mercoledì 23 settembre 2009

Ragioni di cuore per essere tutti afgani in Ffwebmagazini 23 settembre

Lasciare la missione sarebbe voltare le spalle a un intero paese
Ragioni di cuore
per essere tutti afgani
Secondo il sito web www.icasualties.org, alla mezzanotte (ora di Greenwich) del 18 settembre, 1403 militari in missione di pace Nato hanno perso la vita in Afghanistan da quando nel 2001 è iniziata l’operazione. Tra essi 838 americani, 216 britannici e tra quelli di altre Nazioni, le perdite più numerose sono state di canadesi e di tedeschi. Il giorno prima dell’attentato-strage che ha falciato sei parà della Folgore, un titolo di apertura di prima pagina del New York Times ricordava ai propri lettori – in gran parte cittadini Usa – che «molte Nazioni soffrono le pene della guerra in Afghanistan». Attenzione: utilizzava il termine “Nazione” non quello più frequente “paese” o “Stato” e l’ampio servizio (circa una pagina intera del quotidiano) riportava un’analisi asettica delle ripercussioni delle perdite sull’opinione pubblica nell’ambito Nato. Il servizio veniva accostato ad uno, più breve, da Washington in cui si riferiva come lo Stato Maggiore americano si preparava a chiedere alla Casa Bianca un aumento dello sforzo militare, e, quindi, delle forze armate imperniate nell’impervie montagne e valli dell’Asia centrale.

Questo il contesto generale di una situazione in cui tutti i media ricordano correttamente che né le truppe di Sua Maestà britannica (ai tempi del massimo fulgore dell’Impero) né quelle sovietiche sono riuscite ad averla vita in un’area dove da sempre domina la guerriglia di clan tribali, ora accentuata dal fanatismo estremista e terrorista di matrici islamica.

I lettori di Ffwebmagazine sanno che sono un economista, non uno specialista di politica estera e tanto meno di strategia e tattica militare. Tuttavia, parte dei 24 di anni di vita professionale in Banca Mondiale (18) e agenzie specializzate delle Nazioni Unite (6) sono trascorsi lavorando sull’Asia. Per oltre un lustro uno dei miei migliori amici e colleghi è stato un architetto afghano (Zia Naimei) , morto vittima innocente di un gruppo terrorista giapponese nel cielo tra Penang e Kuala Lampur. Era persona colta e raffinata che aveva completato i propri studi a Zurigo e a Monaco, era sposato con un’intellettuale della Baviera, cucinava splendidamente la cucina della sua Nazione e conosceva profondamente la musica del romanticismo tedesco. La sua famiglia risiedeva a Kabul; il padre era stato alto funzionario dell’amministrazione afghana, i suoi fratelli e le sue sorelle erano di religione musulmana ma pensavano e agivano come occidentali. E si era non pochi anni fa, ma nella seconda metà degli Anni Settanta.

Il ricordo della morte, per mano di terroristi, di Zia non può non associarsi a quello dei 1403 (tra cui 21 nostri compatrioti) militari Nato che hanno perso la vita, per mano di terroristi, in Afghanistan. Oggi, infatti, sono afghano anche io. E dovrebbero esserlo tutti gli italiani nella consapevolezza che la lotta al terrorismo tra le valli e le montagne dell’Asia centrale non è soltanto per un Afghanistan libero ma anche per bloccare minacce alla libertà di tutti noi.

Le ragioni per la presenza Nato in Afghanistan sono identiche a quella della presenza Usa in Viet-Nam in anni che le nuove generazioni hanno coperto da una corte di oblio ma che non possono non avere plasmato profondamente chi, come me, ha vissuto a Washington dal 1967 al 1982 e ha visto numerosi compagni di università partire per l’Estremo Oriente volontari e non ritornare. Allora non si era alle prese con la difesa di un regime (quello dei vari Governi che si avvicendavano a Saigon) quanto meno discutibile ma delle libertà essenziali in tutta l’Asia meridionale e forse nel resto del mondo. Erano in corso varie forme di “insurgency” comunista – lo abbiamo dimenticato – in Malesia, in Indonesia, nelle Filippine. Dopo dieci anni di sforzo nel Viet-Nam quella battaglia fu persa, ma la guerra per la libertà nel resto dell’Asia fu vinta.

Phil McCoombs, mio compagno di studi e da giornalista del Washington Post vincitore di numerosi premi (anche perché fu prigioniero dei Viet-Cong e riuscì, in mondo rocambolesco, a scappare) nel saggio scritto a 30 anni della caduta di Saigon, sostiene, acutamente, che la battaglia venne persa solo temporaneamente: se gli “yankee” non avessero resistito per dieci anni, non avrebbe impiantato i semi su cui oggi , pur se in modo confuso e contradditorio, la libertà sta rinascendo nella Penisola.

Il parallelo tra Viet-Nam e Afghanistan è ancora più pregnante per due motivi: perché le montagne e le valli dell’Asia centrale non sono un baluardo di difesa di clan valenti ed orgogliosi come ai tempi dell’Impero britannico e dell’invasione sovietica, ma celano gruppi (minoritari) che sono diventati il motore ed il rifugio del terrorismo internazionale; e perchè persone come il mio compianto amico Zia e la sua famiglia dimostrano che c’è un Afghanistan moderno che può trainare il resto sulla via della modernizzazione, della crescita economica, del benessere, di una società più libera. Lasciare oggi, vorrebbe dire non solo voltare le spalle ai 1403 militari Nato caduti, ma anche al mio amico Zia. E ai tanti come lui.23 settembre 2009

Nessun commento: