Roma, 4 nov (Velino) - All’ultima tornata di previsioni econometriche (il 31 ottobre), i 20 maggiori istituti internazionali di analisi previsionale – il gruppo chiamato del “consensus” – paiono tracciare un quadro relativamente ottimista: dopo due anni di recessione il tasso di disoccupazione nell’area dell’euro è pari all’8,4% delle forze di lavoro mentre tocca il 10% negli Usa ed il 9,5% in Cina. Nell’Ue a 27, secondo l’Eurostat, il tasso di disoccupazione ha superato, pur se di poco, il 7% delle forze di lavoro. Il contenimento del tasso disoccupazione nell’unione monetaria si deve in gran misura all’Italia in cui coloro che cercano lavoro senza trovarlo sono il 7,4% della forza lavoro. Ciò dipende, in certa misura, dal sistema d’ammortizzatori sociali in vigore nel nostro Paese: con la “cassa integrazione” non si interrompe il rapporto di lavoro e, quindi, i cassaintegrati contano come occupati o comunque come uomini e donne che non sono alla ricerca di lavoro. Il quadro è meno incoraggiante se si guarda al futuro: l’Ocse prevede un tasso di disoccupazione almeno del 10% per i 30 Paesi che fanno parte dell’organizzazione. Due economisti indiani di rango , Ravi Jagannathan e Mudid Kappoor, hanno pubblicato, con Ernst Schaumburg, della Nortwestern University di Chicago, un saggio in cui sottolinea come la crisi finanziaria sia un sintomo, non una determinante, della recessione. Quindi, si rovescia il rapporto di causa ed effetto: non è la finanza a rallentare l’economia reale ma la seconda ed inviare segnali ai mercati. Una ripresa sostenibile – aggiungono – sarà possibile solo una volta risolti i nodi strutturali – primo tra tutti quello dei conti con l’estero Usa.
Questo è un compito di lungo periodo: cosa fare nel frattempo per alleviare il problema, pur senza avere la pretesa di risolverlo? Nello Iza Discussion Paper No. 4455, David Bell e David Blanchflower sostengano che la disoccupazione di massa può essere ben peggiore di quanto ci si aspetti oggi anche a ragione del moltiplicatore di disoccupazione che scatta in un mondo interdipendente (concetto relativamente nuovo coniato in università tedesche ed austriache, un’area dove il fenomeno morde già molto).Le idee di Bell e Blanchflower collimano con quelle delineate da Pierella Pac i, Ana Revenga, e Bob Rijkers in un lavoro in corso di pubblicazione da pare della Banca Mondiale ( "Coping with Crises: Why and How to Protect Employment and Earnings" World Bank Policy Research Working Paper No. 5094 ). In base all’esperienza di crisi precedenti di questa portata, lo studio afferma che “un atteggiamento miope e reattivo minaccia di essere controproducente: occorre invece un sistema automatico di protezione sociale e di reti di sicurezza”. Altrimenti, c’è il rischio di innescare “social unrest”, quale quello che si è già toccato con mano in Francia e Germania (per restare nell’Unione monetaria e senza tenere conto, per mancanza d’informazione, di quanto sta avvenendo in Cina dove i senza lavoro assommano, secondo stime della Banca Mondiale, a 150 milioni); lo sottolineano Oded Stark , Walter Hyll, e Doris Behrens, ancora tre accademici tedeschi ed austriaci – delle Università di Bonn e Klagenfurt. Segnale che là è dove le sofferenze sono maggiori.
Che conclusioni trarre da queste analisi? All’interno dello stesso schieramento di Governo c’è chi sostiene che abbiamo il più efficace sistema di ammortizzatori sociali e chi, invece, difende la tesi opposta. E’ utile, ed urgente, aprire una riflessione prima che il fantasma del “social unrest” si aggiri anche da noi.
(Giuseppe Pennisi) 4 nov 2009 09:02
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