Le polemiche sul Fondo Unico per lo Spettacolo (Fus) , di cui alla lettera del Ministro Sando Bondi a “Il Foglio” del 13 novembre, devono essere poste nel contesto appropriato. Non solamente il Paese sta cominciando ad intravedere l’uscita da una gravissima crisi economica, ma l’amministrazione dei beni culturali ha una capacità di spesa limitata. Pure nel campo dominato dalla musa più bizzarra e più altera, e quindi, più costosa (così un musicologo tedesco definì la lirica) nella stessa Italia degli sprechi non mancano esempi virtuosi.
Lasciamo ad altra sede l’analisi dei “barlumi” di ripresa e, quindi, di aumento delle entrate (con conseguente possibilità di incremento della spesa pubblica, la cui voce principale – le pensioni – sta viaggiando verso il 18-20 percento del Pil, togliendo spazio ad altri campi d’intervento). Pur ipotizzando che le risorse siano disponibili, negli ultimi 15 anni (quale che fosse il Ministro ed il Governo), la capacità di spesa del Ministro dei Beni Culturali ha raramente superato la metà delle disponibilità. Nonostante lo scorso maggio, il Consiglio Superiore per i Beni Culturali abbia espresso una raccomandazione unanime sulle misure da adottare per aumentarla, i dati dell’ultimo rendiconto suggeriscono che alla fine del 2009 i resti effettivi di cassa supereranno il 55% delle disponibilità. Il Tesoro sarà tormentato dal dubbio se prevedere uno stanziamento qualsiasi per il 2010. Il nodo è amministrativo, anche in base alle “leggi Bassanini” degli Anni 90. Aumentare la capacità di spesa è pure essenziale allo scopo d’ invogliare i privati a fornire contributi liberali: un’apposita commissione ha formulato proposte a metà gennaio 2008.
Veniamo adesso agli esempi “virtuosi” nel campo della musa che assorbe oltre la metà del Fus. Una rappresentazione lirica in Italia (artisti, masse orchestrali e corali , amministrazione) ha un costo pari al 170% della media di quella che era l’Ue a 15 – si andrebbe ad oltre il 250% rispetto l’Ue a 27. E’ la punta di un iceberg che dovrebbe fare riflettere chi ha avuto responsabilità nel settore.
A fronte di questo iceberg dovrebbero spiccare ancora di più i teatri nazionali che, dopo grandi crisi (ad esempio, La Scala, il Massimo di Palermo, il Lirico di Cagliari, - l’elenco non ha la pretesa di essere esaustivo), sono riusciti a presentarsi per anni consecutivi con conti in ordine, con produzioni di qualità, con aumento del pubblico anche straniero, con masse artistiche motivate e disciplinate. Dovrebbero fare riflettere le “buone prassi” attuate da circuiti regionali per co-produrre (tra loro ed anche con teatri esteri), per valorizzare giovani talenti (non solo nostrani), per contenere i cachet (che in Italia raggiungono il triplo di quelli praticati a Vienna e Monaco ed i quadruplo di quelli del Metropolitan di New York). Ai circuiti “toscano”, “emiliano” e “lombardo”, si è aggiunto di recente un circuito “veneto” (Padova, Bassano, Rovigo) che con regie innovative e scoperte di artisti (quali la giovanissima, bellissima e bravissima Kristin Lewis del lontano Kansas). Meritevoli pure i tentativi della Fondazione Pergolesi-Spontini a Jesi (bilanci sempre in pareggio o in attivo) di attivare un circuito analogo nelle Marche; hanno avuto risultati incompleti (a ragione di localismi) ma è in queste settimane in giro (Jesi, Fermo, Udine, Ravenna) un godibilissimo “Barbiere” rossiniano (al costo complessivo di € 80.000 a recita) cantato da giovani coreani, americani, russi, e italiani (in gran parte provenienti dall’Accademia del ROF) con una regia felliniana di Damiano Michelietto ed un apparato scenico composto solo da una ventina di sedie, una dozzina di ombrelli, una scala, e qualche pallone.
Questi comportamenti virtuosi si basano su prassi simili: co-produzioni e competizione. Anche a regole attuali, la musa bizzarra e altera, e le altre muse delle arti sceniche, potrebbe ridurre costi, aumentare qualità ed espandere la produzione con tre piccole clausole: a) almeno il 70% degli spettacoli in co-produzione; b) ingaggi più lunghi per gli artisti ma cachet non superiori alla media dell’Ue a 15; c) una premialità a chi presenta consuntivi finanziari ed artistici migliori sulla base del giudizio di una commissione internazionale non di chiara, ma di chiarissima fama (per evitare giochi di bottega).
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