Gli ultimi dati dell’Ocse e dei 20 centri internazionali di analisi econometrica -tutti privati, nessuno italiano, colloquialmente chiamati “il gruppo del consensus”- forniscono un quadro poco entusiasmante della ripresa di cui si vedono i primi spiragli.
Specialmente preoccupanti le previsioni Ocse:” la disoccupazione italiana salirà all'8,5% nel 2010 e all'8,7% nel 2011; il Pil italiano calera' del 4,8% quest'anno per poi tornare a crescere dell'1,1% il prossimo e dell'1,5% nel 2011; l'attività ha ripreso nel terzo trimestre, con il miglioramento delle condizioni finanziarie che ha ''aiutato a ricostituire la fiducia e spingere la domanda interna', ma ''sia il timing sia la forza della ripresa sono incerte''; salirà il debito pubblico italiano che nel 2011 sarà' al 120% con un deficit che resterà sopra il 5%.
In sintesi, secondo Château de la Muette (l’elegante sede parigina dell’Ocse), "sforzi significativi di consolidamento fiscale saranno dunque necessari (all’Italia) dal 2011 in poi, quando la crescita riprenderà'''. Più ottimistiche, almeno ad una prima lettura, la analisi del “consensus”. La nota riassuntiva precisa che “la recessione nell’area dell’euro è terminata poiché nei tre mesi conclusisi il 30 settembre, Il Pil della zona è aumentato dell0 0,4%”. “La crescita è stata sostenuta soprattutto in Germania (0,7%), ma anche Francia ed Italia hanno fatto la loro parte, con una crescita rispettivamente dello 0,3% e dello 0,6%, mentre le economia di Spagna e Grecia hanno continuato a contrarsi”. Una lettura attenta dei dati – i 20 modelli econometrici sono tutti della famiglia dello strumento neo-keynesiano sviluppato dal Premio Nobel Lawrence Klein, anche se hanno specifiche differenti l’uno dall’altro- non induce certo a stare allegri. Per l’Italia prevedono mediamente una crescita dello 0,8% rispetto all’1,2% della media dell’area dell’euro ed un aumento di coloro che cercano lavoro senza trovarlo analogo a quanto profetizzato a Château de la Muette.
Questo contesto generale suggerisce che la priorità del Governo e del Parlamento deve essere l’accelerazione della ripresa - obiettivo sul quale dovrebbero convergere le differenti “scuole di pensiero” (un tempo le si chiamava “anime” ) di cui è composta la maggioranza. Il nodo è come farlo, tenendo presente che la politica della moneta è ormai competenza del Sistema europeo di banche centrali (Sebc) guidato dalla Banca centrale europea (Bce) e che la finanza pubblica deve essere orientata a tornare a rispettare il “patto di crescita e stabilità”.
In primo luogo, occorre notare che, a ragione della recessione mondiale, 20 dei 27 Paesi dell’Ue e quasi tutti i Paesi dell’area dell’euro sono al di fuori dei limiti posti dal “patto”, specialmente in tema di indebitamento netto della Pa. Oggi, neanche gli interpreti più rigorosi dei trattati si sentono vincolati al “patto” (si veda la politica espansionista della Germania). Al tempo stesso, però, occorre rientrare con prudenza nei binari poiché ne va della credibilità dell’unione monetaria. Le stime Ocse e “consensus” pongono al 5% il rapporto tra indebitamento netto della Pa e Pil in Italia (invece del 3% posto come limite massimo dal “patto”).
E’ auspicabile non solo che il tetto non venga ulteriormente superato ma si rientri nell’alveo. Ciò comporta un interrogativo: ove si volesse o dovesse agire ulteriormente sulla politica di bilancio è preferibile aumentare la spesa o ridurre la pressione tributaria? Alberto Alesina e Silvia Ardagna hanno diramato in questi giorni a Harvard un paper (l’Harvard Institute of Economics Research Paper N. 2180) – in corso di pubblicazione – in cui si passano in rassegna una cinquantina di episodi di politica di accelerazione della crescita nei Paesi Ocse tra il 1970 ed il 2007: la riduzione del carico fiscale risulta più efficiente e più efficace dell’incremento della spesa pubblica. E’ un’indicazione chiara per Governo e Parlamento.
C’è anche spazio, però, per misure che non riguardano i conti pubblici. Alcuni mesi fa un lavoro econometrico del servizio studi della Bce avvertiva che le liberalizzazioni dei servizi potrebbero portare in Italia ad un aumento del Pil dell’11% su cinque anni di cui almeno la metà nei primi tre anni. Il 19 novembre il CEPR ha diramato uno studio condotto da una squadra di economisti italiani (il Discussion Paper N. 7470) da cui si evince che una più marcata azione antitrust nei confronti di posizioni dominanti grandi e piccole – la base empirica dell’analisi sono 22 comparti in 12 Paesi Ocse - darebbe un impulso alla produttività totale dei fattori di produzione e, quindi, alla crescita. Un invito questo alle varie autorità di settore, specialmente pregnante in momento in cui si discute sul futuro della rete di telecomunicazioni.
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