mercoledì 4 novembre 2009

L’ECLISSI DEL DOLLARO Formiche Novembre

La conclusione principale del G20 dei Capi di Stato e di Governo, tenuta a Pittsburgh il 24 e 25 settembre, è che ci vorrà molto tempo per dare un abito giuridico alle “nuove regole globali” a cui tanto tiene il Vecchio Continente ma che meno sembrano interessare al Nord America ed ancor meno ai Paesi dell’Asia e dell’America Latina che fanno parte del gruppo: da tetti ai bonus dei maghi della finanza a nuove versioni della “Tobin Tax” (ripudiata, del resto dallo stesso Tobin una dozzina di anni fa) sulle transazioni finanziarie a breve, dare nuove mascelle e nuovi denti ad un Fondo monetario (una volta riformato) a varie forme di lotta alla non meglio definita “speculazione”.
Un saggio ancora inedito di Paul R. Masson e John C. Pattison della Joseph Rotman School of Management intitolato analizza rigorosamente il problema in termini di “teoria dei giochi” e giunge alla conclusione che in un club vasto e diversificato come il G20 è improbabile raggiungere le stesse premesse per un accordo che non sia tanto vago e tanto ambiguo da voler dire poco o nulla. Quindi meglio non perdere tempo e passare ad altro (mentre, per il momento, ciascuna area geo-economica badi a mettere le regole di casa propria in ordine senza troppe ambizioni mondialistiche). D’altronde, lo ha già fatto la stessa Ue, che pur preme per “regole mondiali” con il varo unilaterale, alla vigilia del G20, del nuovo sistema di vigilanza bancaria (imperniato sulla Bce e su nuove authority europee) nel loro continente. Tale mossa è stata un errore tattico poiché rafforza la tesi- sostenuta dagli Stati Uniti da altri Paesi (specialmente gli asiatici) del G20- secondo cui le “rules” dovrebbero essere al massimo regionali – e tra gruppi di Paesi omogenei – e non “global”.
Il vero nodo dell’economia internazionale (alla base della stessa crisi) sono gli squilibri finanziari mondiali. Un percorso per ridurli -afferma un documento del Tesoro Usa, chiamato “i principi di Geithner” quasi a contrapporlo ai “principi de L’Aquila”- è la premessa per” nuove regole”. Il documento non respinge i punti definiti dal G8 in luglio, ma propone una serie di misure per aumentare le “difese” delle istituzioni finanziarie (banche, assicurazioni) nei confronti di tempeste sui mercati (in sostanza incrementi del capitale e delle riserve). Tende la mano agli europei (al Congresso Usa) in materia di incentivi ai manager (bonus, opzioni convertibili in azioni) . Pone , però, soprattutto l’accento su come ridurre gli squilibri finanziari internazionale, ossia il disavanzo di conti con l’estero Usa e la caduta del valore internazionale del dollaro.
Un lavoro interno al Fmi , scritto da tre italiani (Pietro Cova e Massimiliano Pisani, e Alessandro Rebucci paper n. 09/64) è abbastanza esplicito; è in atto un rallentamento dell’incremento della produttività dei settori non aperti alla concorrenza internazionale (specialmente i servizi) nei Paesi emergenti dell’Asia ed, in parallelo, un aumento del livello di attività finanziarie straniere nelle riserve dei Paesi in questione. Il primo elemento ha inciso sul secondo che, a sua volta, ha avuto effetti importanti sugli Usa e sul resto del mondo. Un anno fa, in termini divulgativi, li ha illustrati Martin Wolf del Financial Times individuando nella strategia asiatica in tema di riserve una delle componenti maggiori della crisi (più importante dei mutui “subprime” per l’acquisto di case negli Usa).
Il leggero apprezzamento del valore internazionale della valuta cinese – si chiedono Ronald McKinnom dell’Università di Stanford e Gunther Schnabl di quella di Lipsia, in un saggio apparso su “China and the World Economy” – non ha avuto alcun impatto di rilievo: “La Cina deve smetterla di cincischiare con il cambio: è venuto il momento di stimolare alla grande l’economia interna e ridurre l’avanzo commerciale”. In uno degli ultimi fascicoli della “Pacific Asia Review”, tre economiste francesi, si domandano se non sia l’Asia ad avere la responsabilità dello squilibrio dei tassi di cambio all’interno del G20: i cinque maggiori Paesi del continente avrebbero tenuto artificialmente bassi i valori internazionali delle loro valute, specialmente dall’inizio del 2006. Sulla “Pacific Economic Review””, uno dei più noti economisti australiani, Rod Tyers, e due suoi allievi, Iain Bain e Yondxiang Bu, forniscono stime di quello che sarebbe dovuto il cambio dello yuan perché la Cina avesse avuto un saldo “normale” della bilancia commerciale. Ha una notevole eco negli Usa (ne ha parlato anche il “New York Times”) un lavoro di uno studioso italiano di storia economica, Antonio Mosconi del C.E.S.I di Torino. Lo studio riguarda la “supremazia mondiale del dollaro 1917-2008” ed avverte che il giorno del giudizio (“l’ultima convulsione internazionale della moneta Usa) sarebbe alle porte : con il 5% della popolazione ed il 20% del pil mondiale, nonché il 50% della spesa pubblica in difesa, gli Usa si sono assuefatti a stampare tra il 65 ed 70% delle riserve valutarie internazionali”. Il dollaro sarebbe davvero bucato. Saremmo alla vigilia di un drastico cambiamento negli equilibri del potere economico mondiale – e non solo.
Per saperne di più
P. Masson, J. Pattison "Financial Regulatory Reform: Using Models of Cooperation to Evaluate Current Prospects for International Agreement" (in corso di pubblicazione)
P. Cova, M. Pisani, A. Rebucci "Global Imbalances: The Role of Emerging Asia" IMF Working Paper No. 09/64

R. McKinnon, G. Schnabl "The Case for Stabilizing China's Exchange Rate: Setting the Stage for Fiscal Expansion" China & World Economy, Vol. 17, Issue 1, pp. 1-32, January-February 2009

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