Roma, 14 set (Velino) - “Il prigionier superbo” di Giovanni Battista Pergolesi, messo in scena al Festival di Jesi per la seconda volta in tempi moderni (circa tre lustri fa sempre nella città marchigiana ci fu un’esecuzione diretta da Marcello Panni e registrata dalla casa discografica Bongiovanni), è una di quelle opere che dovrebbero interessare unicamente gli storici della musica. Non è dato sapere se dopo le due rappresentazioni jesine ci saranno ulteriori riprese. Si era parlato di Treviso e anche di Montpellier, ma per una serie di ragioni la sola data certa è il ritorno a Jesi tra circa un anno, in occasione delle celebrazioni del terzo centenario della nascita di Pergolesi, uno dei genius loci della gradevole città. Da quanto visto al Festival, un evento interessante, pieno di buona musica, composto nel 1733 da un Pergolesi ventiquattrenne, che sarebbe morto due anni dopo, è stato praticamente distrutto da una regia macchinosa che ha reso lo spettacolo incomprensibile. Spiace per Henning Brockhaus che ci ha regalato memorabili spettacoli (“Traviata”, “Elektra”, “El Cimarron”, “Emperor Jones”, “Lucia di Lammermoor”,”Madama Butterfly”, per citarne solo alcuni), ma che questa volta ha toppato. In un’opera in cui si tratta di prigioni e prigionieri – lo dice il titolo stesso-, ha chiuso la porta del carcere e buttato la chiave più importante: quella di rendere comprensibile la vicenda al pubblico che, come diceva Flaiano, ha reagito con le gambe (al terzo atto molto file e diversi palchi erano vuoti) o dormendo.
A giustificazione del regista occorre dire che il libretto è farraginoso e privo di vera efficacia drammatica: una complessa vicenda (con lieto fine), di re spodestati e incatenati, matrimoni combinati, tradimenti e via discorrendo. Brockhaus ha pensato di risolverla facendo ricorso al Teatro Bunraku delle marionette. In effetti, l’azione è rappresentata dalla meravigliose marionette del “Teatro Pirata”. Mentre, però, nel Bunraku, gli attori/cantanti sono in tute nere, invisibili (si sente solo la voce), nell’edizione jesina del “Prigionier superbo” si svolge un’azione parallela con cantanti in abiti moderni e mimi. A rendere il tutto ancora più incomprensibile, dato che ai tempi di Pergolesi molti ruoli maschili venivano affidati a castrati (prassi che, grazie al Cielo, non si usa più), mentre oggi sono assegnati a soprano o mezzo soprano, le cantanti che impersonano giovani e focosi principi indossano abiti lunghi e decolté invece che pantaloni. Difficile capire, per quasi tutto lo spettacolo, chi impersoni un uomo e chi una donna, ingenerando caos e inducendo parte del pubblico a girare la manovella per lasciare il teatro o addormentarsi sulle note di Pergolesi. Non mancano momenti efficaci, ad esempio l’inizio del terzo atto. Il cast internazionale è magistrale. L’orchestra è di valore. La concertazione buona e trasparente. Ma una volta buttata la chiave della comprensione lo spettacolo non regge.
Sarebbe stato molto più semplice se ci si fosse chiesto, con grande umiltà, perché i napoletani andarono ad ascoltare e vedere la messa in musica di una vicenda così complicata, in una Norvegia del tutto improbabile. Nel 1733, data del debutto al Teatro San Bartolomeo, l’intreccio aveva un forte significato politico e sociale: era una metafora delle tensioni in corso in Europa e nella Napoli governata dai Borboni d’Austria. Tensioni che alcuni anni dopo sarebbero sfociate nella guerra di successione austriaca, nell’ascesa di Maria Teresa al trono e nella perdita della corona imperiale che da Vienna sarebbe passata a Monaco di Baviera. A leggere con cura il libretto, c’è tutto: dai riferimenti alla legge salica e alla sua abolizione, a quelli alla guerra di successione polacca e via discorrendo.
Le alternative registiche erano essenzialmente due: mostrare l’opera come percepita dai napoletani (quindi, impianto settecentesco, riferimento alle guerre di successione – semmai con un gioco di carte geografiche- , enfasi sull’abile soluzione dinastica finale – il re non più prigioniero ma custode del trono per la figlia, elemento di forte carica innovativa); oppure attualizzare il tutto alla politica italiana odierna come fece, ad esempio, Gregoretti nel 1994 con “L’elisir d’amore” di Donizetti: Prodi avrebbe potuto essere il re deposto, Veltroni e Franceschini a contendersene le spoglie, ecc... Nel primo caso, si sarebbe dovuta prendere la metafora sul serio. Nel secondo, utilizzare un bel po’ d’ironia. Un vero peccato. Nonostante una esecuzione musicale ineccepibile – ottima Marina Comparato –, i veggenti dicono che “Il prigionier superbo” rischia l’oblio per altri 300 anni o giù di lì.
(Hans Sachs) 14 set 2009 10:28
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