CHI HA PAURA DEI FONDI SOVRANI?
Giuseppe Pennisi
La sinistra un tempo intonava “l’internazionale”. Ora a giudicare dei commenti dui alcuni giornali alle recenti visite di Berlusconi nella Penisola Arabica e di Tremonti in Cina, pare che abbia riscoperto la “Marcia Reale” dei tempi delle nostre prime avventure africane e le intermezzi con gli anni della compagna d’Abissinia (allora si chiamava così quella che oggi ha il nome di Etiopia). In breve, nonostante le statistiche della Banca mondiale e dell’Unctad (l’agenzia Onu preposta all’uopo) classifichino l’Italia tra i Paesi dove meno affluiscono investimenti diretti dall’estero, commentatori anche paludati hanno espresso riserve nei confronti di contatti presi affinché i “Fondi sovrani” dei Paesi visitati guardino alle opportunità presenti a casa nostra. C’è chi ha parlato di “svendita” di impianti, fabbriche ed imprese a interessi stranieri e, quindi, di perdita di sovranità.
Facciamo il punto, sine ira ni studio, i “fondi sovrani” – creati da Paesi con forti attivi delle bilance dei pagamenti e ragguardevoli riserve – hanno una cospicua aapacità finanziaria (stimata in almeno 4000 miliardi di dollari) . I fondi di Paesi petroliferi o di Paesi emergenti in particolare (non il Norway Global Pension Fund, ben 360 miliardi di dollari, che ha finalità previdenziali specifiche ed investe con grande maestria specialmente in fondi pensione di tutto il mondo) hanno concluso una serie di accordi tra di loro per avere maggiori competenze tecnico-finanziarie (lo ha ammesso il Presidente del Fondo Kazaco Samruk-Kazyna) e avere, quindi, maggiori capacità di analisi e di scelta d’investimenti in un’ottica di medio e lungo periodo, non legati ai risultati trimestrali. Il Fondo di Abu Dhabi, ad esempio, ha concluso un’intesa di questa natura con quello della Malesia ed un’altra con il piccolo fondo sovrano francese per alta tecnologia; l’India e l’Oman hanno dato vita ad un fondo sovrano congiunto; i fondi sovrani di Corea e Malesia hanno stretto un accordo con il fondo australiano d’investimenti QIC; i fondi di Cina, Singapore e Kuwait hanno operato d’intesa per supportare Backrock nell’acquisizione di Barclays Global Investiment. Da circa un anno, poi, si stanno orientando sempre più verso il manifatturiero in via di riassetto. In Italia, sono noti i rapporti, ormai di alcuni decenni, tra la FIAT e la Libia (prima direttamente con il Governo, poi con il fondo sovrano creato a Tripoli). E’ meno noto il ruolo che il fondo sovrano di Abu Dhabi prima e quello del Quadar poi hanno nella riorganizzazione dell’industria metalmeccanica tedesca. Il fondo di Abu Dhabi , con il 9,1% del capitale, è diventato l’azionista di riferimento della Daimler; al termine della fusione tra la Volkswagen e la Porche, il fondo del Qatar deterrà tra il 17% ed il 20% della nuova struttura aziendale. Il fondo del Qatar– ha una vasta gamma d’investimenti in Francia: da Suez Environment al principale concorso ippico (le Prix de l’Arc de Triomphe), dai grandi alberghi all’alta tecnologia (nonché ad una fetta importante di Bot francesi sul mercato).
Oggi “i fondi sovrani” assomigliano sempre più al “private equity” , essiccatosi all’inizio della crisi finanziaria che agli “hedge fund”. E’ aumentata la trasparenza , e soprattutto gli investimenti tendono a guardare sempre più al medio (ed anche lungo periodo) , piuttosto che ad indicatori finanziari a breve termine. Possono dare un contributo significativo alla ripresa, specialmente in Europa e soprattutto se scommettono su settori e comparti che necessitano liquidità per attuare programmi di riassetto strutturale (la metalmeccanica e l’edilizia sono i primi a venire in mente).I timori che i fondi sovrani vengano gestiti con finalità politiche clientelari sono, in gran misura, non fondati. Lo afferma in modo persuasivo Sven Behrendt in un lavoro appena pubblicato nel “Policy Outlook” del Carnegie Middle East Center a Beirut. Richard Epstein dell’Università di Chicago e Amada Rose della Vanderbilt argomentano che aggravare i fondi sovrani con regolamentazione eccessiva può solamente causare danni ai Paesi che la mettono in atto: inducono i fondi ad investire altrove, con una perdita secca di opportunità. Lo ribadisce un lavoro del Fondo monetario in corso di pubblicazione – ne sono autori Tao Sun e Heiko Hesse- in cui si esaminano investimenti e disinvestmenti da parte di “fondi sovrani” nel periodo 1990-2009: 166 “eventi” di cui si conoscono le caratteristiche . Sun e Hesse focalizzano su un aspetto l’impatto a breve termine delle operazioni dei fondi (acquisti e vendite di partecipazioni) in vari tipi di mercati finanziari (maturi ed emergenti) sia nel settore manifatturiero sia in quello finanziario al fine di valutare se hanno effetti “destabilizzanti” o se abbiamo turbato la “governance” di banche ed imprese. La conclusione che effetti di tale natura non ci sono stati ma che al contrario hanno spesso irrobustito con linfa nuova le banche e le imprese in cui hanno investito.
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