Roma, 25 nov (Velino) - E’, senza dubbio, un interrogativo molto poco politically correct, specialmente in una fase in cui la valorizzazione della moneta unica europea si sta rafforzando, non indebolendo, sui mercati internazionali. Ma che viene inevitabilmente in mente a chi, come me, ha visto la fine dell’area della sterlina, delle unioni monetarie della Comunità franco-africana, dell’Africa occidentale, dell’Africa centrale, dell’Africa orientale, della Federazione della Malesia (al decesso della quale la Repubblica di Singapore incluse, nella propria Carta Costituzionale, il divieto d’istituire una banca centrale) e di un’altra mezza dozzina di unioni grandi e piccole e relative “monete uniche”.
La domanda non può non venire alla mente guardando gli ultimi preconsutivi della finanza pubblica dei principali Paesi che fanno parte dell’area dell’euro: rispetto ai parametri del “patto di stabilità” (un indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni non superiore al 3% del Pil ed uno stock di debito tendente a non superare il 60% del Pil), l’indebitamento netto delle pubbliche amministrazione sfiora il 15% in Irlanda, il 12% in Grecia, il 10% in Spagna, l’8% in Francia , il Portogallo al 7% e Italia e Germania attorno al 5% ed il rapporto tra stock di debito e pil è in Grecia 135%, in Italia 118%, il Irlanda 96%, in Portogallo 91%, Francia 88%, in Germania 80% ed in Spagna 74%. In gran misura a ragione degli interventi di salvataggio a favore del settore finanziario (ed in certi casi pure dal manifatturiero), la media ponderata dello stock di debito pubblico dei Paesi dell’area dell’euro in rapporto al pil è l’88% , ossia sfiora il 90%. Quindi delle due l’una: o i parametri ed i vincoli del trattato di Maastricht, prima, e del patto di stabilità, poi, sono “stupidi” come li qualificato Romani Prodi (quando era il Presidente dalla Commissione Europea) oppure l’euro , nonostante sia “forte”, è in serie difficoltà. In effetti, i piani di rientro in questi giorni all’esame del Consiglio dei Ministri degli Stati dell’area dell’euro non postulano tempi brevi per rientrare nei “tetti” del Trattato e del patto.
A questi dati si aggiunge un’analisi molto raffinata del Levy Economic Institute del Bard College; nel Public Policy Brief n. 106 in uscita in questi giorni a firma di Stephanie A. Kelton e L. Randall Wray. Lo studio – sintetico ma eloquente e corredato di dati e grafici - pone l’interrogativo Can Euroland Survive? da un altro punto di vista. Non esamina gli effetti della crisi economica e finanziaria dal punto di vista della risposta della politica di bilancio (in seguito agli interventi per impedire fallimenti e il crollo della domanda aggregata) ma sotto quella della crescente spread dei tassi d’interesse a lungo termine e dei credit default swaps tra Paesi dell’area dell’euro più o meno virtuosi. Tale spread è cresciuta notevolmente e sta provocando tensioni che rischiano di lacerare l’unione monetaria. Stepahnie A. Kelton e L. Randall Wray offrono una ricetta tanto europeista che non la si aspetterebbe dagli Usa : non ci si deve affidare unicamente o principalmente alla disciplina posta dai mercati internazionali (ossia allo spread) ma allo politica con la “P” maiuscola creando un vero e proprio bilancio federale (con risorse molto maggiori di quelle di cui dispongono la Commissione Europea e la Banca centrale europea) ed una “nuova istituzione finanziaria” con lo scopo di aiutare i Paesi dell’area dell’euro in difficoltà un’ampia serie di obiettivi di politica economica durante le fasi di contrazione.
Delle due proposte , la seconda può essere attuata facilmente ampliando la sfera d’attività della Banca europea per gli investimenti – già negli Anni 80 la Banca mondiale ha effettuato il passaggio da prestiti per singoli progetti o programmi al policy based lending. Molto più complesso il trasferimento di risorse dai singoli Stati dell’area dell’euro ad istituzioni “federali”, anche in quanto il “federalismo” è proprio ciò che il Trattato di Lisbona, che entra in vigore il primo dicembre, ha tenuto alla larga per avere il consenso dei 27 Stati dell’Ue
(Giuseppe Pennisi) 25 nov 2009 11:53
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