante organiche per allinearle gli standard Ue (a parità di produzione. Altrimenti, si finirà con pochi teatri (La Scala, il Regio di Torino, il Massimo di Palermo, il Lirico di Cagliari che funzionano bene) e l'Opera di Roma (per ragioni di rappresentanza- la Capitale della Patria della Lirica avrà sempre un teatro d'opera).
Non mancano esempi (spesso poco conosciuti) di “storie di successo”. Due sono nel Sud. Negli ultimi cinque anni il Massimo di Palermo (un tempo un pozzo senza fondo) chiude i consuntivi in attivo, rimborsa un maxi-mutuo contratto con una banca internazionale per rifinanziare lo stock di debito, aumenta la produzione, vende i propri spettacoli all’estero, ha un programma per i giovani. Ha risanato i conti anche Cagliari, ma tagliando drasticamente la produzione lirica e dando maggiore spazio alla sinfonica ed alla cameristica.
Altro esempio, l’”opera da camera” a costi contenuti (la proponevano Britten e Menotti). Da cinque anni, è la strada seguita dalla Sagra Malatestiana a Rimini, dove si è appena gustata Die Weise von Liebe und Tod des Cornets Christoph Rilke (Il Canto d’amore e morte dell’alfiere Christoph Rilke), del poeta Rainer Maria Rilke, nella versione musicale di Viktor Ullman e Frank Martin. Spettacolo struggente (seguito con passione da pubblico giovane) realizzato ad un costo di € 15.000 per rappresentazione. L’anno scorso a Rimini presentò la prima mondiale di Kafka Fragmente di György Kurtàg ad un costo di €20.000 per rappresentazione. Lo ripropone il Romaeuropa Festival in un nuovo allestimento il cui costo –si dice – è pari a tre volte quello dello scorso anno . Da augurarsi: o una smentita o un taglio del contributo pubblico.
Giuseppe Pennisi
Alla vigilia della diretta del “Rigoletto” mondovisivo (un miliardo e mezzo di spettatori) “nei luoghi ed alle ore” della vicenda, nuove polemiche sullo stato di quella forma di spettacolo che, in Italia, contribuì all’Ottocento (e quindi al movimento d’unità nazionale) tanto quanto, in molti altri Paesi, fece il genere letterario del romanzo. Zubin Mehta, concertatore del “Rigoletto” mondovisivo, ha accusato il Governo di affossare la cultura. Il Ministro Bondi ha replicato che l’Esecutivo sta tentando di porre riparoe a decenni di mala gestione.
In effetti, c’è il pericolo che nel 150nario dell’Unità d’Italia, molti teatri chiudano i battenti. Il “Carlo Felice” di Genova, dopo un lungo commissariamento, ha funzionato per alcuni mesi, ma personale e masse artistiche sono in cassa integrazione sino a fine 2010; del “dopo” nessuno sa nulla. Il San Carlo di Napoli è commissariato da circa tre anni grazie ad una norma speciale (il commissariamento dura , di solito, sei mesi). Pare che il Teatro dell’Opera di Roma, appena uscito dal commissariamento e che dovrebbe avere un ruolo centrale nelle celebrazioni per il 150nario, sia alle prese con un nuovo disavanzo. I “teatri del Maggio Musicale” fiorentino hanno annunciato un programma di “riprese” (nessun nuovo allestimento) sino a dicembre: il nuovo Sovrintendente,una giovane ingegnere chiamata dal MiTo, vuole vederci chiaro prima di prendere impegni per il 2011. Gran parte dei cartelloni presentati per la stagione 2010-2011 sono al risparmio: rare le nuove produzioni, si punta sul tradizionale (il cui pubblico ha spesso l’età per riflettere più sui teatri dell’altro mondo che su quelli di questo), pochissimi (La Scala, Palermo) propongono “prime mondiali”. Il cane si morde la coda: il pubblico scarseggia perché non solo la musica non è di casa né nelle scuole né nelle famiglie, ma si propone vecchiume. I costi medi superano di gran lunga, le medie europee. Non necessariamente per colpa di Governi “cinici e bari” restii ad aprire i cordoni della borsa.
La “legge Bondi”, approvata da pochi mesi, mira alla riduzione dei costi del personale amministrativo e delle masse. E’ un prima passo. Il secondo, i regolamenti d’attuazione, ora in fase di elaborazione, potrebbe indurre il management dei teatri a comportamenti virtuosi, imponendo un aumento della produzione e richiedendo coproduzioni per il 70% degli spettacoli. Si dovrebbe prevedere premialità per le fondazioni che producono molto e bene (a giudizio di una commissione internazionale) e chiusura di quelle che producono poco e accumulano debiti, nonché l’ applicazione rigorosa della normativa per i dipendenti (con sanzioni per chi salta le prove per secondi lavori). Inoltre, si dovrebbe a) introdurre il principio del matching grant (chi ottiene più finanziamenti privati , ha più finanziamenti pubblici, mentre oggi l’apporto pubblico viene spesso ridotto a chi attira quello privato),b) costituire un corpo di ballo nazionale che operi in vari teatri , a seconda delle esigenze, c) rivedere le piante organiche per allinearle gli standard Ue (a parità di produzione. Altrimenti, si finirà con pochi teatri (La Scala, il Regio di Torino, il Massimo di Palermo, il Lirico di Cagliari che funzionano bene) e l'Opera di Roma (per ragioni di rappresentanza- la Capitale della Patria della Lirica avrà sempre un teatro d'opera).
Non mancano esempi (spesso poco conosciuti) di “storie di successo”. Due sono nel Sud. Negli ultimi cinque anni il Massimo di Palermo (un tempo un pozzo senza fondo) chiude i consuntivi in attivo, rimborsa un maxi-mutuo contratto con una banca internazionale per rifinanziare lo stock di debito, aumenta la produzione, vende i propri spettacoli all’estero, ha un programma per i giovani. Ha risanato i conti anche Cagliari, ma tagliando drasticamente la produzione lirica e dando maggiore spazio alla sinfonica ed alla cameristica.
Altro esempio, l’”opera da camera” a costi contenuti (la proponevano Britten e Menotti). Da cinque anni, è la strada seguita dalla Sagra Malatestiana a Rimini, dove si è appena gustata Die Weise von Liebe und Tod des Cornets Christoph Rilke (Il Canto d’amore e morte dell’alfiere Christoph Rilke), del poeta Rainer Maria Rilke, nella versione musicale di Viktor Ullman e Frank Martin. Spettacolo struggente (seguito con passione da pubblico giovane) realizzato ad un costo di € 15.000 per rappresentazione. L’anno scorso a Rimini presentò la prima mondiale di Kafka Fragmente di György Kurtàg ad un costo di €20.000 per rappresentazione. Lo ripropone il Romaeuropa Festival in un nuovo allestimento il cui costo –si dice – è pari a tre volte quello dello scorso anno . Da augurarsi: o una smentita o un taglio del contributo pubblico.
Più che meritocrazia, ecco a voi la mediocrazia Il Foglio 8 settembre
Tutti, destra, sinistra e centro, inneggiano alla meritocrazia come strumento per vincere la sfida della competizione globale, in particolare con l’Estremo Oriente (Cina & Co). In effetti, da un’inchiesta recente del New York Times, si ricava che la Cina sta aumentando la partecipazione dello Stato nel settore manifatturiero (non solo nelle industrie di base), colpito, come nel resto del mondo, dalla crisi economica e dalla brusca flessione del commercio mondiale nel 2009. La riorganizzazioni delle imprese è accompagnata dalla ricerca di nuovi manager lanciata per concorso pubblico tra il miliardo di cinesi interessati. Le procedure si annunciano severe, quali quelle per il concorso per il Mandarinato del Celeste Impero di un tempo. L’attesa dei risultati sarà spasmodica. L’intenzione è che verranno scelti i migliori, la “crème de la crème” (come dice, storpiando il francese, un proverbio inglese).
In Italia, il Commissario di Governo del Comune di Bologna, Prefetto Cancellieri, aveva lanciato l’idea di selezionare il nuovo Sovrintendente e il nuovo Direttore Artistico del Teatro Comunale facendo ricorso ad un bando pubblico, così come previsto dalla “direttiva” del piacentino Pierlugi Bersani (emessa quando era al Governo e ancora oggi in vigore). Apriti Cielo! Il Pd emiliano ha dissotterrato l’ascia di guerra: i nomi dei valorosi aspiranti al suicido (viste le finanze del Teatro) li hanno già. Quindi perché perdere tempo in concorsi (pur se bressaniani)?
La destra non sembra abbia idee differenti. Un’inchiesta del Sole 24 Ore analizza il cambio di squadra nelle aziende in cui la Regione Lazio è azionista di riferimento o totalitario; a cominciare da Sviluppo Lazio per giungere alla Filas, al Bic ed ad Unionfidi ed ad una galassia di sigle minori, alcune delle quali il nuovo governo della Regione avrebbe l’intenzione di accorpare, o smantellare o chiudere. Vengono indicati anche nomi ed emolumenti di chi verosimilmente avrà le nuove poltrone, in gran parte candidati al Consiglio o alla Giunta regionale ma che non ce l’hanno fatta. Dal California Institute of Technology e dalla University of Pennsylvania, dove si sono trasferiti da anni, Andrea Mattozzi e Antonio Merlo, affermano che questa è la strada verso la mediocrazia. Più semplicemente credo che si vuole selezionale “la crème de la crème brülée”. A ciascuno il suo.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
di Giuseppe Pennisi
In Italia, il Commissario di Governo del Comune di Bologna, Prefetto Cancellieri, aveva lanciato l’idea di selezionare il nuovo Sovrintendente e il nuovo Direttore Artistico del Teatro Comunale facendo ricorso ad un bando pubblico, così come previsto dalla “direttiva” del piacentino Pierlugi Bersani (emessa quando era al Governo e ancora oggi in vigore). Apriti Cielo! Il Pd emiliano ha dissotterrato l’ascia di guerra: i nomi dei valorosi aspiranti al suicido (viste le finanze del Teatro) li hanno già. Quindi perché perdere tempo in concorsi (pur se bressaniani)?
La destra non sembra abbia idee differenti. Un’inchiesta del Sole 24 Ore analizza il cambio di squadra nelle aziende in cui la Regione Lazio è azionista di riferimento o totalitario; a cominciare da Sviluppo Lazio per giungere alla Filas, al Bic ed ad Unionfidi ed ad una galassia di sigle minori, alcune delle quali il nuovo governo della Regione avrebbe l’intenzione di accorpare, o smantellare o chiudere. Vengono indicati anche nomi ed emolumenti di chi verosimilmente avrà le nuove poltrone, in gran parte candidati al Consiglio o alla Giunta regionale ma che non ce l’hanno fatta. Dal California Institute of Technology e dalla University of Pennsylvania, dove si sono trasferiti da anni, Andrea Mattozzi e Antonio Merlo, affermano che questa è la strada verso la mediocrazia. Più semplicemente credo che si vuole selezionale “la crème de la crème brülée”. A ciascuno il suo.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
di Giuseppe Pennisi
martedì 7 settembre 2010
Darkness to Light Music & Vision 21 giugno
Darkness to Light
GIUSEPPE PENNISI visits the Ravenna Festival
Who remembers William Inge's play The Dark at the Top of the Stairs? In the sixties it was a major box office hit both on Broadway and in the West End, and its movie transposition was very successful in several countries. In Italy, even though so many years have gone by since its first release, it is occasionally back on late night TV programs. The 2010 Ravenna Festival has an elegant 150 page large-format catalogue called, in Latin, Ex Tenebris ad Lucem ('From darkness to light') which is just the opposite of Inge's title and message.
Many Music & Vision readers may ask where Ravenna is, and what is the role of its Festival on the European scene. Now, Ravenna is a lovely Adriatic seaside spot, filled with remnants of the Roman and Byzantine Empires, along with fine museums, gold mosaics and many seventeenth century palaces. There is an elegant nineteenth century theatre as well as several other locations suited to musical and theatrical performances. For the last twenty one years, Ravenna has had an important multi-disciplinary festival. This year, an audience of eighty thousand (approximately 25% of which are non-Italians) is expected. Its six million euro budget is financed by a consortium of Italian central and local authorities with private sponsors, along with box office receipts.
A scene from 'Tenebræ' at the 2010 Ravenna Festival. Photo © 2010 Maurizio Montanari
Riccardo Muti and his wife, Cristina, tirelessly promote the festival, in part through international partnerships and their well-deserved personal prestige. In previous years, Ravenna has brought to the attention of Western European theatres jewels like the Moscow Helikon Opera and the Lithuanian National Opera. This year the main events are co-produced with the Salzburg Festival and the Rome Teatro dell' Opera. Other events include Charles Dutoit conducting the Royal Philarmonia Orchestra, and Yuri Temirkanov with the Philarmonia Orchestra. The Festival was expected to be inaugurated by Claudio Abbado, who regretfully had to cancel because he is seriously ill. Muti will conduct two versions (by Mozart and Jommelli) of Metastasio's opera Betulia Liberata and a grand final concert (Cherubini's Requiem in C minor) with a huge number of players combining two orchestras and three choruses. The details are described at www.ravennafestival.org.
Elena Bucci in a scene from 'Tenebræ' at the 2010 Ravenna Festival. Photo © 2010 Maurizio Montanari
The main difference from other multidisciplinary festivals -- eg the Two Worlds Festival in Spoleto -- is that the Ravenna program has a clear theme: this year both philosophical and religious -- the difficult and gruesome search for truth. Also Ravenna presents world premières: this year Tenebræ by Adriano Guarnieri and Massimo Cacciari. Guarnieri is one of the most prestigious Italian composers; initially influenced by the German school (Darmstadt), now he sounds close to French contemporary experimentation (IRCAM).
Elena Bucci and Katerine Pantigny in a scene from 'Tenebræ' at the 2010 Ravenna Festival. Photo © 2010 Maurizio Montanari
Cacciari is a well-known philosopher, close to Marxism. As an atheist, he is very attracted to religion -- he has visited Mount Athos several times and just published a commentary of the Ten Commandments. For two terms, he has been a much appreciated mayor of Venice (his home town) -- thus he has real management experience -- a rarity for a philosopher. He has also had a long acquaintance with Luigi Nono and his family, and is thus familiar with contemporary music. For Nono, Cacciari arranged texts by several authors for Prometeo, Tragedia dell'Ascolto ( a mammoth opera with over three hours of music and an oversized orchestra and chorus). To make the event even spicier (should there be any need), Cristina Mazzavillani Muti took on the stage direction of this seventy five minute video oratorio (with four scenes and sixteen numbers) and three of the best known Italian experts of virtual sets (Ezio Antonelli), electronic sound (Luigi Ceccarelli) and lighting (Patrizio Maggi) were called to share responsibility for the production.
Elena Bucci in a scene from 'Tenebræ' at the 2010 Ravenna Festival. Photo © 2010 Maurizio Montanari
I was at the 17 June 2010 world première. Cacciari's text deals essentially with death, and more specifically with the difficult and painful separation of the soul from the body : the light at the end of the seventy five minute tunnel is a Zen peace, like in Mahler's Das Lied von Der Erde. The text is sung by two sopranos and a countertenor in a very high register -- with a hyper acute that very few singers would dare to attempt. It was counterpointed by a taped Gregorian chorus of monks with bass voices; as the words are deconstructed, an actress and a dancer explain the meaning. The score is limpid: very classically atonal, composing is combined with a twelve note row style. In the pit, a Teatro dell'Opera fourteen member ensemble does marvels under Pietro Borgonovo's baton. The stage direction and virtual sets may require some re-thinking before reaching Rome and touring to other theatres. In the first two scenes, these are quite effective and combine Caravaggio paintings with ideas from the Good Friday Liturgy and the Gospel (eg the floods). In the remaing two scenes, very little can be seen on the dark set whilst the music is reaching its dramatic apex before the serene conclusion.
A scene from 'Tenebræ' at the 2010 Ravenna Festival. Photo © 2010 Maurizio Montanari
During my visit to Ravenna, I also took the opportunity to hear two concerts by La Stagione Armonica, an ancient music ensemble created and led by Sergio Balestrazzi. The first, in the St Vitale Basilica, was the Good Friday Anthem and the Darkness Prayers by Alessandro Scarlatti, scores found in the archives of the Bologna Philarmonic Academy: dark but rich music from the last few years of the seventeenth century where soloist and chorus are supported by two violins, a cello, a violone, a tiorba and the organ. The second was in St Apollinare Nuovo Basilica: a real gem -- Roman Catholic Counter-Reformation music by Bianciardi, Monteverdi, Morelli, Salvolini and Signoretti, polyphonic and with only the organ providing a basso continuo accompaniment.
A scene from 'Tenebræ' at the 2010 Ravenna Festival. Photo © 2010 Maurizio Montanari
In short, over two days, a travel from darkness to light, from Palestrina to electro-acoustics.
Copyright © 21 June 2010 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy
RAVENNA
RICCARDO MUTI
ITALY
ALESSANDRO SCARLATTI
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GIUSEPPE PENNISI visits the Ravenna Festival
Who remembers William Inge's play The Dark at the Top of the Stairs? In the sixties it was a major box office hit both on Broadway and in the West End, and its movie transposition was very successful in several countries. In Italy, even though so many years have gone by since its first release, it is occasionally back on late night TV programs. The 2010 Ravenna Festival has an elegant 150 page large-format catalogue called, in Latin, Ex Tenebris ad Lucem ('From darkness to light') which is just the opposite of Inge's title and message.
Many Music & Vision readers may ask where Ravenna is, and what is the role of its Festival on the European scene. Now, Ravenna is a lovely Adriatic seaside spot, filled with remnants of the Roman and Byzantine Empires, along with fine museums, gold mosaics and many seventeenth century palaces. There is an elegant nineteenth century theatre as well as several other locations suited to musical and theatrical performances. For the last twenty one years, Ravenna has had an important multi-disciplinary festival. This year, an audience of eighty thousand (approximately 25% of which are non-Italians) is expected. Its six million euro budget is financed by a consortium of Italian central and local authorities with private sponsors, along with box office receipts.
A scene from 'Tenebræ' at the 2010 Ravenna Festival. Photo © 2010 Maurizio Montanari
Riccardo Muti and his wife, Cristina, tirelessly promote the festival, in part through international partnerships and their well-deserved personal prestige. In previous years, Ravenna has brought to the attention of Western European theatres jewels like the Moscow Helikon Opera and the Lithuanian National Opera. This year the main events are co-produced with the Salzburg Festival and the Rome Teatro dell' Opera. Other events include Charles Dutoit conducting the Royal Philarmonia Orchestra, and Yuri Temirkanov with the Philarmonia Orchestra. The Festival was expected to be inaugurated by Claudio Abbado, who regretfully had to cancel because he is seriously ill. Muti will conduct two versions (by Mozart and Jommelli) of Metastasio's opera Betulia Liberata and a grand final concert (Cherubini's Requiem in C minor) with a huge number of players combining two orchestras and three choruses. The details are described at www.ravennafestival.org.
Elena Bucci in a scene from 'Tenebræ' at the 2010 Ravenna Festival. Photo © 2010 Maurizio Montanari
The main difference from other multidisciplinary festivals -- eg the Two Worlds Festival in Spoleto -- is that the Ravenna program has a clear theme: this year both philosophical and religious -- the difficult and gruesome search for truth. Also Ravenna presents world premières: this year Tenebræ by Adriano Guarnieri and Massimo Cacciari. Guarnieri is one of the most prestigious Italian composers; initially influenced by the German school (Darmstadt), now he sounds close to French contemporary experimentation (IRCAM).
Elena Bucci and Katerine Pantigny in a scene from 'Tenebræ' at the 2010 Ravenna Festival. Photo © 2010 Maurizio Montanari
Cacciari is a well-known philosopher, close to Marxism. As an atheist, he is very attracted to religion -- he has visited Mount Athos several times and just published a commentary of the Ten Commandments. For two terms, he has been a much appreciated mayor of Venice (his home town) -- thus he has real management experience -- a rarity for a philosopher. He has also had a long acquaintance with Luigi Nono and his family, and is thus familiar with contemporary music. For Nono, Cacciari arranged texts by several authors for Prometeo, Tragedia dell'Ascolto ( a mammoth opera with over three hours of music and an oversized orchestra and chorus). To make the event even spicier (should there be any need), Cristina Mazzavillani Muti took on the stage direction of this seventy five minute video oratorio (with four scenes and sixteen numbers) and three of the best known Italian experts of virtual sets (Ezio Antonelli), electronic sound (Luigi Ceccarelli) and lighting (Patrizio Maggi) were called to share responsibility for the production.
Elena Bucci in a scene from 'Tenebræ' at the 2010 Ravenna Festival. Photo © 2010 Maurizio Montanari
I was at the 17 June 2010 world première. Cacciari's text deals essentially with death, and more specifically with the difficult and painful separation of the soul from the body : the light at the end of the seventy five minute tunnel is a Zen peace, like in Mahler's Das Lied von Der Erde. The text is sung by two sopranos and a countertenor in a very high register -- with a hyper acute that very few singers would dare to attempt. It was counterpointed by a taped Gregorian chorus of monks with bass voices; as the words are deconstructed, an actress and a dancer explain the meaning. The score is limpid: very classically atonal, composing is combined with a twelve note row style. In the pit, a Teatro dell'Opera fourteen member ensemble does marvels under Pietro Borgonovo's baton. The stage direction and virtual sets may require some re-thinking before reaching Rome and touring to other theatres. In the first two scenes, these are quite effective and combine Caravaggio paintings with ideas from the Good Friday Liturgy and the Gospel (eg the floods). In the remaing two scenes, very little can be seen on the dark set whilst the music is reaching its dramatic apex before the serene conclusion.
A scene from 'Tenebræ' at the 2010 Ravenna Festival. Photo © 2010 Maurizio Montanari
During my visit to Ravenna, I also took the opportunity to hear two concerts by La Stagione Armonica, an ancient music ensemble created and led by Sergio Balestrazzi. The first, in the St Vitale Basilica, was the Good Friday Anthem and the Darkness Prayers by Alessandro Scarlatti, scores found in the archives of the Bologna Philarmonic Academy: dark but rich music from the last few years of the seventeenth century where soloist and chorus are supported by two violins, a cello, a violone, a tiorba and the organ. The second was in St Apollinare Nuovo Basilica: a real gem -- Roman Catholic Counter-Reformation music by Bianciardi, Monteverdi, Morelli, Salvolini and Signoretti, polyphonic and with only the organ providing a basso continuo accompaniment.
A scene from 'Tenebræ' at the 2010 Ravenna Festival. Photo © 2010 Maurizio Montanari
In short, over two days, a travel from darkness to light, from Palestrina to electro-acoustics.
Copyright © 21 June 2010 Giuseppe Pennisi,
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